di Lucia Comelli
Nel maggio del 1960 agenti del Mossad catturano in Argentina, dove era fuggito dopo la disfatta tedesca, Adolf Eichmann, il tenente – colonello delle SS che aveva coordinato la deportazione degli Ebrei verso i campi di sterminio. La Arendt decide di seguire di persona il processo a Gerusalemme, facendosi mandare da un giornale americano come inviata speciale. Da quest’esperienza esce un libro – La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme[1] – attraversato da cima a fondo da un costante senso di spaesamento: dopo aver incontrato in tribunale Eichmann, la studiosa lo descrisse al marito come “un uomo grigio, piccolo, un coglione“. Quello che, nell’immaginario collettivo, era un mostro efferato, si presentava ora come una persona qualunque, del tutto sana mentalmente, che non uccise mai nessuno con le sue mani e che addirittura svenne alla vista del sangue; egli era, in altri termini, semplicemente un “funzionario delle fabbriche della morte“. Di fronte a lui, la teoria del “male radicale” – precedentemente elaborata dalla studiosa – girava a vuoto:
Ho cambiato idea e non parlo più di “male radicale”. […] Quel che ora penso veramente è che il male non è mai “radicale”, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla sua superficie come un fungo. Esso “sfida” […] il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e, nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua “banalità”. Solo il bene è profondo e può essere radicale.
A questo punto, la pensatrice comincia ad elaborare una diversa spiegazione della Shoah, simile a quella della “zona grigia” di Levi, che comunica a Scholem (fino a quel momento, suo amico fraterno) in una lettera del 1963: Eichmann non è un mostro sadico: al contrario, egli non odia gli ebrei, si limita ad organizzarne il trasporto ferroviario nei campi di sterminio, ossia si preoccupa soltanto che i treni arrivino in orario, senza curarsi minimamente del loro carico. Ne emerge, la figura di un Ponzio Pilato che non giudica mai e che è sconvolto quando i nazisti optano per la “soluzione finale” (il suo progetto era quello di invadere il Madagascar e di esiliarvi gli ebrei). Arendt sostiene quindi che “Eichmann non pensa“: egli agisce in modo meccanico ed è “obbediente come un cadavere“. Chiamato a difendersi, Eichmann sostiene di aver obbedito ai comandi che gli sono stati impartiti. Alla domanda se quello dell’ufficiale tedesco fosse un comportamento obbligato, la Arendt risponde negativamente citando l’esempio della Danimarca, l’unico Paese che si era fermamente opposto all’invasione della Germania e alle sue idee aberranti. Non è vero che ogni uomo sia disposto – in determinate circostanze – a compiere atrocità: è tuttavia necessario – perché ciò non si verifichi – saper pensare ed essere giudici del proprio agire (l’autrice qui si richiama a Socrate e all’importanza, già sottolineata dal filosofo greco, di un costante dialogo con se stessi). Per chiarire questo punto, Arendt adduce l’esempio della Danimarca, l’unico Paese che si era fermamente opposto all’invasione della Germania e alle sue idee aberranti. Certo, non tutti possono essere eroi e intraprendere una resistenza attiva, poiché – come giustamente notava don Abbondio – il coraggio non ce lo possiamo auto-infondere, e tuttavia, tutti possono rifiutarsi di obbedire, facendo resistenza passiva. Un’altra questione – collegata alla precedente – che la pensatrice solleva è quella che un’intera società può sottostare ad un totale cambiamento degli standard morali, senza che i suoi cittadini emettano alcun giudizio circa ciò che sta accadendo: da questo punto di vista, sono convinta che questo memorabile testo della Arendt offra molteplici spunti di riflessione per comprendere anche quello che sta avvenendo in Italia negli ultimi due anni, nei quali la logica emergenziale sembra aver oscurato – nella prassi politica come nella coscienza di molte persone – ideali fondamentali.
[1] Con la pubblicazione di quel libro inoltre la scrittrice, anche lei ebrea e come tale perseguitata dal regime nazista, perderà tutti i suoi più cari amici (tra cui Hans Jonas) e sarà ripetutamente accusata di “insensibilità”.
Primo Levi e la zona grigia A distanza di vent’anni dal libro: Se questo è un uomo, lo scrittore affronta il problema del male in una mutata prospettiva che possiamo facilmente comprendere leggendo alcuni passaggi de I sommersi e i salvati, in cui egli osserva che i suoi carnefici: “erano infatti della nostra stessa stoffa […], erano esseri umani medi […] non erano mostri […] avevano un viso come il nostro“. Chi compie il male non è più inteso come una persona assolutamente diversa da chi lo subisce; viceversa, è un essere umano come gli altri e, proprio in ciò, sta la banalità del male, il fatto che chiunque altro avrebbe potuto compierlo. A tal proposito, Levi adduce l’esempio dei “comandi speciali” con cui era affidato agli ebrei stessi l’ingrato compito di uccidere gli altri ebrei per ottenere in cambio qualche mese di “non morte”. Centrale nell’opera è la scena della partita di calcio disputata tra i prigionieri del lager e i guardiani: per un momento è come se si tornasse alla normalità, benché si tratti di una partita disputata “davanti alle porte dell’inferno“. Con la prospettiva della “zona grigia” subentra un nuovo elemento di inquietudine: alla drammatica possibilità di finire noi stessi vittime di un lager o di diventare spettatori indifferenti del male, si aggiunge l’altrettanto tragica possibilità di diventare i carnefici.
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