terrorismo anni di piombo

 

 

di Autore Vario

 

Cari amici, ma anche carissimi non amici e soprattutto cari agnostici della mia amicizia, riprendendo l’iniziativa già proposta qualche giorno fa (qui) vorrei suggerirvi un altro libro sul quale meditare. Scusate i termini altamente offensivi (libro? meditare?) in questi tempi di informazione disimpegnata, mordi e fuggi, ghermita su dispositivi elettronici da social o mail.

Lo so: il libro è roba da vecchi analfabeti della comunicazione smart. La carta su cui è stampato è un oltraggio agli alberi e alla natura; la sua produzione uno spreco di energia e di CO2. Ogni libro è una limitazione, se non un furto al nostro tempo da destinare alle connessioni. E’ una pretesa di ridurci alla schiavitù del silenzio o della concentrazione, necessari per affrontare tante pagine scritte.

L’invito alla lettura di un volume stampato è percepito oggi come una minaccia. Se lo proponi a qualcuno vieni guardato storto come se volessi schiacciargli un callo. E, in effetti, se andassi in giro a schiacciare calli alla gente con un martello susciterei maggiori entusiasmi di un invito alla lettura.

E allora che scrivo a fare una recensione di un vecchio libro che nessuno leggerà perché, se proprio è il caso, basta il riassunto in Wikipedia?

Non lo so. Forse è perché sono cocciuto e voglio sognare. Mi voglio battere perché ho un grande progetto in mente: vorrei che in futuro il mondo diventi migliore o peggiore o uguale. E la lettura di libri (ma anche la mancata lettura) è parte integrante di questo ambizioso progetto.

Dunque, ecco la proposta di un libro destinato a non cambiare né il mondo, né le vostre vite: ‘L’eskimo in redazione – Quando le Brigate Rosse erano sedicenti’ di Michele Brambilla, prima edizione 1991.

Il libro è facilmente reperibile, a gratis, nelle biblioteche. Se avete amici e conoscenti oltre i cinquanta anni, magari qualcuno di loro l’avrà in casa e potrete tranquillamente rubarlo dal suo scaffale. Se lo trovate nei mercatini dei libri usati o in una libreria nell’ultima edizione ristampata, chiedete se ve lo prestano un mese o due per valutarlo, senza obbligo di acquisto. Ci dissociamo invece da qualsiasi tentativo di pirateria perpetrato con il fine di acquisire una copia in formato digitale. È un atto altamente riprovevole; solo la carta dà dignità alla lettura e pertanto non concepiamo metodi che eludono la stampa su supporto cartaceo.

Dopo questi consigli per l’appropriazione (o per l’acquisto, se proprio volete buttare via i vostri soldi) passiamo ad una breve disamina dei contenuti. Non prima però di sottolineare la leggerezza e scorrevolezza di lettura. Io stesso ho letto senza difficoltà l’inizio del libro e qualche pagina qua e là (mica pretenderete che mi sorbisca tutto il mattone solo per voi!). E ne ho ricavato le seguenti note.

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Per prima cosa come chiave di lettura, proporrei un confronto di quel clima storico e di quella situazione politica dell’Italia anni ’70 con l’attuale contesto socio-politico, ossessionato da dogmi che non possono essere messi in discussione (in primis agenda gender, culto del dio vaccino, emergenza climatica, transizione ecologica).

Sono impressionanti le analogie tra il pensiero unico comunista di quell’epoca e l’attuale regime ‘diversamente democratico’; è sorprendente costatare la stessa abitudine di giornalisti ed intellettuali di ieri come di oggi ad accodarsi ad un copione ideologico di moda. E anche allora il mainstream era implacabilmente progressista.

L’egemonia culturale della sinistra di quegli anni era tale in ogni ganglio del potere (oltre alle istituzioni politiche, scuola, magistratura, informazione, persino parrocchie), che dava legittimità di pensiero ed espressione solo al progressismo perbenista. Qualunque voce che esprimesse dubbi o critiche al pensiero marxista era automaticamente bollata come ‘fascista’. E si sa, la gente per bene non parla con i fascisti; chi era accreditato con questo stigma non poteva partecipare ad alcun tavolo di discussione né esprimere la sua voce.

Le rassegne stampa che commentavano i sanguinosi attentati degli anni ’70 erano caratterizzate da una faziosità e doppiopesismo molto imbarazzante.

