Ho pensato di fare cosa utile per i lettori di questo blog preparare una sintesi dell’enciclica Veritatis Splendor di San Giovanni Paolo II, un testo fondamentale. Buona lettura.

 

H. Hofmann, Gesù e il giovane ricco
H. Hofmann, Gesù e il giovane ricco

 Il dialogo di Gesù con il giovane ricco, riferito nel Vangelo di san Matteo, può costituire un’utile traccia per riascoltare in modo vivo il suo insegnamento morale [2]:

«Ed ecco un tale gli si avvicinò e gli disse: “Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?“. Egli rispose: “Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono. Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti”. Ed egli chiese: “Quali?”. Gesù rispose: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, onora il padre e la madre, ama il prossimo tuo come te stesso. Il giovane gli disse: “Ho sempre osservato tutte queste cose; che mi manca ancora?”. Gli disse Gesù: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi”«(Mt 19,16-21).

Nel giovane, che l’evangelista non nomina, possiamo riconoscere ogni uomo che, coscientemente o no, si avvicina a Cristo, Redentore dell’uomo, e gli pone la domanda morale. Per il giovane, prima che una domanda sulle regole da osservare, è una domanda di pienezza di significato per la vita. E, in effetti, è questa l’aspirazione che sta al cuore di ogni decisione e di ogni azione umana, la segreta ricerca e l’intimo impulso che muove la libertà. Questa domanda è ultimamente un appello al Bene assoluto che ci attrae e ci chiama a sé, è l’eco della chiamata stessa di Dio […].

Card. Joseph Ratzinger (Gettyimages)

Come scrisse il card. Ratzinger, allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede il 9 maggio 2003, con questa enciclica Giovanni Paolo II torna con grande decisione a dare legittimità alla prospettiva metafisica, come conseguenza della fede nella creazione. In questo modo, Egli riesce a collegare e fondere antropocentrismo e teocentrismo.

 

«Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?» (Mt 19,16) – L’interlocutore di Gesù è un pio israelita, cresciuto all’ombra della Legge del Signore. Se pone questa domanda a Gesù, possiamo immaginare che non lo faccia perché ignora la risposta contenuta nella Legge. È più probabile che il fascino della persona di Gesù abbia fatto sorgere in lui nuovi interrogativi intorno al bene morale […]. Come il giovane ricco, anche l’uomo di oggi con la sua inquietudine e incertezza, con la sua debolezza e peccaminositàdeve volgersi nuovamente verso Cristo per avere da Lui la risposta su ciò che è bene e ciò che è male e per comprendere fino in fondo se stesso.

Se vogliamo dunque penetrare nel cuore della morale evangelica, lasciamoci guidare da Gesù, mentre rispondendo al giovane, lo conduce, passo dopo passo, verso la verità piena.

Gesù gli dice: «Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono. Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti».

Egli indica così al suo interlocutore — e a tutti noi — che la risposta al suo interrogativo può essere trovata soltanto rivolgendo la mente e il cuore a Colui che «solo è buono»: solo Dio può infatti rispondere alla domanda sul bene, perché Egli è il Bene. La bontà, che attrae e al tempo stesso vincola l’uomo, ha la sua fonte in Dio, anzi è Dio stesso: […] Gesù riporta la questione dell’azione moralmente buona alle sue radici religiose, al riconoscimento di Dio, pienezza della vita, termine ultimo dell’agire umano, felicità perfetta.

[…] Ciò che l’uomo è e deve fare si manifesta nel momento in cui Dio rivela se stesso. Il Decalogo, infatti, si fonda su questa premessa:

«Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dèi di fronte a me» (Es 20,2-3).

 In tutta la Legge, Dio si fa conoscere come Colui che, nonostante il peccato dell’uomo, rimane il «modello» dell’agire morale: «Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo» (Lv 19,2); come Colui che, fedele al suo amore per l’uomo, gli dona la sua Legge, per ristabilirne l’originaria armonia col Creatore e con il creato, e ancor più per introdurlo nel suo amore: «Camminerò in mezzo a voi, sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo» (Lv 26,12).

La vita morale si presenta come risposta alle iniziative gratuite che l’amore di Dio moltiplica nei confronti dell’uomo:

«Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo: Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti, che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore; li ripeterai ai tuoi figli» (Dt 6,47).

 Il bene è appartenere a Dio, obbedire a Lui, camminare umilmente con Lui praticando la giustizia e amando la pietà. Riconoscere il Signore come Dio è il cuore della Legge, da cui discendono e a cui sono ordinati gli altri precetti.

