di Lucia Comelli
Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi (Gv 8,32)
Nella riflessione morale contemporanea il rispetto della coscienza nel suo cammino verso la verità è sentito sempre più come fondamento dei diritti della persona, considerati nel loro insieme. E questa costituisce certamente un’acquisizione positiva della cultura moderna (VS 31)
Tuttavia, in alcune correnti del pensiero contemporanee, si è giunti ad esaltare la libertà al punto di sradicarla dal suo essenziale e costitutivo rapporto con la verità, facendone un assoluto:
All’affermazione del dovere di seguire la propria coscienza si è indebitamente aggiunta l’affermazione che il giudizio morale è vero per il fatto stesso che proviene dalla coscienza. Ma, in tal modo, l’imprescindibile esigenza di verità è scomparsa, in favore di un criterio di sincerità, di autenticità, di accordo con se stessi (VS 32)
Persa l’idea di una verità universale sul bene, conoscibile dalla ragione umana, si è allora diffusa, anche tra i teologi, una concezione radicalmente soggettivista ed individualistica della coscienza e del giudizio morale che tende a considerare la ragione del singolo come fonte autonoma di valori e norme morali:
Persa l’idea di una verità universale sul bene, conoscibile dalla ragione umana, è inevitabilmente cambiata anche la concezione della coscienza: … ci si è orientati a concedere alla coscienza dell’individuo il privilegio di fissare, in modo autonomo, i criteri del bene e del male e agire di conseguenza. Tale visione fa tutt’uno con un’etica individualista, per la quale ciascuno si trova confrontato con la sua verità, differente dalla verità degli altri. Spinto alle estreme conseguenze, l’individualismo sfocia nella negazione dell’idea stessa di natura umana.
Tali orientamenti di pensiero sostengono l’esistenza di un’antinomia tra legge morale e coscienza, tra legge naturale e libertà:
Per diversi moralisti e teologi la natura si trova ridotta a materiale per l’agire umano e per il suo potere: essa dovrebbe essere profondamente trasformata, anzi superata dalla libertà, dal momento che ne costituirebbe un limite e una negazione… Tale natura comprenderebbe in primo luogo il corpo umano, la sua costituzione e i suoi dinamismi: a questo dato fisico si opporrebbe quanto è costruito cioè la cultura, quale opera e prodotto della libertà. La natura umana, così intesa, potrebbe essere ridotta e trattata come materiale biologico o sociale sempre disponibile. Ciò significa ultimamente definire la libertà mediante se stessa e farne un’istanza creatrice di sé e dei suoi valori (VS 46)
Al limite l’uomo non avrebbe neppure una natura, coincidendo egli totalmente con il proprio progetto di esistenza: l’uomo non sarebbe nient’altro che la sua libertà!
La concezione tradizionale della legge naturale ha il difetto – secondo questi studiosi – di presentare come leggi morali quelle che in se stesse sarebbero solo leggi biologiche; attribuendo falsamente ad alcuni comportamenti umani un carattere permanente ed immutabile, i sostenitori del giusnaturalismo hanno preteso di ricavare da essi norme morali universalmente valide:
Secondo alcuni teologi, una simile argomentazione biologista o naturalista sarebbe presente anche in taluni documenti del Magistero della Chiesa, specie in quelli riguardanti l’ambito dell’etica sessuale e matrimoniale: in base ad una concezione naturalistica dell’atto sessuale, sarebbero state condannate come moralmente inammissibili la contraccezione, la sterilizzazione diretta, l’autoerotismo, i rapporti prematrimoniali, le relazioni omosessuali, nonché la fecondazione artificiale (VS 47).
Secondo il parere di questi teologi, la valutazione moralmente negativa presente in taluni documenti del Magistero della Chiesa di atti riguardanti l’ambito dell’etica sessuale e matrimoniale (frutto di una mentalità superata) non rispetterebbe la libertà che Dio ha concesso all’uomo:
la valutazione moralmente negativa di tali atti non prenderebbe in adeguata considerazione il carattere razionale e libero dell’uomo, né il condizionamento culturale di ogni norma morale. Dio … ha lasciato l’uomo in mano al suo consiglio e da lui attende una propria, razionale formazione della sua vita (VS 47).
L’amore verso il prossimo, comandato da Cristo, va quindi inteso soprattutto come sospensione della valutazione morale delle singole azioni umane:
L’amore del prossimo significherebbe soprattutto o esclusivamente rispetto per il suo libero progettare se stesso. I meccanismi dei comportamenti umani, le cosiddette inclinazioni naturali, stabilirebbero al massimo — come dicono — un orientamento generale del comportamento corretto, ma non potrebbero determinare la valutazione morale dei singoli atti umani, tanto complessi dal punto di vista delle situazioni (VS 47).
