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Don Luigi Giussani e Julian Carron

 

 

di Mattia Spanò

 

Ho letto con trasporto la dissertazione dello scrittore Giorgio Alberto Crotti sulla magnifiche sorti e regressive di Comunione e Liberazione – per estensione, della Chiesa Cattolica Apostolica Romana. Le ho trovate oneste, propositive, cristiane nel senso più alto, vale a dire espressione di un uomo in battaglia (militia est vita hominis super terram).

Scorrendo le righe accuratamente documentate nelle note, ho avuto un’illuminazione – o un oscuramento parziale, a seconda di quanto potrà essere disprezzato quanto sto per dire. Devo però premettere che questo contributo non è una critica a Crotti, quanto una sua derivazione. Me ne allontano un attimo, ma torno subito.

Ex abrupto: c’è, mi pare, una dimensione senile in questo momento della vita e della storia della Chiesa, una nostalgia che ingabbia un po’ tutti. Il riandare continuo a momenti e momenti di persone, avrebbe detto don Giussani, con l’urgenza di circoscriverli in formule esatte e spendibili sul mercato delle voci.

Il fatto stesso che Crotti abbia vissuto l’esigenza di porre e commentare certe questioni – Giussani era un modernista? – comunque si guardi e si risolva la domanda, è uno spunto a sostegno della mia ipotesi.

Come lo è la necessità di ragionare intorno alla scelta di sviluppare un’azione e un pensiero politici e il fatto di manifestare un giudizio pubblico, o l’operare con apparente noncuranza nel senso contrario di Carròn, e non solo lui (detesto piantare paletti di frassino nel cuore di Dracula, figuriamoci di don Carròn). È la separazione, userei questo termine, denunciata nella lettera aperta a Carròn di Graziola e Mangiarotti, che Crotti cita in larga parte.

Separazione di cosa da cosa? Della carne dalle ossa. L’operazione di bollitura culturale – una religione è cultura per definizione, e la cultura è la madre di tutto il mondo che ne scaturisce – è avvenuta, oso dire, secondo tre grandi equivoci storici: la dicotomia temporale-spirituale, la dicotomia corpo-anima, la dicotomia autorità-verità. In obbedienza, si potrebbe pensare, al comandamento positivista secondo il quale per comprendere si debba per forza sezionare. Con una battuta: dissecare per dissacrare.

Non nego che si possa stabilire la distinzione fra questi aspetti. Rifiuto però che tale distinzione diventi motivo di trattazione parziale e partigiana. Per venire a dicotomie più recenti, anche quella tra fede e ragione non è da meno. Un esame parcellizzato può aiutarmi a distinguerle e comprenderle sul piano teoretico, ma riversato su quello pratico fa uno scempio. Non posso, da cattolico, pensare la fede divisa dalla ragione. Non si vive cavillando.

Lo sforzo autoptico ha generato mostri non soltanto nella Chiesa – qui lo dico e qui non lo nego: minime curo della scientificità della teologia o dello strutturalismo linguistico – ma quasi ovunque: tutto è scienza, o per colmo di sventura e in esubero  “scienze”. Della comunicazione, motorie, del matrimonio e della famiglia, del benessere e del giardinaggio. Passerà la buriana, che alla radice svela il brancicare dell’uomo hic et nunc, incapace di toccare la verità e al contempo roso dalla brama di condurla a spasso come un cagnolino.

Tornando alle tre dicotomie, si potrebbe trasferire il comandamento sponsale “quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi” (Mt 19, 6) a tutto ciò che abbiamo trovato unito, e che unito lasceremo a disdoro dei nostri dotti conversari, pacificati dal trapasso.

Si può obiettare che Cristo stesso divide ciò che appartiene a Dio da ciò che appartiene a Cesare, ma questa separazione è in realtà un invito ad edificare e mantenere un’unità profondamente estranea al potere e al mondo. Un viverci dentro e accanto, senza in alcun modo appartenervi. 

L’equivoco del ruolo storico e politico della religione cristiana, tensione per certi aspetti inevitabile, ha riflessi su tutto il corpus della Chiesa, e quindi ohibò sull’animus, e porta inevitabilmente al rischio dell’autorità che decide della verità, come accade oggi, oppure di una verità che conferisce l’autorità. Questo mi sembra il maggior problema di ordine pratico legato al magistero dell’attuale pontificato e dei suoi turiferari, per citare Giuseppe Rusconi.

Lo stesso Carròn credo condividerebbe almeno qualche affermazione di Crotti se, come ha fatto in un’anteprima pubblicata da Avvenire, afferma che: “A molti di noi può essere capitato questo “impatto”, senza che sia maturato quel riconoscimento che si chiama fede, che fiorisce come grazia sull’estremo limite della dinamica razionale, implicando quindi tutto il percorso della ragione, della affezione e della libertà dell’uomo, che è come se l’incontro non fosse approdato ad una fede”.

L’operazione di bollitura culturale che separa carne e legamenti dalle ossa, deve tenere conto di una conseguenza non proprio inattesa. Una volta separato, il lesso non si riattacca all’osso.

Avvicinandomi alla conclusione, cito tre fatti.