Ma se Dio solo è il Bene, nessuno sforzo umano, neppure l’osservanza più rigorosa dei comandamenti, riesce a «compiere» la Legge, cioè a rendergli l’adorazione che a Lui solo è dovuta. Il «compimento» può venire solo da un dono di Dio: è l’offerta di una partecipazione alla Bontà divina

che si rivela e si comunica in Gesù. Ciò che ora il giovane riesce forse solo a intuire, verrà alla fine dell’incontro pienamente rivelato da Gesù stesso nell’invito: «Vieni e seguimi».

 

Etica morale moralismo giusto sbagliato

Contraria al  relativismo morale, l’enciclica afferma che la legge morale è universale, per tutte le persone delle differenti culture, essendo radicata nella stessa condizione umana: infatti indipendentemente da come e quanto una persona sia separata da Dio: «nella profondità del suo cuore permane sempre la nostalgia della verità assoluta e la sete di giungere alla pienezza della sua conoscenza.» (VS 1)  

 

Dio ha già dato risposta alla domanda sulla natura del bene: lo ha fatto creando l’uomo e ordinandolocon sapienza e con amore al suo fine, mediante la legge inscritta nel suo cuore (cfr. Rm 2,15), la «legge naturale».

Questa – come ha scritto San Tommaso: «altro non è che la luce dell’intelligenza infusa in noi da Dio. Grazie ad essa conosciamo ciò che si deve compiere e ciò che si deve evitare. Questa luce e questa legge Dio l’ha donata nella creazione». Lo ha fatto poi nella storia di Israele, in particolare con i comandamenti del Sinai, mediante i quali Egli ha fondato l’esistenza del popolo dell’Alleanza e l’ha chiamato ad essere «una nazione santa» (Es 19,56).

Per questo Gesù risponde al giovane: «Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti». Viene in tal modo enunciato uno stretto legame tra la vita eterna e l’obbedienza ai comandamenti di Dio: Gesù, nuovo Mosè, conferma definitivamente il Decalogo e lo propone a noi come via di salvezza. Il comandamento si lega a una promessa chenella Alleanza Antica riguardava il possesso di una terra in cui il popolo avrebbe potuto condurre liberamente un’esistenza secondo giustizia; nella Alleanza Nuova concerne invece il «Regno dei cieli», come Gesù afferma all’inizio del «Discorso della Montagna».

La risposta di Gesù non basta al giovane, che insiste interrogando il Maestro circa i comandamenti da osservare: Gesù gli ricorda allora: «Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, onora il padre e la madre, ama il prossimo tuo come te stesso». Compendio e fondamento di questi precetti è il comandamento dell’amore del prossimo: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Questo precetto esprime la singolare dignità della persona umana, «la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa».

I comandamenti rappresentano, la prima tappa necessaria nel cammino verso la libertà, il suo inizio:

«La prima libertà — scrive sant’Agostino — consiste nell’essere esenti da crimini… come sarebbero l’omicidio, l’adulterio, la fornicazione, il furto, la frode, il sacrilegio e così via. Quando uno comincia a non avere questi crimini (e nessun cristiano deve averli), comincia a levare il capo verso la libertà, ma questo non è che l’inizio della libertà, non la libertà perfetta…»[1].

Ciò non significa, certo, che Gesù intenda dare la precedenza all’amore del prossimo o addirittura separarlo dall’amore di Dio. Lo testimonia il suo dialogo col dottore della Legge: questi, che pone una domanda molto simile a quella del giovane, viene rimandato da Gesù ai due comandamenti dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo e invitato a ricordare che solo la loro osservanza conduce alla vita eterna. E quando il dottore della Legge gli chiede: «Chi è il mio prossimo?» (Lc 10,29), Gesù risponde con la parabola del buon Samaritano.

I due comandamenti, dai quali «dipende tutta la Legge e i Profeti» (Mt 22,40), sono in realtà profondamente uniti tra loro, come Gesù stesso ha testimoniato con la sua stessa morte in Croce, segno del suo indivisibile amore al Padre e all’umanità.

Sia l’Antico che il Nuovo Testamento sono espliciti nell’affermare che senza l’amore per il prossimo, che si concretizza nell’osservanza dei comandamenti, non è possibile l’autentico amore per Dio. Lo scrive con vigore straordinario san Giovanni:

«Se uno dicesse: “Io amo Dio”, e odiasse suo fratello, è un mentitore. Chi, infatti, non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4,20).