Per questi studiosi fare riferimento alla costituzione fisica dell’essere umano per cercarvi indicazioni razionali circa la moralità o meno dei nostri atti (ad esempio in ambito sessuale) significa peccare di biologismo: così la tensione tra la libertà e una natura concepita in senso riduttivo si risolve in una spaccatura nell’uomo stesso. Tali idee di moralità che trattano il corpo umano come un “dato bruto”, separano infatti l’uomo e l’uso che egli fa del proprio corpo dal suo più profondo significato, derivante dall’interezza della persona umana. In questo modo alterano il retto rapporto tra la libertà e la natura umana e il posto che ha il corpo umano nella legge naturale:
Una libertà che pretende di essere assoluta finisce per trattare il corpo umano come un dato bruto, sprovvisto di significati e di valori morali finché essa non l’abbia investito del suo progetto. Di conseguenza, la natura umana e il corpo appaiono come dei presupposti, materialmente necessari alla scelta della libertà, ma estrinseci alla persona, al soggetto e all’atto umano. I loro dinamismi non potrebbero costituire punti di riferimento per la scelta morale, dal momento che le finalità di queste inclinazioni sarebbero solo beni fisici, quindi pre-morali. (VS 48)
Questa teoria morale tuttavia – ribadisce con forza il pontefice – non è conforme alla verità sull’uomo e sulla sua libertà: essa contraddice gli insegnamenti della Chiesa sull’inscindibile unità dell’essere umano:
L’anima spirituale e immortale è il principio di unità dell’essere umano, è ciò per cui esso esiste come un tutto — «corpore et anima unus» — in quanto persona. Queste definizioni non indicano solo che anche il corpo, al quale è promessa la risurrezione, sarà partecipe della gloria; esse ricordano altresì il legame della ragione e della libera volontà con tutte le facoltà corporee e sensibili (VS 48).
È nell’unità dell’anima e del corpo che la persona è il soggetto dei propri atti morali: considerando tale unità, l’esigenza morale originaria di amare e rispettare la persona come un fine e mai come un semplice mezzo, implica anche, intrinsecamente, il rispetto di alcuni beni fondamentali (come la vita), senza il quale si cade nel relativismo e nell’arbitrio.
Una dottrina che dissoci l’atto morale dalle dimensioni corporee del suo esercizio è pertanto contraria agli insegnamenti della Sacra Scrittura e della Tradizione: essa fa rivivere, sotto forme nuove, alcuni vecchi errori sempre combattuti dalla Chiesa, in quanto riducono la persona umana a una libertà «spirituale», puramente formale.
Questa riduzione misconosce il significato morale del corpo e dei comportamenti che ad esso si riferiscono:
L’apostolo Paolo dichiara esclusi dal Regno dei cieli «immorali, idolatri, adulteri, effeminati, sodomiti, ladri, avari, ubriaconi, maldicenti e rapaci» (cfr. 1 Cor 6,9-10). Tale condanna — fatta propria dal Concilio di Trento — enumera come «peccati mortali», o «pratiche infami», alcuni comportamenti specifici la cui volontaria accettazione impedisce ai credenti di avere parte all’eredità promessa (VS 49).
Corpo e anima sono indissociabili: nella persona nell’agente volontario e nell’atto deliberato[1] essi stanno o si perdono insieme.
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* Rispondendo a questioni di teologia morale sollevate nella Chiesa soprattutto nella seconda metà del XX secolo, papa Giovanni Paolo II promulga l’enciclica Veritatis Splendor il 6 agosto 1993. Nel testo il pontefice afferma con forza che la verità morale è conoscibile, che la scelta del bene o del male ha un effetto profondo sulla relazione personale con Dio, e che non c’è contraddizione tra la libertà e la scelta del bene. Il suddetto articolo alterna alle citazioni del testo la sintesi di altre affermazioni.
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«la giusta autonomia della ragione pratica significa che l’uomo possiede in sé stesso la propria legge, ricevuta dal Creatore. Tuttavia, l’autonomia della ragione non può significare la creazione, da parte della stessa ragione, dei valori e delle norme morali... una tale pretesa autonomia contraddirebbe l’insegnamento della Chiesa sulla verità dell’uomo. Sarebbe la morte della vera libertà.»
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La Verità (dal greco Aletheia/ἀλήθεια = disvelamento) è, secondo gli antichi filosofi (e i medioevali) il manifestarsi alla nostra intelligenza (da intus – legere /leggere dentro, in profondità) della stessa realtà, una volta sollevato il velo dell’apparenza. Tanto che negare l’esistenza di una verità oggettiva equivale a negare l’esistenza stessa della realtà (come effettivamente accade oggi quando, ad esempio, si vuole definire la propria identità di uomo o donna, prescindendo totalmente dal proprio corpo sessuato inequivocabilmente, tranne rarissime e patologiche eccezioni, in senso binario). Nota dell’autrice.
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[1] Materia grave (l’azione viola uno dei 10 Comandamenti) piena consapevolezza e deliberato consenso sono per la dottrina morale della Chiesa gli elementi fondamentali di un peccato mortale (ci separano da Dio).
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