di Mattia Spanò
Ci sono almeno tre fatti di notevole portata accaduti nell’ultima settimana, che fanno ritenere che ormai la coalizione occidentale dia l’Ucraina per persa.
Il primo sono le manifestazioni di protesta a Tbilisi contro la legge che mette al bando gli “agenti stranieri”, il sistema di fondazioni culturali e umanitarie che sempre più spesso vengono usate per far entrare fondi e agitatori nei punti che si intende surriscaldare in vista di obiettivi geopolitici e strategici (per non dire veri e propri colpi di stato), senza dichiararli a viso aperto.
Il copione è sempre lo stesso: una forma di “guerra surrettizia” in Georgia come in Iran, in Ucraina nel 2014 o in Venezuela, in nome della democrazia, dei diritti e di certi valori. Quello che non trova spazio sui nostri media, è che a Tbilisi si sono tenute contro-manifestazioni di non minore entità in favore della messa al bando della legge sugli agenti stranieri.
Ad ogni modo l’entusiasmo vagamente alticcio col quale sono state accolte le bandiere dell’Europa, dell’Ucraina e americane viste in Georgia è un primo indizio di affanno. Perché i georgiani dalla sera alla mattina debbano anelare ad entrare in un’unione in crisi come la UE non è soltanto poco credibile, ma perfino poco comprensibile. Come lo è il fatto che non protestino per le pensioni, i salari, la sanità, ma per aderire all’Occidente con il suo portato di valori sghembi.
Dal punto di vista geografico la Georgia non confina con alcuno stato europeo, storicamente non ha alcun legame con l’Europa casomai, come l’Ucraina che però ha confini europei, con l’ex blocco sovietico.
È vero: la Georgia è uno Stato che ha non poche pendenze storiche e conflitti con la Russia, al punto che dall’inizio della guerra è stato indicato da vari analisti come un secondo possibile focolaio antirusso. Ma questo non sembra sufficiente.
Il “sistema di aspirazioni valoriali” sostenuto dall’Unione Europea si presenta sempre più a macchia di leopardo, in continua espansione come Unione e come NATO – di cui in fondo è l’anticamera. Somiglia sempre più ad un impeto messianico degno dei catari più accesi. Costretta ad avanzare, ad espandersi verso l’esterno mentre al suo interno è bruciata da contraddizioni ormai insanabili.
Dal punto di vista strettamente militare non ha alcun senso aprire un altro fronte in funzione antirussa, dal momento che si tratta della nazione più grande del mondo: semplicemente non accerchiabile.
Dal punto di vista militare, la Nato sta conducendo una “proxy war”, una guerra per procura: fornisce armi alla manovalanza ucraina, per di più infoiata da valori nazisti incompatibili con quelli europei e americani. Le armi e le munizioni, come avvertono gli analisti più seri, anche americani, cominciano a scarseggiare.
Questo atteggiamento è in grandissima parte riconducibile al fatto che la Nato non è in grado di condurre direttamente una guerra tradizionale: l’opinione pubblica, levigata da decenni di cultura pacifista e più ancora dal benessere, non accetterebbe mai una cosa del genere. Questo, piaccia o meno, è un limite invalicabile che azzoppa non poco tutta l’alleanza atlantica.
È probabile che in Georgia si punti a replicare il modello Euromaidan, la rivoluzione colorata che rovesciò nel sangue un governo legittimamente eletto, finanziata dagli americani attraverso Victoria Nuland, che spese la modica cifra di cinque miliardi di dollari per agitare le acque. Fu lì che i filo-nazisti presero il potere.
Questa coazione a ripetere modelli “di successo” è il secondo elemento di debolezza dell’alleanza. Proprio perché sono strategie già note agli avversari – che siano la Russia, la Cina o entrambe – con una metafora calcistica, intestardendosi in una finta è più facile perdere la palla. Si diventa prevedibili.
Gli altri due fatti che fanno capire come l’Ucraina sia ormai sconfitta e perduta sono lo straordinario aplomb col quale gli americani hanno preso l’abbattimento del loro drone sul Mar Nero, limitandosi a parlare di un “errore” da addebitarsi alla “scarsa professionalità” dei piloti russi. Ma qui non si parla di un idraulico che cambia male un rubinetto: si rischia uno scontro aperto fra le due – anzi: le tre – superpotenze, con un più che probabile ricorso alla soluzione nucleare.
Biden avrebbe informato Zelensky circa la forte opposizione repubblicana al sostegno sia finanziario che bellico all’Ucraina, il che mette a rischio il supporto americano alla guerra. Un modo gentile di dire che non c’è più trippa per gatti.
Da ultimo, i recenti crack bancari (Silicon Valley Bank, Signature, Credit Suisse, e la decisione scriteriata della banche centrali di alzare i tassi di interesse con un’inflazione stellare) non sono affatto da sottovalutare per le ricadute interne, come non lo sono le violentissime proteste francesi contro la riforma delle pensioni voluta da Macron: la forzatura fatta dal presidente francese, che intende bypassare l’Assemblea Nazionale imponendo la riforma ex autoritate (i DPCM hanno fatto scuola) rischia di scatenare il caos.
Queste congiunture mi portano a pensare che l’Ucraina sia spacciata. La Russia otterrà i suoi obiettivi pressoché indisturbata, gli Stati Uniti proveranno a stuzzicare la Cina nel Pacifico, ma l’Ucraina è distrutta, e forse nemmeno esisterà più, facendo la fine della Jugoslavia. A quella povera gente, chi penserà quando le luci si saranno spente?
Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente le opinioni del responsabile di questo blog. Sono ben accolti la discussione qualificata e il dibattito amichevole.
Sostieni il Blog di Sabino Paciolla
Sempre apprezzabili e puntuali le sue osservazioni.