Nel «Discorso della Montagna», che costituisce la magna charta della morale evangelica, Gesù dice:

«Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento» (Mt 5,17).

[…] Gesù porta a compimento i comandamenti di Dio, in particolare il comandamento dell’amore del prossimo, interiorizzando e radicalizzando le sue esigenze: l’amore del prossimo scaturisce da un cuore che ama, e per questo è disposto a vivere le esigenze più alte. Gesù mostra che i comandamenti non vanno intesi come un limite minimo da non oltrepassare, ma piuttosto come una strada aperta per un cammino spirituale di perfezione. Così il comandamento «Non uccidere» diventa l’appello ad un amore sollecito che tutela e promuove la vita del prossimo; il precetto che vieta l’adulterio diventa l’invito ad uno sguardo puro, capace di rispettare il significato sponsale del corpo:

«Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio… Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda ad una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore (Mt 5,21-22.27-28). 

È Gesù stesso il «compimento» vivente e personale della Legge»: Egli ci invita a seguirlo e ci dona, mediante lo Spirito, la grazia di condividere il suo stesso amore e l’energia per testimoniarlo nelle scelte e nelle opere (cfr. Gv 13,34-35).

La risposta sui comandamenti non soddisfa ancora il giovane, che interroga Gesù: «Ho sempre osservato tutte queste cose; che cosa mi manca ancora?». Non è facile dire con buona coscienza: «ho sempre osservato tutte queste cose», se appena si comprende l’effettiva portata delle esigenze racchiuse nella Legge di Dio. E tuttavia, il giovane ricco sa di essere ancora lontano dalla meta: davanti alla persona di Gesù avverte che qualcosa ancora gli manca. Cogliendo la nostalgia per una pienezza che superi l’interpretazione legalistica dei comandamenti, il Maestro buono invita il giovane ad entrare nella strada della perfezione: 

«Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi».

Anche questo passo, come il precedente, deve essere interpretato nel contesto di tutto il messaggio morale del Vangelo, specialmente nel contesto del Discorso della Montagna, delle beatitudini, la prima delle quali riguarda proprio i «poveri in spirito», ossia gli umili.

Il Discorso di Gesù contiene anche un riferimento ai comandamenti (cfr. Mt 5,20-48) che ne mostra l’apertura alla prospettiva di perfezione indicata dalle beatitudini. Queste sono, anzitutto, promesse, da cui derivano in forma indiretta anche indicazioni per la vita morale. Nella loro profondità originale sono una specie di autoritratto di Cristo e, proprio per questo, sono inviti alla sua sequela e alla comunione di vita con Lui.

Il colloquio di Gesù con il giovane ci aiuta a cogliere le condizioni per la crescita morale dell’uomo chiamato alla perfezione: il giovane, che ha osservato tutti i comandamenti, si dimostra tuttavia incapace con le sole sue forze di fare il passo successivo. Per farlo occorrono una libertà umana matura: «Se vuoi», e il dono divino della grazia: «Vieni e seguimi». Gesù indica al giovane i comandamenti come la prima condizione irrinunciabile per avere la vita eterna; l’abbandono di tutto ciò che il giovane possiede e la sequela del Signore assumono invece il carattere di una proposta: «Se vuoi…».

La parola di Gesù attesta il fondamentale rapporto della libertà con la legge divina. La libertà dell’uomo e la legge di Dio non si oppongono, ma, al contrario, si richiamano a vicenda. Il discepolo di Cristo sa che la sua è una vocazione alla libertà.  «Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà» (Gal 5,13), proclama con gioia e fierezza l’apostolo Paolo. Subito però precisa: «Purché questa libertà non divenga pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri». La fermezza con la quale l’Apostolo si oppone a chi affida la propria giustificazione alla Legge, non ha nulla da spartire con la «liberazione» dell’uomo dai precetti, i quali al contrario sono al servizio della pratica dell’amore:

«Perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge. Infatti il precetto: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Rm 13,8-9).

Chi vive «secondo la carne» sente la legge di Dio come un peso, come una restrizione della propria libertà. Chi, invece «cammina secondo lo Spirito» (Gal 5,16) trova nella legge di Dio la via fondamentale per praticare in «pienezza» l’amore liberamente scelto e vissuto: è un percorso ancora incerto e fragile fin che siamo sulla terra, ma reso possibile dalla grazia che ci dona la piena libertà dei figli di Dio (cfr. Rm 8, 21).

