Una interessante riflessione dello scrittore e giornalista Phil Lawler sul lockdown con il conseguente distanziamento sociale e l’intreccio con fenomeni come il Black Lives Matter e l’attacco alle chiese.
Essa è stata pubblicata su Catholic Culture e ve la propongo nella mia traduzione.
Quando ho letto il titolo della notizia mi è sembrato tutto chiaro. L’articolo riportava che i nuovi test positivi al Covid erano attribuiti alla “diffusione ad opera della comunità”. Ma certo! È così che si contraggono le malattie contagiose, giusto? Si diffondono nella comunità.
Ma questa è la prima volta, nella nostra lunga storia di lotta contro le malattie, che abbiamo cercato di fermare la diffusione di una malattia contagiosa abolendo la comunità.
Il fenomeno del distanziamento sociale, dell’uso di mascherine, del vedere ogni prossimo di passaggio come una minaccia, della chiusura di negozi, scuole e chiese, tutti questi passi sono stati distruttivi per la nostra vita comunitaria. Ma la maggior parte degli americani sono stati disposti ad accettare i termini draconiani dell’isolamento, con i nostri opinionisti che ci esortano ad accomodarci verso una “nuova normalità”. Perché? Suggerisco che oggi nel mondo occidentale molte persone, soprattutto tra le élite, sono disposte a rinunciare alla vita comunitaria, mentre altri stanno lavorando attivamente per distruggerla. Stiamo assistendo – forse anche in modo sconsiderato – al suicidio della nostra cultura.
All’inizio del corso di questa pandemia, Michael Pakaluk ha fatto l‘acuta osservazione che le persone più entusiaste della chiusura sono state, in modo sproporzionato, le stesse persone che credono che l’umanità stia rovinando l’ecosistema, che il controllo della popolazione sia un imperativo, che il nostro sistema economico sia guidato dall’avidità, che il governo sia più affidabile dell’individuo, e – soprattutto – che restare vivi e sani sia il massimo del bene possibile. Con queste convinzioni fondamentali già bloccate nei loro processi di pensiero, sono stati rapidi ad abbracciare il piano di chiudere la nostra economia, le nostre scuole e le nostre chiese, la nostra vita sociale. Sono stati lenti a notare gli enormi costi sociali ed economici della chiusura, perché per il loro modo di pensare questi costi potrebbero in realtà essere dei benefici.
Così ora milioni di persone sono disoccupate e altri milioni sono disperatamente soli e annoiati e depressi; i tassi di suicidio, di abuso di droga e di violenza domestica sono aumentati; le malattie diverse dal Covid non vengono diagnosticate e non vengono curate; le rivolte si diffondono nelle città; e la vita sociale di un’intera società – le riunioni familiari, i bambini che giocano, le giovani coppie che escono insieme e si sposano, le feste, i giochi e i concerti – è in attesa a tempo indeterminato. Tutto questo è un vero e proprio peccato. Ma può sembrare meno tragico – può anche sembrare un prezzo da pagare – se non si ha amore per la vita economica e sociale della nostra società, se non si ha amore per la nostra cultura.
Papa Giovanni Paolo II è stato il grande diagnosta della “cultura della morte”. Ci ha mostrato come le tendenze più brutte del mondo occidentale – la legalizzazione dell’aborto, la rottura dei matrimoni, la tendenza all’eutanasia, l’accettazione della sessualità aberrante – siano state prodotte da una costante erosione del rispetto per la vita umana. Abbracciando la contraccezione e il divorzio, la nostra società ha dapprima reciso il legame tra sesso e procreazione, poi ha inventato la finzione che un’unione permanente possa essere spezzata senza conseguenze disastrose. Più o meno deliberatamente, abbiamo perso la sensazione di essere legati ai nostri bis-bisnonni e ai nostri pro-pronipoti, che dobbiamo qualcosa sia agli antenati che non abbiamo mai conosciuto sia alla progenie che non vedremo mai.
“Che possiate vedere i figli dei vostri figli”, dice il salmista (128,6). La forza di questo gioioso desiderio – preservata nella stupenda benedizione di una cerimonia di matrimonio cattolica – è perduta in una cultura che pensa ai figli come accessori del matrimonio (possono venire o non venire, possono essere o non essere i benvenuti), e ha difficoltà a capire, dopo due o tre generazioni di unioni miste, quali figli appartengono a quale stirpe. Quando non sentite più che i vostri figli sono parte di voi, e voi siete parte dei vostri genitori, diventate individui autonomi.
La cultura della morte ha esaltato questa autonomia, elevando la scelta individuale a diventare il valore più alto della società. La scelta di una persona è più apprezzata della verità, e così un uomo può proclamare di essere donna, nonostante la chiara evidenza scientifica del contrario. La scelta è più alta della vita stessa, e così la legge ora sancisce la scelta dell’uomo di porre fine alla propria vita. Il giudice Anthony Kennedy (che, tra l’altro, si è identificato come cattolico) ha dato piena voce a questo atteggiamento, elevandolo al livello di principio costituzionale, nella decisione Casey del 1992, scrivendo: “Al cuore della libertà c’è il diritto di definire il proprio concetto di esistenza, di significato, dell’universo e del mistero della vita umana”.
