“Il papa non può fare quello che vuole, e sono cattivi cattolici quelli che glielo lasciano credere. Quando il papa pensa e si comporta così è un anti-papa, senza bisogno di essere un antipapa.”

Di seguito un articolo del prof. Leonardo Lugaresi ripreso dal suo blog

 

Statua-di-San-Pietro-bronzea-nella-Basilica-di-San-Pietro

 

Dante tiene unite due cose che noi tendiamo sempre a separare: la contemplazione del Cielo e lo sguardo sulla terra. Lui ci vede bene, noi siamo strabici: se guardiamo il Cielo, pensiamo di doverci dimenticare la terra; la terra così com’è, piena di lacrime, merda e sangue. Se guardiamo la terra – intendo se la guardiamo seriamente – ne restiamo così impressionati da temere (o da pensare) che essa neghi l’esistenza stessa del Cielo. Per questo motivo la maggior parte di noi, ormai, non guarda più né la terra né il Cielo, ma si limita a vagare con gli occhi qua e là, senza posarli su nulla di reale: una volta si guardavano le vetrine; ora che anche quelle stanno scomparendo, si abbassa lo sguardo sullo smartphone, illudendosi che lì ci sia vita.

Dante, invece, contempla il Cielo senza mai dimenticare la terra e per tutto il poema guarda intensamente la terra – «poeta del mondo terreno» lo definì definitivamente Auerbach – con la memoria viva del Cielo nella sua mente. Per questo la Commedia, come si usa dire, è veramente “il mondo terreno sub specie aeternitatis”. Qui, nel canto XXVII, l’intreccio dei due temi, o piuttosto dei due poli, è determinante e forma la struttura stessa della composizione. Dall’adorazione del Gloria iniziale, passiamo immediatamente alla denuncia, anzi all’invettiva contro “il male del male” della terra, cioè la corruzione della chiesa.

Flannery O’ Connor una volta ha scritto: «Credo che la Chiesa sia l’unica cosa che renderà sopportabile il mondo terribile verso il quale ci stiamo avviando; l’unica cosa che rende sopportabile la Chiesa è che, in qualche modo, è il Corpo di Cristo e di questo siamo nutriti. […] Se si crede nella divinità di Cristo si deve aver caro il mondo nello stesso momento in cui si lotta per sopportarlo». Ecco perché la corruzione nella chiesa (e della chiesa, in una certa misura) è “il male del male”, la cosa peggiore in assoluto – per quanto orribili siano le cose del mondo. Perché a rimedio, o antidoto, delle insopportabili brutture del mondo c’è appunto la chiesa: ma se l’antidoto diventa anch’esso veleno (o il sale diventa scipito, che è un altro modo di dire la stessa cosa), che cosa ci resta?

Dunque, qui nel cielo delle stelle fisse, dopo quel Gloria trionfale che ci è appena dilagato nel cuore, la luce di Pietro ad un tratto si fa rossa rossa e tutti i cori angelici tacciono d’improvviso, come ammutoliti di fronte all’ira del principe degli apostoli, che rivolto a Dante parla così (vv. 22-27):

Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio,
il luogo mio, il luogo mio che vaca
ne la presenza del Figliuol di Dio,


fatt’ ha del cimitero mio cloaca
del sangue e de la puzza; onde ’l perverso
che cadde di qua sù, là giù si placa.

L’usurpatore è inequivocabilmente Bonifacio VIII, papa regnante nel 1300 quando si immagina che queste parole vengano pronunciate, ma per favore non scambiamo Dante per uno di quei sedevacantisti da strapazzo che oggi sono in circolazione. Dante non ha alcun dubbio sulla legittimità formale del pontificato di Bonifacio, né gli interessa metterla in discussione: cosa ne pensi del papa in quanto papa (anche di Benedetto Caetani!) lo ha detto magnificamente nel canto XX del Purgatorio (che noi sbrigammo un po’ alla bersagliera – leggi qui): «veggio in Alagna intrar lo fiordaliso, / e nel vicario suo Cristo esser catto. // Veggiolo un’altra volta esser deriso; / veggio rinovellar l’aceto e ‘l fiele, / e tra vivi ladroni esser anciso» (vv. 86-90). Il papa percosso, in quanto papa, dal re di Francia è come Cristo in croce.

Il punto qui non è appena, come tanti commentatori ripetono, il personale risentimento di Dante contro un papa che gli aveva rovinato la vita. Le parole che fa pronunciare a Pietro sono molto più profonde e più terribili delle chiacchiere di certi blog antipapisti di oggi, perché spalancano alla possibilità – tremenda ma reale – che il papa, se è un cattivo papa, svolga una funzione oggettivamente “anticristica” (e l’accenno, rabbrividente, al «perverso» caduto dal cielo che «là giù si placa» è eloquente a questo proposito). Se succede questo, se la corruzione prende il sopravvento nella chiesa, essa diventa peggiore del mondo: sangue e merda, come sopra abbiamo detto, parafrasando semplicemente il dettato dantesco: «cloaca / del sangue e de la puzza».

