”Forse che il fine della vita è di vivere? Forse che i figli di Dio resteranno con fermi piedi su questa miserabile terra? Non vivere ma morire, e non disgrossar la croce ma salirvi e dare in letizia ciò che abbiamo. Qui sta la gioia, la libertà, la grazia, la giovinezza eterna…. Che vale la vita se non per esser data? E perché tormentarsi quando è così semplice obbedire?”
di Elisa Brighenti
“ La tristezza non ha bisogno di motivi, può sorgere inattesa in chiunque, perché non siamo noi a darci la vita”
( H. Arendt)
Per capire cosa sta germinando nelle coscienze di oggi è necessario capire come è stato preparato il terreno. L’educazione determina il destino di un paese e spesso, e se fondata su tendenze individuali considerate necessarie e scontate , rischia di giustificare previsioni estremamente tristi. L’anima di un popolo, a partire dai suoi componenti, può migliorarsi o alterarsi, o anche definitivamente distruggersi a causa di una formazione che invece di portare avanti, decostruisce.
Oggi siamo giunti ad un punto che sembra drasticamente essere di non ritorno: non esiste più il sentimento della colpa, forse solo un senso di colpa patologico e calamitante che grava sulle generazioni. La tradizione della letteratura nordica ( a cui si ispira J.K. Rowling) direbbe che ci troviamo nell’epoca del lupo, quella cioè della massima decadenza, quella “ dell’ascia e della spada, del vento,…prima che il mondo sprofondi” E’ il momento storico in cui il sacro viene divorato dall’egoismo selvaggio che antepone il pensiero alla realtà, che toglie alla logica la correlazione a realtà evidenti, sottoponendola ad assurde acrobazie linguistiche e ideologiche.
E’ pur vero tuttavia che l’epoca del lupo porta in sé il germe della liberazione. Il lupo è il solo animale ctonio ( ossia sotterraneo nei significati) che sia in grado di guardare verso la luce. Si può affermare con Levalois (prete ortodosso francese della metà del secolo scorso) che il lupo simboleggi l’uomo. “Come lui, può essere milite dello spirito o demone della materia”. Non a caso, il lupo appare come controparte maschile e apollinea nel culto romano di Feronia, dea della fertilità, protettrice dei boschi, celebrata dagli schiavi riusciti a liberarsi dalla loro condizione. Feronia, divinità dispensatrice di mutamenti di stato, protettrice dello scorrere della vita nella fecondità. Il lupo, abitante dei boschi, in questa prospettiva mitologica, viene asservito alla civitas, diventa forza irruente della natura che si trova domata e sottoposta alle esigenze della civiltà. Feronia è appunto il divino che trasferisce, che guida da uno stato all’altro, dall’oscurità alla luce, dalla distruzione alla creazione.
Proviamo a considerare come questo passaggio di stato possa trasferirsi nella cultura dominante, tentando uno spostamento dal nichilismo imperante ad una nuova e feconda rivalutazione dell’uomo.
Ad un semplice sguardo, appare evidente come il senso del limite faccia parte dell’esperienza quotidiana. Tuttavia, ai tempi attuali, i progressi continui nel campo della tecnica, in quello della medicina e della genetica rendono più acuta la percezione di un dovere quasi morale verso il superamento di tale limite. L’incontro con l’ignoto, il diverso, il negativo, rappresentano il confronto con un’alterità che pensiamo non appartenga alla nostra natura e che quindi viene recepita come ostacolo. Si ha il desiderio di volare e insieme la paura di cadere, il desiderio di vivere e la paura di morire, il desiderio di amare, di essere amati. Si potrebbe continuare oltre tra coppie di contrari, ma lezione esistenziale più forte su questo altalenante conflitto ce la regala la sofferenza, che, pur non aggiungendosi a ciò che già sappiamo di essa, esaspera estremamente il senso del limite. Soffrendo, ci si rende conto che non tutto ci è possibile e che non tutto funziona come noi vorremmo. L’eutanasia si fa strada in questo contesto e in più prende forza dal presupposto condiviso a priori da molti che la sofferenza vada sradicata, non solo come estensione di uno stato fisico, ma prima ancora, come parte integrante della condizione umana. Perché allora non assecondare legalmente la volontà di morire come pare e piace a chiunque? Qui, ora, o domani, in malattia, ma addirittura in salute, se questa è fisica ma non più mentale. Come ci permettiamo noi di consigliare in altro senso chi è in procinto di staccare la spina? Perché invece non tentare di procurarsi le armi vincenti per fermare questo gesto?