È questo l’obiettivo finale della vita: essere un individuo che fluttua liberamente, che crea la propria realtà? Se è così, allora non ci può essere tragedia peggiore dell’essere privato della possibilità di fare le proprie scelte. Devo essere libero di rompere qualsiasi impegno, di modificare qualsiasi circostanza, che mi trattenga. Non posso riconoscere alcun debito verso la società e nemmeno verso la mia famiglia. Devo essere libero.
E un’altra cosa: devo essere sano. Non posso tollerare il rischio di malattie. Quindi, quando scoppia un’epidemia (come succede occasionalmente con le epidemie, di tanto in tanto nella storia) devo fare tutto il possibile – e anche voi dovete fare tutto il possibile per proteggermi. Non c’è niente di più importante, per me e per voi, che rimanere vivi.
Questo concetto sarebbe estraneo ai nostri antenati, che non avevano altra scelta se non quella di accettare il rischio di malattia e di morte precoce. Sarebbe estraneo anche a tutte le persone che consideriamo eroi, che hanno accettato volentieri rischi più grandi per cause più grandi. In realtà è estraneo a qualcosa di fondamentale nella natura umana. Noi ci assumiamo dei rischi ogni giorno; rischiare nulla è realizzare nulla.
Allora perché, quando è scoppiata questa epidemia, abbiamo accettato così rapidamente l’idea che il normale funzionamento della nostra società non valesse il rischio? La risposta a questa domanda mi è diventata gradualmente chiara.
Il primo indizio è venuto quando il dottor Anthony Fauci, il principale arbitro del rischio accettabile (e un altro cattolico) ha rifiutato di condannare gli incontri sessuali anonimi, anche al culmine della pandemia. “Sai, è dura”, ha detto, quando gli è stato chiesto della cultura dell’accoppiamento sessuale casuale, “perché questo è ciò che si chiama rischio relativo”. Un “rischio relativo” per una fugace gratificazione – per una scelta irresponsabile di un individuo – era in qualche modo meno pericoloso per il bene pubblico rispetto a una normale transazione d’affari o a un funerale di famiglia.
L’indizio successivo, molto più conclusivo, è arrivato quando il dottor Fauci si è rifiutato di etichettare le massicce proteste della “Black Lives Matter” come una minaccia per la salute pubblica, e i sindaci che avevano proibito altri incontri pubblici avevano dato il benvenuto ai manifestanti nelle loro città. Si è trattato di chiare ed evidenti violazioni delle regole della “distanza sociale” e dei regolamenti di quarantena, eppure sono state tollerate e persino applaudite. Perché?
Ora guardate cosa hanno realizzato quelle manifestazioni. Quando sono state pacifiche, sono state attacchi retorici alla storia della nostra società. Quando sono state violente (come spesso è accaduto), hanno portato alla distruzione di proprietà private e di monumenti pubblici. In altre parole, in un modo o nell’altro, hanno distrutto ciò che la nostra società ha costruito.
Gli incontri pubblici che costruiscono la nostra cultura – concerti, sfilate, conferenze e riti religiosi – sono ancora proibiti o strettamente limitati. Gli eventi pubblici che tendono a distruggere quella cultura sono consentiti, anche in flagrante disprezzo delle norme di emergenza in vigore. Come dice Yeats in “La seconda venuta” (una poesia che potrebbe essere stata scritta sull’attualità):
I migliori mancano di ogni convinzione, mentre i peggiori
Sono pieni di intensità appassionata.
Abbattendo statue di esploratori ed eroi di guerra, i violenti di sinistra mostrano il loro disprezzo per la nostra storia. Ma non si fermeranno qui, perché la venerazione dei personaggi storici, pur essendo una nobile manifestazione di pietas, non è la base ultima per una sana cultura. Molto più importante è il culto stesso: la venerazione di Dio onnipotente. Non deve quindi sorprendere che, dopo aver preso di mira i monumenti della Guerra Civile, i vandali puntino sulle chiese, in particolare quelle cattoliche. Se il vostro obiettivo più caro è quello di essere liberi da ogni vincolo – se il vostro grido di battaglia è “Non serviam!” (“non servirò” è una locuzione latina generalmente attribuita a Lucifero per esprimere il suo rifiuto al servire Dio nel regno dei cieli, ndr), tu hai grandi ragioni per guardare la Chiesa come tua nemica.
La questione che rimane è se la Chiesa, il Popolo di Dio, riconoscerà il pericolo e si mobiliterà prima che la persecuzione attiva inizi e la nostra cultura sia “cancellata”.
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