di Nicola Lorenzo Barile
Lo scorso 21 giugno, in occasione delle annuali Summer Literary Series, l’University of St. Thomas a Houston, Texas, ha organizzato un incontro con il poeta californiano Dana Gioia per discutere del futuro delle lettere, da una prospettiva cattolica (qui il video dell’evento). Di fronte alla scelta di evitare temi di stretta attualità, come ad esempio aborto e liturgia, Robert Royal, che dialogava con Gioia, ha spiegato che «ciò può sembrare molto distante da molte delle preoccupazioni concrete (…). Ma (…) dobbiamo recuperare la pienezza della tradizione culturale cattolica – ed estenderla – se vogliamo evitare l’errore di cercare di affrontare la nostra situazione semplicemente con i corpi contundenti che l’hanno prodotta. C’è molto di più nel passato della nostra civiltà cristiana – e pronto a nascere nel futuro». Da qui, pertanto, la scelta di raccontare quel «rinascimento cattolico» che ci ha regalato St. John Henry Newman e Gerard M. Hopkins, Gilbert K. Chesterton e Hilaire Belloc, Evelyn Waugh e Graham Greene, Jacques Maritain ed Etienne Gilson, Charles Péguy, Paul Claudel, Francois Mauriac e George Bernanos e, in America, Thomas Merton, Paul Horgan, Flannery O’Connor, Walker Percy e, last but not least, Dana Gioia, appunto (di cui mi sono già occupato su questo blog: qui e qui).
Come ha avuto modo di raccontare in un suo profilo autobiografico, il cattolicesimo è stato tutto per Gioia. Essendo cresciuto in una comunità di latinos composta principalmente da siciliani e messicani, ha potuto sentire concretamente cosa significasse appartenere alla Chiesa cattolica romana, una cultura viva e reale che tuttora permea la sua vita. Frequentando prima la St. Joseph Catholic School delle suore della Provvidenza a Hawthorne e, nel 1965, la Junipero Serra High School a Gardena (due sobborghi industriali di Los Angeles), assistette regolarmente alla Messa in latino, imparandone a cantare gli inni in latino e a servirla come chierichetto, istruito su riti e liturgia, dogmi e vite dei santi. Come previsto ancora da quei curricula, la preparazione del giovane cristiano non poteva dirsi completa senza la conoscenza dei classici dell’antichità (i principali poeti pagani) e della teologia medioevale (Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino).
Io sono un cattolico latino, ebbe a dire Gioia una volta in un’intervista, una combinazione di elementi italiani e messicani, educato da genitori appartenenti alla working class, nati in povertà, che hanno sofferto enormemente. Quando lesse Seneca e Marc’Aurelio al college, si immedesimò immediatamente nel loro stoicismo: anche la sua famiglia, infatti, ebbe una visione stoica dell’esistenza. E non è la sofferenza centrale nel cristianesimo?, si chiede ancora Gioia. Certo che lo è; il cattolicesimo latino e mediterraneo in cui è cresciuto è basato sull’inevitabile natura redentiva della sofferenza. Le stazioni della croce, il rosario e le vite dei santi sono tutte occasioni per meditare sulla sofferenza come crescita spirituale. Chi accetta la sofferenza, impara ad essere coraggioso, paziente e compassionevole; chi la rifiuta, diventa invece di carattere aspro, mosso da risentimento e pronto ad autocommiserarsi. Se accettata correttamente, la sofferenza, conclude Gioia, è un dono.
La recente pubblicazione di un suo libro di memorie autobiografiche, Studying with Miss Bishop. Memoirs from a Young Writer’s Life (Philadelphia 2021), completa la nostra conoscenza degli anni della formazione di Gioia, avvenuta sotto la guida di due uomini e, soprattutto, una donna eccezionali: lo zio materno Ted Ortiz, il professor Robert Fitzgerald (1910-1985) e, appunto, Miss Elizabeth Bishop (1911-1979), una delle più grandi poetesse americane del secolo scorso.
I ricordi dello zio Ted sono piuttosto labili, perché morto in un incidente aereo quando il futuro poeta aveva solo sei anni, ma incancellabile è l’eredità della biblioteca lasciata, la cui eterogeneità (si va dai classici della letteratura mondiale in lingua originale, alle opere più importanti di musica classica) rivela il carattere avventuroso (era un marinaio) e di autodidatta dello zio Ted, la cui figura di affascinante proletarian intellectual d’altri tempi (si convertì dal marxismo al cattolicesimo poco prima di morire) non poté non influenzare, anche se a distanza, il nipote Dana, molto più desideroso dei suoi famigliari di conoscere il contenuto di quei libri silenziosamente ospitati nell’abitazione di famiglia.