Riprendendo la citazione di Hannah Arendt dell’inizio, è evidente che non si deve arrivare a considerare la morte in sè per capire che le piccole morti sono all’ordine del giorno e come tali, inscritte nell’orizzonte di senso più prossimo dell’uomo, ossia l’esistenza. E’ la vita stessa il nostro inevitabile caso estremo di morte. Lo si intuisce prima ancora di capirlo dalle piccole sofferenze, da cui risulta che la vita è l’esperienza di un limite che niente riesce apparentemente a colmare. E questo è dovuto al fatto semplicissimo che non siamo stati noi a determinarci in questo senso, non siamo stati noi a stabilire i criteri per vivere. La vita ci è stata data da un Altro. Ancora: il limite originario nasce da quel paradosso che ogni tentata acrobatica dimostrazione non riuscirebbe mai totalmente a districare, e ossia che l’uomo, nell’essere posto nel mondo e al mondo non di sua iniziativa, subisce da lì uno scorrimento nel tempo e nello spazio che ogni giorno gli chiede giustizia nonostante la totale assenza di responsabilità. Ma di nuovo: benché non sia sua la scelta di esserci, spetta comunque a lui, che ha ricevuto in dono la vita, il compito di farsi erede legittimo, nella tutela di un rapporto di filiazione con un Altro, pur restando nella coscienza del proprio limite. Per capire e farsi carico, occorre ritornare alle origini. Ma non sempre il ritorno alla propria terra è colmo di frutti, anzi spesso, pur tornando, si rimane mendicanti. E se fosse questo il significato più autentico della vita e della sofferenza? Riappropriarsi del nostro destino, anche nell’incompiutezza dei nostri desideri, riconoscersi mendicanti, come Ulisse, homo viator, desiderosi di ri-conoscere un senso.
Nella classicità, l’esperienza del limite passa positivamente attraverso i criteri dell’apollineo, a discapito della vera essenza della vita, ossia la sua tragicità. Il desiderio sfrenato di potere che porta a sfidare la natura viene punito dagli dei. L’uomo superbo, convinto di poter agire facendo affidamento solo sulle sue forze, riceve inevitabilmente il castigo delle divinità. Questa visione dell’uomo introduce il ruolo della divinità civilizzatrice, rappresentata da Apollo. Egli è il promotore dell’ordine, del linguaggio, della convenzione, della misura, e di un certo significato di libertà, intesa come obbedienza all’ordine. Ma rimanda anche al senso del limite, e le statue greche ne esprimono la palese evidenza: la bellezza e l’armonia delle forme sono un esempio di un limite che rassicura. Una ulteriore esemplificazione è fornita dal linguaggio: il binomio linguistico di vero/falso risulta immobile e limitante, utile a creare un ordinamento sociale che permetta una convivenza pacifica, più che a esprimere l’autenticità del reale. La portata tragica dell’esistenza ne esce afflitta e svilita.
Spostandoci più avanti nel tempo sempre restando nel campo della filosofia, dure critiche ad una visione lucida e convenzionale del senso del limite si ottengono con Nietzsche, Heidegger, e più in generale , con la Scuola di Francoforte, nel modo in cui la cultura dell’illuminismo viene definitivamente messa sotto accusa.