Siccome la violenza doveva essere un connotato di destra, ecco che per molti anni (fino all’uccisione di Moro nel ’78) i brigatisti rossi venivano considerati, provocatori di destra. Ad esempio, il sequestro del giudice Sossi nel ’74 per molti giornali aveva lo scopo di ricompattare i conservatori per favorire il fronte del sì al referendum per l’abrogazione del divorzio. Dice Brambilla nel suo libro che se la rivendicazione di un attentato era di destra non c’era dubbio che il gesto fosse stato compiuto da fascisti; se invece era di sinistra era chiaro che la rivendicazione era falsa e che i fascisti attentatori agivano per gettare discredito sulla sinistra.

La parola ‘sedicente’ riferito per troppi anni alle Brigate Rosse adombra questa teoria, che cioè queste si qualificassero in modo abusivo. Lo stesso Sandro Pertini commentava che le Brigate Rosse di rosso hanno solo il nome.

La firma di punta del Giorno, Giorgio Bocca, il 23 febbraio 1975 se ne usciva con questa acuta disamina, nell’articolo intitolato ‘L’eterna favola delle Brigate Rosse’: ‘A me queste Brigate Rosse fanno un curioso effetto, di favola per bambini scemi o insonnoliti; e quando i magistrati e i prefetti ricominciano a narrarla, mi viene come un’ondata di tenerezza perché la favola è vecchia, sgangherata, puerile, ma viene raccontata con tanta buona volontà che proprio non si sa come contraddirla’. L’autocritica di Bocca arrivò solo nel 1979, quando, in un articolo pubblicato su Repubblica il 13 febbraio ammise ‘In quegli anni noi cronisti non capimmo niente della sinistra armata’.

Il pericolo principale, ravvisato dal pensiero unico dell’epoca, era quello del golpe fascista e la strategia della tensione era unicamente attribuibile a terroristi di destra, a frange militari deviate o a funzionari dello Stato italiano al soldo della CIA.

Quando le BR si scatenavano, entravano in azione anche eserciti di cronisti, pronti a pilotare l’informazione. Così quando nel giugno ’74 vennero uccisi due missini con azione rivendicata dalle BR, il quotidiano la Stampa commentò: ‘Tracce (forse troppo vistose) conducono alle Brigate Rosse’. L’insinuazione era forse quella che i missini fossero stati fatti fuori da qualcuno di destra o che magari si erano ammazzati da soli?

I lettori dunque apprendevano di fatti di terrorismo come guardando in una lente deformante, ricavandone immagini indefinibili.

Brambilla analizza alcuni episodi emblematici dell’escalation terroristica. Particolare importanza riveste l’assassinio avvenuto il 19 novembre 1969 del ventiduenne agente di polizia Annarumma, che ebbe il cervello spappolato da una spranga di metallo, sferrata da un manifestante; terribile epilogo di uno dei tanti e violenti cortei che seminavano terrore e danni nelle vie centrali di Milano. Quella tragedia ebbe per testimoni inconfutabili tre altri agenti di polizia che videro da vicino il colpo (uno di essi estrasse il tubo dalla testa della vittima). Fotografie, autopsia e perizie varie certificarono la dinamica di quella brutale esecuzione ma per il Corriere d’Informazione ‘Resta il mistero sulla fine di Antonio Annarumma, l’agente di polizia morto nel ’69 durante lo scontro con i dimostranti’. Si notino, osserva Brambilla, ‘fine’ invece di omicidio e ‘morto’ invece di ucciso. Per non parlare di uno ‘scontro con i dimostranti’ che mette sullo stesso piano il persecutore con la vittima, come se il povero Annarumma avesse cercato lo scontro contro chi gli ha spaccato il cranio con il tubolare.

Il rapporto immediatamente successivo a tali fatti inviato al Ministero dell’Interno da Libero Mazza, prefetto di Milano, è un documento di fine analisi del momento storico e di lungimiranza. Brambilla lo analizza con gli occhi pacati di un osservatore imparziale. Ma il fanatismo dell’epoca riuscì a trasformare il prefetto (già protagonista della Resistenza) in un infame reazionario, non perdonandogli quel rapporto che denunciava la violenza di sinistra mettendola sullo stesso piano di quella di destra.