La via e, nello stesso tempo, il contenuto di questa perfezione consiste nella sequela Christi, nel seguire Gesù, dopo aver rinunciato ai propri beni e a se stessi. Proprio questa è la conclusione del colloquio di Gesù con il giovane: «Poi vieni e seguimi» […]. L’appello di Gesù è rivolto innanzi tutto a coloro ai quali egli affida una particolare missione, a cominciare dai Dodici; ma essere discepoli di Cristo è la condizione di ogni credente. Per questo, seguire Cristo è il fondamento essenziale e originale della morale cristiana: come il popolo d’Israele seguiva Dio che lo conduceva nel deserto verso la Terra promessa, così il discepolo deve seguire Gesù, verso il quale il Padre stesso lo attira (cfr. Gv 6,44).

Non si tratta qui soltanto di mettersi in ascolto di un insegnamento: si tratta, più radicalmente, di aderire alla persona stessa di Gesù […infatti egli] chiede di seguirlo e di imitarlo sulla strada di un amore che si dona totalmente ai fratelli per amore di Dio:

«Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,34-35).

Questo «come» indica anche la misura con la quale Gesù ha amato, e con la quale devono amarsi tra loro i suoi discepoli: «sino alla fine» (Gv 13,1). Le sue parole rimandano al sacrificio della sua vita sulla croce; Gesù infatti prosegue: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). È quanto Gesù chiede ad ogni uomo che vuole mettersi alla sua sequela: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16,24).

Seguire Cristo non è una imitazione esteriore: inserito con il battesimo in Cristo, il cristiano diventa membro del suo Corpo, che è la Chiesa ed è chiamato a camminare secondo lo Spirito e a manifestarne nella vita i frutti. La partecipazione poi all’Eucaristia di cui Gesù comanda di far memoria nella celebrazione e nella vita è il vertice dell’assimilazione a Cristo, principio e forza del dono totale di sé: «Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga» (1 Cor 11,26).

Amara è la conclusione del colloquio di Gesù con il giovane ricco: «Udito questo, il giovane se ne andò triste; poiché aveva molte ricchezze». Gli stessi discepoli sono spaventati dall’appello di Gesù alla sequela, le cui esigenze superano le esigenze e le forze umane: «A queste parole i discepoli rimasero costernati e chiesero: “Chi si potrà dunque salvare?”. Ma il Maestro rimanda alla potenza di Dio: «Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile» (Mt 19,25-26).

Nel medesimo capitolo del Vangelo di Matteo, Gesù, interpretando la Legge mosaica sul matrimonio, rifiuta il diritto al ripudio, richiamando il disegno nativo di Dio sull’uomo, un disegno al quale l’uomo dopo il peccato è diventato inadeguato: «Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così» (Mt 19,8). Il suo richiamo sgomenta i discepoli, che commentano: «Se questa è la condizione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi». E Gesù, rimandando alla nuova e sorprendente possibilità aperta all’uomo dalla grazia di Dio, risponde loro: “Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso”.  […] Si rivela così il volto autentico e originale del comandamento dell’amore e della perfezione alla quale esso è ordinato: si tratta di una possibilità aperta all’uomo esclusivamente dalla grazia di Dio, dal suo amore. D’altra parte, proprio la coscienza di aver ricevuto tale dono, genera e sostiene la risposta di un amore pieno verso Dio e tra i fratelli, come con insistenza ricorda l’apostolo Giovanni nella sua prima Lettera: 

«Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore… Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri… Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo» (1 Gv 4,7-8.11.19).

 

Giovanni Paolo II

La meditazione del dialogo tra Gesù e il giovane ricco – si legge ancora nell’Enciclica – ci ha permesso di raccogliere i contenuti essenziali della Rivelazione dell’Antico e del Nuovo Testamento circa l’agire morale. Essi sono: la subordinazione dell’uomo e del suo agire a Dio, Colui che «solo è buono»; il rapporto tra il bene morale degli atti umani e la vita eterna; la sequela di Cristo, che apre all’uomo la prospettiva dell’amore perfetto; ed infine il dono dello Spirito Santo, fonte e risorsa della vita morale della «creatura nuova»

 

Questa connessione inscindibile tra la grazia del Signore e la libertà dell’uomo, tra il dono e il compito, è stata espressa in termini semplici e profondi da sant’Agostino, che così prega: «Da quod iubes et iube quod vis» (dona ciò che comandi e comanda ciò che vuoi).

