Papa Francesco in aereo

 

di Silvio Brachetta

 

Dunque è ufficiale: si può dire che le parole o le azioni di un certo Papa – non del Papa in quanto tale – non piacciono. Non solo, ma il Papa si può criticare. Non solo, ma chi lo critica, ama la Chiesa. Non è scismatico. Chi lo ha detto? Ma il Papa. Papa Francesco, di ritorno dall’Africa: «Quando si dice: “Questo del Papa non mi piace”, faccio la critica e aspetto la risposta, vado da lui e parlo e scrivo un articolo e gli chiedo di rispondere. Questo è leale, questo è amare la Chiesa».

È del tutto evidente che la critica, per essere lecita, deve essere oggettiva: bisogna giudicare i segni dei tempi, non le persone. Per una buona fetta della pubblicistica attuale è proprio così. Una valanga di articoli, dove sono elencate tutte le riserve sulla situazione odierna, tanto sul pontificato di Bergoglio, quanto sulla Chiesa in generale.

 

Si può fare? Certo, dice Bergoglio: «Questo è leale, questo è amare la Chiesa». Ma la lealtà è tutta contenuta in questa affermazione: «Questo del Papa non mi piace». Non dice: «Questo Papa non mi piace»: sarebbe, infatti, un giudizio soggettivo, un giudizio illecito sulla persona. E invece è lecito dire: «Questo del Papa». È lecito perché oggettivo. È lecito perché è un giudizio sul tempo presente, secondo le parole di Gesù Cristo: «Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo?» (Lc 12, 56).

Guai a giudicare le persone. Sarebbe una sostituzione a Dio. Ma guai a non giudicare questo nostro tempo. Sarebbe ipocrisia farisaica. È difficile, anzi impossibile, non varcare il confine tra giudizio temerario e giudizio santo, senza l’aiuto della grazia.

 

Parte della pubblicistica contiene anche invettive contro la persona. «Questo Papa non ci piace» – era ed è questa la posizione di molti. Non «questo del Papa», ma proprio «questo Papa». Va riconosciuto che, in tal caso, il giudizio sulla persona è, però, sempre accompagnato da giudizi oggettivi in quantità. È insolito trovare un testo che contenga un elenco di pure invettive o insulti. È, al contrario, frequente quel genere di critica che proviene da chi ama il Papa e la Chiesa.

Se è vero che santa Caterina di Siena ha sempre avuto una misura nel criticare papi e vescovi, è anche vero che si è trattato di critica reale, circostanziata, oggettiva, improrogabile.

 

Ed è questo che muove l’apologetica di ogni tempo. Essa è improrogabile. Perché di apologetica si tratta, di ricerca di ragioni oggettive sulla storia, sulle persone, sui fatti, sulla fede, sulla religione. Diceva Vittorio Messori, durante un’intervista del 2016, che «l’apologetica è un discorso a difesa della ragione umana […] è la difesa del nostro intelletto». L’apologetica autentica è una «difesa della buona reputazione della Chiesa cattolica», che non dev’essere mai «eccessivamente aggressiva». L’apologetica, insomma, «è benefica ma può essere pericolosa, da maneggiare con cura: se non è rigorosa e pacata, può fare più male che bene».

 

È umanamente assai difficile rimanere rigorosi e distaccati. L’apologeta dovrebbe essere come quei medici che rimangono impassibili durante l’operazione chirurgica. Il medico rischia la morte del malato, l’apologeta rischia lo scisma. Eppure il giudizio è richiesto, come già affermava Giovanni Paolo II: «abbiamo bisogno di una nuova apologetica», diceva nel 2002 (ai vescovi delle Antille). E aggiungeva: essa «non consiste nel conquistare argomenti, ma anime, nell’impegnarci in una lotta spirituale, non in una disputa ideologica, nel difendere e promuovere il Vangelo, non noi stessi».

Non basta dover leggere i segni dei tempi; è necessario saperlo fare. Sempre Messori: «L’apologeta deve saper leggere i segni dei tempi». I “segni” sono solo tratteggi impercettibili delle cose, non sono le cose. Gesù non ci chiede di leggere i tempi, ma di leggere i “segni” (da semeion) dei tempi. È qualcosa di enormemente più delicato.

 





 

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