Jean-Paul Sartre

 

 

di Mattia Spanò

 

Un senzatetto ubriaco pestato selvaggiamente a Roma. A Montello, un autista investe un motociclista dopo una lite al semaforo uccidendolo. Ad Assago, in un supermercato, un uomo ne ha ucciso un altro, ferendo sei persone con un coltello preso da uno scaffale.

Ricordiamo tutti il tragico caso di Alessia Pifferi, la madre che fece morire la figlia di pochi mesi di stenti per trascorrere qualche giorno col compagno. O il pestaggio e l’omicidio di Alika Ogorchukwu avvenuto per strada a Civitanova Marche nell’indifferenza generale.

Sono alcuni esempi che possiamo trarre dalle notizie di ogni giorno. Casi estremi che emergono da un milieu socioculturale endemico. Alcuni assurgono alla cronaca nazionale, la maggior parte restano confinati alle cronache locali, perché ormai considerati normali. Ciò che viola la norma diventa norma a sua volta, traghettando pensiero e azione in un pericoloso fatalismo annichilente: sono cose che capitano.

Ciò che viene mostrato dai media viene in qualche modo svelato. Lo svelamento è apocalisse, rivelazione. Vengono meno sia la fede (non si crede ciò che si vede e tocca), sia il timore e la paura, che sono solide fondamenta negative della morale.

Metto questi tragici fatti in relazione all’ondata di sdegno che segue il reintegro dei medici no-vax, vicenda sulla quale il primario Roy De Vita ha pronunciato parole nette ed eleganti.  Lo faccio non certo in relazione alla gravità ma perché il livello di intolleranza nei confronti dell’altro, chiunque sia, ha raggiunto livelli  insostenibili, sia sul piano intellettuale che spirituale e pratico.

La pandemia, l’isolamento, la paura del contagio, hanno minato l’abitudine ai rapporti sociali, ulteriormente compromessi da misure coercitive e restrittive non solo completamente inutili, ma frutto di menti gravemente disturbate esentate, Dio sa perché a chi tutto e a chi niente, dal minimo refolo di intelligenza.

Ciò che mancava da prima è la coscienza dell’importanza dell’altro. E con ‘altro’ non intendo la moglie, il marito, i figli, i genitori, l’amico d’infanzia, ma il perfetto sconosciuto.

Il venire meno dell’abitudine nel vuoto della coscienza ha scatenato una furia scomposta, un odio implacabile per chiunque pensi, agisca, viva in modo diverso da noi. Vale a dire tutti, dando apparentemente ragione a Sartre quando scriveva che “l’inferno sono gli altri”.

Il ragionamento di Sartre è in realtà più sottile. Come spiega lui stesso:

“Si è pensato che volessi con questo dire che le nostre relazioni con gli altri sono sempre avvelenate, che si tratta sempre di rapporti infernali. In realtà, quello che voglio dire è un’altra cosa. Voglio dire che, se i nostri rapporti con gli altri sono intricati, viziati, allora l’altro non può che essere l’inferno. Perché? Perché… quando noi ci pensiamo, quando cerchiamo di conoscerci… noi utilizziamo quelle conoscenze che gli altri hanno già di noi. Noi ci giudichiamo con i mezzi che gli altri hanno, ci hanno dato per giudicarci. Qualsiasi cosa io dica su di me, c’è sempre dentro il giudizio degli altri… Ma questo non vuol dire assolutamente che non si possano avere rapporti differenti con gli altri. Sottolinea semplicemente l’importanza capitale di tutti gli altri per ognuno di noi”.

Parto da un giudizio espresso da un pensatore molto distante dalla mia sensibilità, perché proprio la distanza mi sembra attesti la necessità comune di esprimere in qualche forma questa “importanza capitale dell’altro” come fondamento della convivenza civile. Vale a dire come necessità imprescindibile: non chiacchiera vuota e un po’ offensiva, ma rischio personale costruttivo.

Piaccia o meno, lo stare insieme è diventato il male. Naturalmente ciò viene sancito tramite esempi ‘negativi’: lo sgombero da parte dei tifosi dell’Inter della Curva Nord, la nuova legge contro i rave party. Tutti ricordano, chi con piacere chi con dolore e indignazione, lo sgombero dei portuali triestini.

Si sta teorizzando la dissoluzione della società come condizione evolutiva non differibile. Le conseguenze anche economiche – l’economia è relazione – sono già catastrofiche (gli stessi colossi del digitale bruciano montagne di denaro e accumulano perdite), ma sembra che la credenza paganeggiante e barbara che le cose vadano avanti col “pilota automatico”, per citare la suburra governativa tentata da Draghi, abbia ormai infestato il subconscio delle persone.

Non ne faccio qui una banale questione di vax, no-vax, green pass, no-green pass, destra o sinistra. Il punto è più profondo, mi sembra.

Lo descriverei così: se non c’è almeno il sospetto di Dio, tutta l’esistenza è ridotta ad un tempo e uno spazio noiosamente futili. Un luogo in cui vita e morte, prima che bene e male, sono la stessa cosa. Un momento in cui ‘vita’ è solo e soltanto l’assistere alla morte altrui.

Le persone augurano la morte, gioiscono della morte, la evocano, sono indifferenti alla morte come mai prima d’ora perché sono incapaci di vivere con gli altri. La morte altrui, beninteso, perché in fondo l’unica idea che ne possiamo avere proviene dallo spettacolo della morte che tocca altri, non certo la nostra cui non possiamo assistere.

Quest’aria da giochi del circo che si respira ovunque, il grande spettacolo che si è fatto della morte morbosa, non è nemmeno temperata da una civiltà di contorno, per la quale bisogna sempre e comunque supporre miti fondanti e divinità a presiedere le cose, e per mantenerla vivida è indispensabile coltivare una minima forma di pietas.

Anche la fede nella scienza, nella finanza, nel progresso si deterioreranno senza fallo, perché senza l’altro non c’è nemmeno l’inferno.

 


 

 

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