Quando San Paolo redarguisce San Pietro – il primo papa – dandogli dell’ipocrita, possiamo essere certi che Pietro non abbia gradito (i due non si prendevano, si può dire). Tuttavia Pietro – qui risiede una grandezza d’animo e un’intelligenza oggi ampiamente fuori portata, non inferiori a quella di Paolo – non si adira, non tarpa l’Apostolo delle Genti, non lo allontana, non lo addita. Avrebbe potuto, e certamente Paolo alla fine si sarebbe sottomesso. Lo lascia al contrario seguire la propria intuizione. Le conseguenze le vediamo ancora, a distanza di due millenni e nonostante il marasma.

Sant’Agostino riconosce che Pelagio, pur nell’eresia, è un uomo di fede sincera quando afferma: “Non senza ragione infatti essi approvarono le risposte di Pelagio, attenti non a come egli aveva esposto nei suoi scritti quanto gli si addebitava, ma a come egli rispondeva presentemente nell’esame diretto. Altro è infatti il caso di una fede non sana e altro il caso di una esposizione non cauta“. 

Questo riconoscimento documenta la poderosa carità del Padre della Chiesa. È questa carità, questa delicatezza d’animo intrecciata d’amore al Vero, questo rispetto verso Pelagio che gli permette di rintuzzare un colpo mortale al nascente cristianesimo, ancora malfermo sulle gambe come un bambino? Non possiamo provarlo, ma possiamo pensarlo. A proposito di scienza, è istruttivo leggere l’intera disamina di Agostino, ammirandone proprio la costituzione scientifica. Di finezza e bellezza vibranti. Altro che i miasmi della cronaca attuale.

Gesù stesso, uno che certo non parlava a vanvera, non si fa scrupolo a dichiarare che in Israele non si trova un uomo con più fede del centurione romano cui guarisce il servo (Lc 7, 9). Un pagano conclamato che nemmeno osa disturbarlo, non l’ha mai visto né si avvicina ma manda i propri servi a petire. Una fede in Lui, si può osservare, che prescinde da qualunque conoscenza, eppure non completamente inconsapevole. Fondata su un’esperienza (“Anch’io infatti sono uomo sottoposto a un’autorità, e ho sotto di me dei soldati; e dico all’uno: Va’, ed egli va, e a un altro: Vieni, ed egli viene, e al mio servo: Fa’ questo, ed egli lo fa”).

Questi esempi danno una buona e verace idea del carattere veramente universale del cattolicesimo. E risuonano, almeno alle mie orecchie e sperando di non fraintendere l’intenzione dello scritto di Crotti, come un invito a superare certi steccati molto colorati ma fragili.

Non ho, bisogna pure che lo riconosca, una conoscenza approfondita di tutti gli esimi autori citati da Crotti. Al contrario superficiale. Però accanto al giusto richiamo a sostanziare la fede di conoscenza autentica – per restare su Agostino e Pelagio, ma anche San Tommaso e perché no don Giussani – a proposito del rapporto sanguinoso fra Tradizione e modernità nella Chiesa non posso non notare tre fatti. Banali finché si vuole, ma credo importanti.

Il primo. Chi ha traghettato la Chiesa dentro e attraverso il Concilio Vaticano II, vero e proprio crogiolo di errori e anche qualche buon contributo, si era formato nella Tradizione. Non è quindi la conoscenza della dottrina e della Tradizione che mette al riparo da errori anche macroscopici. La Chiesa ha corso pericoli mortali e attraversato periodi bui molte volte. Sarei tentato di dire: sempre.

Il secondo. Se guardiamo ai movimenti ecclesiali – e Cl certamente è stato ed è uno dei più importanti – come una risposta al sostanziale arretramento dei chierici dal primo compito, che è quello educativo, allora non deve stupire che la dottrina si “laicizzi”, coniugandosi con elementi spuri che poco o nulla hanno a che spartire con la Tradizione. Che questi elementi attingano direttamente all’esperienza, è del tutto naturale.

Il terzo. La traiettoria umana di ciascuno di noi, come quella cristiana, è imprevedibile e misteriosa anzitutto a noi stessi. Sin dagli Atti degli Apostoli, e come documentano le Lettere, il tentativo di mettere ordine nella poderosa novità incarnata da Cristo ha animato, e lo ha fatto vivacemente, il cristianesimo. Sappiamo, anzi siamo certi, che l’ultima parola spetta al Buon Dio.

Una figura come quella di don Giussani ha, per sensibilità e spessore, qualcosa di realmente antico e profondamente legato al suo tempo. Per molti di noi che abbiamo vissuto di fede riflessa, per procura, circondati da personalità d’indubbia statura e forza come Woytjla, Giussani e Ratzinger, ma anche Guardini, Amerio e moltissimi altri senza avvederci dell’apostasia incombente, forse è venuto il tempo di guardare con umana simpatia non soltanto ai pregi, ma anche e soprattutto alle sviste di questi giganti che ci hanno portati a spalla sin qui.

Sperando che il giorno in cui tutto sarà chiaro, come cantava Claudio Chieffo, il Signore guardi con altrettanta simpatia alle nostre.

 

 

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