Heidegger è stato sicuramente l’autore che più di tutti ha analizzato la coscienza del limite dell’uomo intendendola come condizione per divenire umani. Secondo il filosofo, il punto di partenza per un’esistenza autentica (contrariamente a quella inautentica che muore nel circolo vizioso di “prendersi cura“ dell’altro come possibilità unito alla prigione dell’essere gettati di fatto nel mondo) è la presa di coscienza della finitezza dell’essere, dell’uomo in primis. La morte rappresenta il limite esistenziale per eccellenza. Ciò che ci umanizza, che ci fa prendere coscienza dei nostri limiti è la certezza di essere-per-la-morte. Questo non significa fare della morte la finalità dell’esistenza, ma assumerla come unico criterio per attribuire autenticità alla vita.
Essere-per-la-morte significa non vivere per morire, ma vivere nell’orizzonte di senso della finitudine, della morte. Essa è “la possibilità dell’esserci più propria incondizionata, certa e come tale indeterminata e insuperabile”. Per mezzo dell’essere-per-la-morte, l’esistenza si riappropria della sua autenticità. La morte è considerata una realtà certa: non nel senso immediato di evidenza su cui non si può discutere, ma come condizione correlata in senso essenziale all’aspetto autentico dell’esistenza. La morte è inoltre incondizionata: di fronte ad essa, l’individuo è posto in isolamento, non si trova in relazione ad alcuno che non sia il suo dover morire. L’uomo comprende in questo modo che l’esistenza in quanto tale è impossibile, proprio perché si realizza nell’estrema possibilità, la morte, che toglie ogni valenza di possibilità al resto. Vivere per la morte significa quindi comprendere l’impossibilità dell’esistenza.
Date queste considerazioni, appare evidente come l’ideale di perfezione classico di cui si diceva in precedenza venga totalmente capovolto: l’accettazione del limite radicale della morte comporta l’adozione di una nuova antropologia, che abbandona totalmente il limite come attestato di perfezione.
E’ importante notare che per un’antropologia di questo tipo, l’esperienza del limite non induce affatto al fatalismo o alla rassegnazione; al contrario, apre al buon senso e all’accettazione che la vita non ci appartiene, che non abbiamo scelto noi il suo inizio, e che l’unico modo d’essere dell’uomo è l’esistenza, un incessante porsi al di fuori. Senza voler dare alcuna lettura prossima al cristianesimo, Heidegger autorizza tuttavia l’accesso ad una lettura pre-escatologica, quando afferma che la comprensione esistenziale dell’uomo è quella di chi è non per aver scelto di esserci, ma trovandovisi, al pari di un qualsiasi altra creatura finita. All’umanesimo dell’autoesaltazione si contrappone un umanesimo di auto accettazione: il limite è una realtà che non si può evitare perché non posta dall’uomo ma imposta all’uomo dalla sua stessa esistenza.
L’eredità lasciataci da Heidegger in questo senso è pesantissima e al contempo propositiva: autorizza a rivendicare un’attesa, quella per cui la vita invoca una sua inclusione in un senso. La vita, se è caduta nel vuoto, se è l’incompiuto, la possibilità estrema in una giostra di posizioni estremamente possibili quindi impossibili, se così è, allora esige di invocare le mani di Qualcuno, una madre o un padre, che le attribuiscano il diritto di chiamarsi esistenza. Perché la vita non si trasformi in vuota fragilità, occorre che sia voluta e desiderata, anche se ad essere vuota e fragile è quella sofferenza sottesa che la pervade costantemente. Il bisogno di attribuire un senso al dolore è fondamentale. Per fare questo, superando la visione di Heidegger, una strada potrebbe essere quella di modificare il presupposto iniziale , ovvero la vita come estrema possibilità che si mortifica ( possibilizzandosi all’infinito) nel momento in cui esistenzialmente tenta una realizzazione, per attribuirle invece il valore della vulnerabilità, che non coincide affatto con il vuoto.
Al contempo, la vulnerabilità dell’esistenza è un’istanza che, se viene azzittita, per esempio con l’adozione dell’eutanasia come categoria esistenziale, prima ancora che come oggetto giuridico, finisce per spegnersi. E spegnendosi in un solo individuo, annienta chiunque.