Dopo il tributo, bizzarro ma affettuoso, allo zio scomparso e i commossi ricordi della famiglia che, ribadisce Gioia, mai ostacolò le sue voraci letture, anche se non le capiva del tutto, i due capitoli successivi ci proiettano nel mondo fascinoso ed elegante di una fra le più famose università USA, sul cui prestigio e importanza investono da sempre finanziatori pubblici e privati, durante gli anni cruciali della contestazione giovanile e dell’avvento della cosiddetta «età dei diritti».
La vittoria di una fellowship (ovvero, di una borsa di studio) in letteratura comparata permise a Gioia di frequentare la graduate school (grosso modo, la nostra laurea specialistica) di Harvard nel Massachusetts, una delle università private della cosiddetta Ivy League: qui ebbe la possibilità di scegliere il corso sulla poesia moderna tenuto, come semplice instructor, da Miss Bishop (siamo nel secondo semestre del 1975). Dopo gli inizi poco glamour, in cui Miss Bishop confessò apertamente di non essere una buona insegnante e di preferire piuttosto una semplice conversazione alla più paludata lezione accademica, gli studenti si ridussero drasticamente da una dozzina circa a meno della metà, ma fu frequentando il corso di Miss Bishop che Gioia cominciò ad avvicinarsi alla vera poesia, imparando che non bisogna leggerla secondo una predeterminata prospettiva storica, né irrigidirla in una struttura fatta di dettagli tenuti insieme dalla teoria interpretativa di un critico, ma esiste di per sé, in una sorta di eterno presente, facendo attenzione all’ordine delle parole che la compongono e al loro significato immediato. Usate il dizionario, come ebbe a dire Miss Bishop in una lezione-conversazione: è meglio dei critici.
Un’altra caratteristica del corso Miss Bishop, che non contribuì certo alla sua popolarità, fu il ricorso alla memorizzazione delle poesie studiate, oltre che a commentarle in aula: secondo la poetessa, infatti, sono le immagini e la musica dei versi a contare veramente; da qui, l’attenzione da prestare per i particolari concreti utilizzati dai poeti affrontati, come piante e animali, oltre che luoghi e personaggi, molti dei quali personalmente visitati o conosciuti da Miss Bishop. Secondo lei, infatti, la poesia non è altro che il modo in cui si poteva parlare del mondo in versi; pertanto, non è possibile teorizzare su di essa, ma solo viverla: mostrare agli studenti e aspiranti poeti come farlo fu l’oggetto del suo corso, per seguire il quale, come per leggere una poesia, non era necessario possedere in partenza sofisticate conoscenze: bastava solo un po’ di intelligenza, sana intuizione e un buon dizionario, facendo a meno, se possibile, dell’erudizione delle note di commento.
Di poco precedente (siamo infatti nell’autunno del 1974), ma evidentemente non così significativo come quello con Miss Bishop, è l’incontro con Robert Fitzgerald, dal 1965 Boylston Professor of Rhetoric and Oratory sempre presso Harvard, celebrato traduttore dell’Odissea (1961, un best seller da quasi due milioni di copie), dell’Iliade (1974) e dell’Eneide (1983), di cui Goia preferì frequentare un seminario meno impegnativo su estesi poemi come l’Odissea, l’Eneide e l’Inferno, piuttosto che seguire il suo corso avanzato sulla poesia latina, la cui prima lezione lo spaventò non poco per la sua difficoltà. Così Gioia apprese che, secondo Fitzgerald, i capolavori del passato non erano opere che non avevano più nulla da dire ma, al contrario, i continui rimandi fra i loro autori, anche se di epoche diverse, testimoniavano tuttavia la loro perenne vitalità, come quando il professore citò l’affermazione di Edgar Allan Poe, secondo la quale un buon poeta non deve mai superare i centoventi versi nelle sue composizioni. Ma allora come la mettiamo con l’estensione dell’Inferno di Dante?, chiesero perplessi gli studenti. Avete mai calcolato la media di ciascun canto?, fu la replica di Fitzgerald: è di circa centoventi versi, esattamente come compreso da Poe secoli dopo.