Per capire il clima di quei tempi, Brambilla dice che bastava commemorare l’anniversario della morte di uno degli autori più amati dagli italiani, Giovannino Guareschi, che aveva il torto di non essere stato allineato a sinistra, per ‘essere ritenuti non solo dei fascisti, ma addirittura complici morali dei bombaroli che sterminavano innocenti sui treni’.

Interessante è poi la rievocazione della morte dell’editore Giangiacomo Feltrinelli, miliardario rosso che dopo aver finanziato numerosi gruppi terroristici anche stranieri (in particolare il gruppo tedesco Baader-Meinhof) e fiancheggiato la rivoluzione con numerosi opuscoli sulla guerriglia e sulle tecniche di lotta e sabotaggio, si prestò anche all’esecuzione materiale di attentati. Trovò infatti la morte a Segrate, maneggiando incautamente una carica di dinamite che doveva far saltare un traliccio e quindi provocare il blackout in una zona di Milano. Tale azione, congiuntamente al sabotaggio di un altro traliccio ad Abbiategrasso, ‘doveva garantire una migliore operatività a nuclei impegnati nell’attacco a diversi obiettivi’, come confermato nel comunicato 4, letto nell’udienza del 1° aprile 1979 dai brigatisti imputati al processo. Eppure, nonostante la chiarezza della ricostruzione di quell’evento derivante anche dall’autopsia e da accurate perizie tossicologiche e nonostante le immediate rivendicazioni dell’attentato da parte di Potere Operaio, la sinistra impose ad oltranza la teoria mistificatoria del complotto. Omicidio di Stato: Feltrinelli era stato drogato, assassinato, e poi portato sul luogo dell’attentato. Persino il segretario del partito comunista Berlinguer arrivò a dire che ‘pesante è il sospetto di una spaventosa messa in scena’ (Corriere della Sera del 18 marzo 1972).

Brambilla dedica poi molte pagine alla rievocazione dei fatti che portarono all’esecuzione del commissario Calabresi, freddato il 17 maggio 1972.

La sua persecuzione inizia quando il 15 dicembre 1969, da una finestra della questura di Milano, precipitò il ferroviere Pinelli. Quest’ultimo era stato fermato per interrogatori dopo la strage di Piazza Fontana, avvenuta tre giorni prima.

Le indagini appurarono in seguito l’innocenza del sospettato. Ma anche il commissario Calabresi non poteva essere accusato di niente: nel momento della disgrazia era assente. L’accusa, tanto perentoria quanto infondata, dei giornalisti (in particolare dell’Avanti, dell’Unità e di Lotta continua), fu di brutale assassinio: il commissario avrebbe volontariamente spinto il Pinelli dalla finestra, dopo averlo tramortito con un colpo di karatè. La violenta campagna diffamatoria contro Calabresi, scoppiata senza neanche considerare la perizia necroscopica su Pinelli e la dinamica dei fatti fornita dalla polizia, sfociò in una terribile fatwa. Il giornale Lotta Continua in quei giorni si espresse in questi termini, contro chi aveva già giudicato come torturatore nonché agente della CIA: ‘Siamo stati troppo teneri con il commissario di PS Luigi Calabresi. Egli si permette di continuare a vivere tranquillamente… di continuare a perseguitare i compagni. Facendo questo però si è dovuto scoprire, il suo volto è diventato abituale e conosciuto per i militanti che hanno imparato ad odiarlo… È chiaro a tutti che sarà Luigi Calabresi a dover rispondere del suo delitto contro il proletariato. E il proletariato ha già emesso la sua sentenza: Calabresi è responsabile dell’assassinio di Pinelli e dovrà pagarla cara’.

Al linciaggio giacobino si accodarono presto tutti i maggiori quotidiani: quarantaquattro redazioni di riviste politiche e culturali (fra cui alcune cattoliche) sottoscrissero un documento di solidarietà a Lotta Continua. Diventò una moda minacciare e diffamare il commissario Calabresi: il 13 giugno 1971 l’Espresso pubblicò un documento, ultimo della serie, a firma di circa ottocento rappresentanti della cultura italiana, in cui tra l’altro il commissario Calabresi veniva definito un torturatore e responsabile della fine di Pinelli.

Dario Fo deliziò le platee con un’opera teatrale ‘Morte accidentale di un anarchico’, incentrata su quella vicenda. Al cospetto di Fo, scrive Brambilla, si inginocchiarono tutti i critici. Persino quello dell’Avvenire scrisse: ‘Estro assillante, gusto del paradosso, felice ispirazione… all’attore-autore tutto il consenso che gli è dovuto’.