A questo proposito, il romanzo apocalittico di Mc Carthy, La strada, fornisce un esempio della vulnerabilità che “risolve” e condiziona in positivo. Padre e figlio abbandonati e sopravvissuti in un modo vuoto, fatto di predatori, incenerito dal male, si assistono a vicenda per sfuggire alla morte. Che invece arriva impietosa per il padre. L’eredità di quest’ultimo verso il figlio, unico sopravvissuto, sarà il dono di una famiglia religiosa presso cui il ragazzo va ad abitare, una famiglia che crede in Dio, e che è disposta ad accettare che il mondo possa avere ancora un senso.
Nonostante la letteratura ci fornisca questi esempi di salvezza, la morte, l’eutanasia, vengono oggi tutelate e interpretate in modo quasi allegorico, per essere poi destrutturate e spogliate di negatività. Il pretesto è quello di una legislazione viva che si pronunci il più possibile sul momento ultimo dell’esistenza, ma che si dimentichi in fretta di quale sia il prezzo di questo legiferare: noi stessi. In realtà, più che di una vittoria sul male, si tratta della resa di se stessi, di creature, che non facendosi da sé, quando la vita appare insopportabile, non potendola cambiare, decidono di togliersela di dosso.
Credo che occorra invece compiere una vera e propria rivoluzione che si ispiri al bisogno di riconoscere la vulnerabilità dell’uomo, senza assimilarla ad una esistenza moritura e priva di significato. Essere vulnerabili significa scoprirsi bisognosi, mendicanti. E quindi desiderosi di eredità. Se si è al mondo smarriti, caduti, gettati senza preavviso, scardinati da una volontà che non può scegliere di progettarsi perché già fallace in principio, si è comunque sulla scena del mondo come eredi di una testimonianza. Si potrebbe forgiare una nuova ermeneutica dell’uomo attraverso le parole eredità, testimonianza, filiazione. Trovarsi sulla scena del mondo significa accettare di restarvi come eredi di un testimone. Quindi come figli. L’eredità presuppone un rapporto di filiazione; questo implica il riconoscersi figli che nutrono un bisogno: quello di un Padre che ridia senso all’esistenza, alla finitudine e all’estrema possibilità della morte.
Citando Omero, che in questo caso si riferisce a Telemaco, si potrebbe dire che “se gli uomini potessero scegliere da soli ogni cosa, per prima cosa vorrebbero il ritorno del padre, Odisseo”.
Il bisogno del padre coincide con il riscoprirsi figli. Credo che questa consapevolezza oggi venga ampiamente e abilmente fraintesa, a vantaggio di una antropologia del distacco e del fatalismo. Le rotture apportate al legame di filiazione dalla cultura relativista e nichilista hanno prodotto un uomo facile, utilizzabile, un corpo precario e vuoto. E soprattutto lo hanno autorizzato per mancanza di alternative, a rendersi unico artefice della propria esistenza. Si potrebbe rivoluzionare questa impostazione fallace puntando sulla forza rigenerante del rapporto di filiazione e nel potere salvifico della figura del padre.
Secondo una prospettiva razionale e lucidamente decadente, possiamo affermare che l’uomo è ciò che diviene, nel limite dell’estrema possibilità che è la morte, e che questa talvolta è persino realizzata (con l’eutanasia), cosi che finalmente l’esistenza torni a se stessa, essendosi con la morte paradossalmente sottratta al proprio limite invalicabile.
Secondo una prospettiva di fede, al contrario, si assiste ad un ribaltamento totale : l’uomo diventa cio‘ che è. Accetta che all’inizio della sua vita ci sia il disegno di un Altro, che non è iscritto nel campo dell’esperienza umana, ma attinge nell’eternità, nel cuore stesso di Dio.
Il disegno della vita di ognuno è un disegno a quattro mani, due dell’uomo che operano nell’esistenza concreta e due di Dio, che agisce dall’alto come guida invisibile.