Anche Fitzgerald era fissato con i dettagli, poiché la poesia tende ad essere maggiormente concentrata rispetto alla prosa, oltre che con la memorizzazione delle poesie, annuncio che, anche in questo caso, faceva regolarmente scappare via gli studenti. Ma non meno importante era la struttura del plot, così che Gioia, grazie al professore, imparò a riconoscere nel piacere immediato capace di suscitare nei posteri e nel suo significato sempre valido i criteri in grado di trasmettere e imporre un classico che, pertanto, incarna nel modo più vivido e indelebile possibile, i valori di una civiltà: Fitzgerald, infatti, confessò di aver imparato ad apprezzare l’Eneide durante la campagna del Pacifico nella Seconda guerra mondiale, quando il mondo rischiò di essere travolto dalle autocrazie europee ed orientali.
Gioia conclude il ritratto del professor Fitzegerald con una sorprendente nota sul suo tomismo: contraddicendo, infatti, la tradizionale fama di agnosticismo dei professori delle università della Ivy League, Fitzgerald fu un cattolico praticante, seguito anche da intellettuali di altre fedi (ebrei e protestanti), profondo conoscitore della tradizione intellettuale cattolica e, in particolare, di San Tommaso. Facendo eco ai tre requisiti della bellezza stabiliti da San Tommaso (interezza, armonia e splendore), egli maturò un senso profondamente cattolico della forma, intesa non come qualcosa di esteriore ma, al contrario, come un processo interiore che si manifesta percettibilmente nell’essere, sicché un’opera d’arte genuina si riconosce, oltre che dalla sua identità, dal mistero che irradia. Ciò che noi apprendiamo nell’arte, quindi, è sempre più grande di ciò che possiamo capire, sicché anche nella poesia, arte che si basa essenzialmente sulla parola, la maggior parte della sua essenza rimane per lo più indicibile: ecco perché noi ci avviciniamo ad essa non solo con l’intelletto, ma anche con l’immaginazione, l’intuizione e i sensi.
Fitzgerald tenne presenti questi princìpi estetici nella sua carriera di studioso e li illustrò in pratica nel corso delle sue lezioni di prosodia e retorica, spiegando, attraverso i numerosi esempi portati, che la bellezza di un verso non consisteva tanto nella scelta di un metro particolare, ma sorgeva piuttosto dall’intricata danza delle sue parti: dizione, figure retoriche e sintassi, oltre che metrica.
In conclusione, ci chiediamo se ci sia qualcosa che accomuni questi due capitoli su Miss Bishop e il professor Fitzgerald. Innanzi tutto, lo studio della loro influenza sulla personalità e la poesia di Dana Gioia richiede ulteriori approfondimenti che non è possibile svolgere qui. Colpisce però il loro comune rifiuto per le mode del momento, a cominciare da quella dell’organizzazione dei workshops, al cui centro c’è lo studente frequentante, non l’opera da studiare. Credo poi sia chiaro che non sono solo testimonianze storiche su due docenti di una prestigiosa università americana, ma anche una conferma che ciò che noi impariamo non è solo frutto delle lezioni seguite, ma anche conseguenza dell’esempio portato in aula: lo stile con cui un docente spiega è parte essenziale di ciò che insegna.
Persone come il professor Fitzgerald potrebbero far pensare ancora all’esistenza di una tradizione cattolica nelle lettere che, secondo Gioia, non esiste quasi più nell’America contemporanea; il poeta allora preferisce parlare della possibilità di una sorta di Comunione dei santi fra letterati, dato che Goia dichiara sì di sentire profonda affinità con altri scrittori cattolici americani, ma tutti ormai scomparsi da tempo. Credo che il poeta californiano, senza rendersene conto, affermi comunque l’esistenza di una tradizione cattolica delle lettere, ma modernamente intesa da Chesterton come «democrazia dei morti»: «Tradizione significa dare il voto alla più oscura di tutte le classi, quella dei nostri avi. (…). I democratici respingono l’idea che uno debba essere squalificato per il caso fortuito della sua nascita; la tradizione rifiuta l’idea della squalifica per il fatto accidentale della morte. (…) Io non posso, comunque, separare, le due idee di tradizione e di democrazia: mi sembra evidente che sono una medesima idea. Avremo i morti nei nostri consigli. I Greci antichi votavano con le pietre, essi voteranno con le pietre tombali. Ciò è perfettamente regolare e ufficiale: la maggior parte delle pietre tombali, come delle schede elettorali, sono segnate da una croce».
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