Il dono non diminuisce, ma rafforza l’esigenza morale dell’amore: si può infatti «rimanere» nell’amore – come afferma Gesù – solo a condizione di osservare i comandamenti:

«Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore» (Gv 15,10).

 La Legge Nuova è la grazia dello Spirito Santo donata mediante la fede in Cristo agli Apostoli nel giorno di Pentecoste: essa non si contenta di prescrivere ciò che si deve fare, ma dona anche la forza di farlo. (cfr. Gv 3,21).

«Ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo» (Mt 28,20) – Il colloquio di Gesù con il giovane ricco continua, in un certo senso, in ogni epoca della storia, anche oggi. La domanda sulla natura del bene sboccia nel cuore di ogni uomo, ed è sempre e solo Cristo a offrire la risposta piena e risolutiva. Il Maestro, che insegna i comandamenti di Dio, che invita alla sequela e dà la grazia per una vita nuova, è sempre presente e operante in mezzo a noi, secondo la sua promessa. La contemporaneità di Cristo all’uomo di ogni tempo si realizza nel suo corpo, che è la Chiesa. Per questo il Signore promise ai suoi discepoli lo Spirito Santo, che avrebbe fatto comprendere loro i suoi comandamenti e sarebbe stato principio di una vita nuova nel mondo.

Le prescrizioni morali, impartite da Dio nell’Antica Alleanza e giunte alla loro perfezione nella persona stessa del Figlio di Dio fatto uomo, devono essere fedelmente custodite e permanentemente attualizzate nelle differenti culture lungo il corso della storia. Il compito della loro interpretazione è stato affidato da Gesù agli Apostoli e ai loro successori, con l’assistenza speciale dello Spirito di verità: «Chi ascolta voi ascolta me» (Lc 10,16). Con la luce e la forza di questo Spirito gli Apostoli hanno predicato il Vangelo e insegnato la sequela e l’imitazione di Cristo.

Il compito affidato da Gesù agli Apostoli di promuovere e custodire, nell’unità della Chiesa, la fede e la vita morale, prosegue nel ministero dei loro successori. […] Nessuna lacerazione deve infatti attentare all’armonia tra la fede e la vita: l’unità della Chiesa è ferita non solo dai cristiani che rifiutano o stravolgono le verità della fede, ma anche da quelli che misconoscono gli obblighi morali a cui li chiama il Vangelo.

[…] Lo stesso Spirito, che è all’origine della Rivelazione degli insegnamenti di Gesù, garantisce che vengano santamente custoditi, fedelmente esposti e correttamente applicati nel variare dei tempi e delle circostanze. Questa «attualizzazione» dei comandamenti è segno e frutto di una più profonda penetrazione della Rivelazione e di una comprensione alla luce della fede delle nuove situazioni storiche e culturali. Essa, tuttavia, non può che confermare la permanente validità della Rivelazione e inserirsi nel solco dell’interpretazione che ne dà la grande Tradizione di insegnamento e di vita della Chiesa, di cui sono testimoni la dottrina dei Padri, la vita dei Santi, la liturgia della Chiesa e l’insegnamento del Magistero. In tal modo la Chiesa, nella sua vita e nel suo insegnamento, si presenta come «colonna e sostegno della verità» (1 Tm 3,15), anche della verità circa l’agire morale. Infatti, «è compito della Chiesa annunziare sempre e dovunque i principi morali anche circa l’ordine sociale, e così pure pronunciare il giudizio su qualsiasi realtà umana, in quanto lo esigano i diritti fondamentali della persona umana o la salvezza delle anime»[4].

 


 

[1] Partendo dalla dolorosa constatazione che il patrimonio morale della fede cristiana è oggi messo in discussione tra gli stessi credenti, il Pontefice – in questo documento destinato a tutti i vescovi –  esprime la posizione della Chiesa cattolica sulla condizione dell’uomo davanti al bene e al male, e sul ruolo della Chiesa nell’insegnamento morale. L’enciclica è uno degli interventi magisteriali di teologia morale più completi e filosoficamente fondati della tradizione cattolica. Venne promulgata il 6 agosto 1993.

[2] I termini in corsivo sono presenti nel testo originale: qui viene proposta la lettura di buona parte del primo dei tre capitoli di cui si compone l’Enciclica.

[3] Agostino, In Johannis Evangelium Tractactus, 41, 10: CCL 36, 363.   

[4]Codice di Diritto Canonico, can. 747, 2.


 
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