Si crea il problema della duplice paternità della vita, l’uomo come soggetto attivo e come oggetto nelle mani di un altro. Progetto stabilito dalle mani di Dio e libertà creatrice dell’uomo; una doppiezza che crea una spaccatura tra finito e infinto e una tensione alla nostalgia del trascendente. Un divario tra uomo e dio, tra tempo ed eternità che, se accolto positivamente e cristianamente, contribuisce ad acuire il desiderio della patria futura, invece che affliggerlo.
Il dolore rappresenta il limite invalicabile per eccellenza, una realtà ineludibile. Nonostante ciò, può essere accettato solo se orientato cristianamente, ovvero, se ad avvicinarlo non sono gli strumenti che attingono alla logica umana, fragilissima, ma le ragioni stabilite dal rapporto di vulnerabilità-filiazione-parola di Dio.
“Dio non si è fatto uomo per eliminare il dolore ma per colmarlo della sua presenza”( S. Agostino).
“ Verrà il mattino, ma è ancora la notte…… la speranza dell’alba non toglie nulla al buio della notte“ (Isaia).
Una testimonianza in questo senso ce la fornisce anche Paul Claudel (poeta e drammaturgo francese del secolo scorso) in L’annuncio a Maria ,un dramma scritto dopo la sua conversione al cattolicesimo. Un vecchio contadino di ritorno dalla terra santa, trova la figlia moribonda per aver contratto a lebbra. E allora esclama: ”Forse che il fine della vita è di vivere? Forse che i figli di Dio resteranno con fermi piedi su questa miserabile terra? Non vivere ma morire, e non disgrossar la croce ma salirvi e dare in letizia ciò che abbiamo. Qui sta la gioia, la libertà, la grazia, la giovinezza eterna…. Che vale la vita se non per esser data? E perché tormentarsi quando è così semplice obbedire?”. Forse la mancanza di fede può rendere assurda la comprensione di queste parole; ma anche attraverso una lettura più “laica”, è possibile arrivare ad attribuire loro uno spessore granitico. Basta pensare alla reciprocità di dare – avere. Il dare la vita si realizza nei piccoli gesti, come quelli tra due persone in un rapporto di amicizia, o nell’amore tra un uomo e una donna, che davvero rinuncerebbero ognuno a sé per il bene dell’altro. In questo aggancio, i sentimenti sono sublimati in un atto di volontà, che a sua volta rimanda ad un Altro che ispira e suggerisce la ricerca della salvezza del proprio amato/a. La vita può essere data solo a chi è in grado di salvarla e di rendercela redenta, nella sua ineludibile delicatezza e finitezza.
La figura di Gesù, nella sua umanità, è l’emblema di questa ultima oblazione. Gesù, l’incarnazione di Dio in un uomo. Un Dio che si inumana con tutti i limiti del caso e che cosi facendo, si rende offerta ultima e completamente gratuita. E’ più difficile accettare l’umanità di un dio, piuttosto che esaltare la divinità dell’uomo. In quest’ultimo caso infatti, l’esaltazione della potenza dell’uomo trova immediatamente una conferma. Ma in un dio che si fa uomo invece, si legge solo una forma di decadenza e di depressione. Ma allora perché Gesù avrebbe accettato di vestire in panni dell’uomo? Solo per la volontà di divinizzarlo, per trasformarne la naturale limitatezza in una promessa di resurrezione.
Rinunciare alla vita a vantaggio di una buona morte significa allora rinunciare ad un diritto fondamentale; lasciarsi intossicare dai proclami e dalle norme che si vorrebbero costruire attorno all’uso dell’esistenza è una forma di arretratezza, più che un segno di civiltà. La pietà ha il diritto di precedenza sulle soluzioni legislative. La pietà, la compassione, la disponibilità di qualcuno che patisca con chi soffre, in modo che la morte si compia e non sia una liquidazione dal mondo.
Concludo con una preghiera di Rilke:
“Dà, o Signore, a ciascuno la sua morte
La morte che fiorì da quella vita
In cui ciascuno di noi amo’, penso’ e sofferse”
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