Il papa è tale in quanto è il successore di Pietro, investito della funzione di adempiere al mandato petrino di «confermare nella fede» i suoi fratelli (Lc 22,32). Il cattivo papa che fa altro da questo «usurpa» – dice il Pietro dantesco – «il luogo mio / il luogo mio, il luogo mio». Prendiamo sul serio questa triplice anafora, che non è soltanto il riverbero stilistico-retorico dell’apostolica incazzatura, ma indica un punto sostanziale: il luogo è mio, dice san Pietro, ossia il mandato è petrino e basta. Non nel senso in cui anche gli ortodossi e certi protestanti sono disposti ad ammettere un primato di Pietro che però finisce con lui e non si trasmette ai vescovi di Roma, bensì nel senso che ciò che si trasmette è quel mandato e nient’altro. Non esiste un mandato di Cristo a Bonifacio o a qualunque altro dei duecentosessanta e rotti papi pro tempore della storia. Il mandato è solo uno, quello dato a Pietro. E quel mandato non è un potere conferito al papa: a Pietro, infatti, Gesù dice esplcitamente che la sua funzione di pascere le pecore si esercita in una assoluta obbedienza, espressa addirittura nella forma di un essere legato: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi» (Gv 21, 17-18).

Sono i papi come Bonifacio a pensare di avere le mani libere, come si è visto splendidamente nell’altro episodio dantesco che lo riguarda: ricordate il canto di Guido da Montefeltro (Inf. XXVII: toh, come questo!)? Ricordate la disinvoltura di quel papa furbissimo nel maneggiare le “sacre chiavi” che quel fesso del suo predecessore aveva ceduto?

Lo ciel poss’io serrare e diserrare,
come tu sai; però son due le chiavi
che ’l mio antecessor non ebbe care
.

Il papa non può fare quello che vuole, e sono cattivi cattolici quelli che glielo lasciano credere. Quando il papa pensa e si comporta così è un anti-papa, senza bisogno di essere un antipapa. E i fedeli che pensano che “il papa può fare quello che vuole” perché è Dio che l’ha messo lì per questo, saranno buoni papisti ma sono cattivi cattolici. Detto questo, che mi pare sia il cuore di tutta la faccenda, ci resta solo da aggiungere un’altra annotazione: nei versi che sopra abbiamo riportato il terzo membro dell’anafora sfocia in un’espressione densa, oscura e sfidante: «il luogo mio che vaca / ne la presenza del Figliuol di Dio» (vv. 23-24). Che significa? Solo che la sede petrina è di fatto “vacante” al cospetto di Cristo, anche quando formalmente un papa regnante c’è, quando colui che esercita l’ufficio ne è indegno – così come abitualmente il verso viene spiegato dai commentatori (anche la nostra maestra, Annamaria Chiavacci Leonardi, intende così) – o c’è dell’altro? Me lo chiedo perché a me pare che l’espressione dantesca contenga una voluta, e molto significativa contraddizione: il «luogo mio», dice Pietro, cioè il munus che è mio (e solo mio) in quanto mi è stato affidato da Cristo e che io come tale, nella sua irripetibile unicità consegno ai miei successori, è al tempo stesso un pieno e un vuoto. “Vicario di Cristo”: si mediti sulla precaria ambiguità di questa espressione! “Vicario” è colui che fa le veci, è in tutto e per tutto, agli effetti pratici, come colui che rappresenta: avere lui o il suo vicario è la stessa identica cosa. In questo senso, però, può veramente darsi un “vicario” di Cristo o il papa può esserlo solo in un modo del tutto sui generis, in cui il pieno del mandato (compito di ammaestrare tutte le nazioni e autorità di sciogliere e di legare!) coesiste con il vuoto di una distanza che resta abissale ed incolmabile tra il Maestro e i discepoli, il Figlio unigenito e i figli di adozione, Dio e gli uomini? È possibile che proprio a questo alluda lo stupendo ossimoro «vaca / ne la presenza»?

A questo punto, seguiamo pure con muta attenzione il resto della sfuriata (non vi è certo da mangiare il popcorn), assaporando come Pietro – cioè come in nome suo il laico battezzato Dante Alighieri, devoto cattolico – sa parlare al papa (e con lui ai cardinali, vescovi e preti che lo attorniano):

Non fu la sposa di Cristo allevata
del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto,
per essere ad acquisto d’oro usata;

ma per acquisto d’esto viver lieto
e Sisto e Pïo e Calisto e Urbano
sparser lo sangue dopo molto fleto.

Non fu nostra intenzion ch’a destra mano
d’i nostri successor parte sedesse,
parte da l’altra del popol cristiano;

né che le chiavi che mi fuor concesse,
divenisser signaculo in vessillo
che contra battezzati combattesse;

né ch’io fossi figura di sigillo
a privilegi venduti e mendaci,
ond’ io sovente arrosso e disfavillo.

In vesta di pastor lupi rapaci
si veggion di qua sù per tutti i paschi:
o difesa di Dio, perché pur giaci?

Da un predica così si uscirebbe con le ossa rotte e il morale sotto i piedi, se non fosse per la promessa finale: «Ma l’alta provedenza […] soccorrà tosto» (vv. 61.63). Quanto a Dante, sa già qual è il suo compito ma per sicurezza qui gli viene ribadito: «apri la bocca, / e non asconder quel ch’io non ascondo» (vv. 65-66). Oportet ut scandala eveniant.

 

di Leonardo Lugaresi

 


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