Le successive indagini condotte dal magistrato D’Ambrosio (uomo dichiaratamente di sinistra) portarono all’assoluzione di ogni accusa a carico di Calabresi, quando ormai era già stato assassinato. Escluse le ipotesi di omicidio e suicidio, restò come più verosimile quella di un malore. Pinelli, solo nella stanza, stanco dopo tre giorni di interrogatori e probabilmente a digiuno, dopo molte sigarette si sarebbe affacciato alla finestra per prendere aria e, colto da capogiro, sarebbe precipitato.

Luigi Calabresi fu ‘giustiziato’ il 17 maggio 1972. Paese Sera il giorno dopo non concesse pace o tregua neanche al suo cadavere: ‘Non è da escludere che sia stato ucciso… da sicari assoldati soltanto per alimentare la strategia della tensione e il polverone fascista’. Sulla stessa falsariga il Manifesto (‘La logica politica e la tecnica dell’attentato fanno pensare a un nuovo episodio del complotto reazionario’). L’Unità invece, lo stesso giorno commentò: ‘Fascisti e destra della DC tentano di speculare sul criminale episodio’. 

Per motivi di spazio non mi dilungherò sugli omicidi dei giovani Ramelli e Brasili, simpatizzanti uno di destra e l’altro di sinistra, ai quali Brambilla dedica un interessante approfondimento. Entrambi furono accerchiati e brutalmente massacrati per futili motivi o pretesti da branchi di picchiatori. I cliché informativi dell’epoca fornirono però resoconti diversi e molto faziosi. Il morto di sinistra suscitò il giusto sdegno e veementi invettive mentre quello di destra fu considerato vittima dei fascisti perché, come dichiarò per esempio il politico del PSDI Luigi Vertemati, ‘la logica della violenza individuale è una logica fascista’. Quasi nessuno capì che la violenza non ha colore.

Un ultimo accenno merita il capitolo sull’attentato contro Indro Montanelli. Questo giornalista rappresentava allora la voce più forte contro il pensiero unico di quei tempi.

Fu ferito alle gambe con quattro revolverate da un commando delle BR il 2 giugno 1977: quell’attacco fu uno dei più clamorosi casi di censura politica attuata dai mass-media. Montanelli era probabilmente il più famoso giornalista dell’epoca, anche a livello internazionale; eppure, il giorno dopo l’agguato furono pochi i quotidiani che specificarono nei titoli il nome della vittima e il motivo dell’attentato. Ecco alcuni dei titoli: ‘Giornalista ferito’, ‘Dopo i magistrati e le forze dell’ordine i gruppi armati colpiscono la stampa’ ‘I giornalisti nuovo bersaglio della violenza’. Poca e a denti stretti la solidarietà espressa dai colleghi, timorosi di svelare l’esistenza di trame violente di sinistra, perpetrate da silenziatori dell’opposizione. 

Montanelli aveva la colpa di rappresentare la maggioranza silenziosa (e oppressa) che non si riconosceva più nella rappresentazione faziosa e ambigua della realtà spacciata dagli organi di informazione. Da lì a poco il giornalista si staccò dal Corriere della Sera, dove era inviso e ostacolato, e fondò con altre firme prestigiose la testata indipendente il ‘Giornale Nuovo’.

Altri fatti, aneddoti e ricostruzioni di Brambilla meriterebbero di essere ricordati. Questo libro è insomma una miniera di spunti che ci restituisce un quadro abbastanza dettagliato degli anni di piombo. E che ci fa capire che il piombo delle tipografie riusciva a colpire anche più duramente di quello delle armi.

Ma che ve ne parlo a fare, tanto lo so che non lo leggerete mai questo libro…

Le presenti annotazioni hanno già messo a dura prova la capacità di sopportazione e concentrazione dei moderni lettori e non mi aspetto che siano in molti ad essere arrivati fin qui.

Comunque rinnovo la minaccia di lettura: ci sarà pure qualche masochista curioso come me, che preferisce farsi un’idea attingendo da strumenti materiali e reali (carta stampata, persone che si possono toccare) piuttosto che assimilare informazioni da supporti tecnologici e interlocutori virtuali (social media). Per me la migliore cultura digitale è quella che deriva da una realtà che si può toccare con il dito, non quella che si ricava sfiorando un tasto.

 

Autore Vario è uno pseudonimo

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