Dal saggio che vi propongo:
“È la mappa senza territorio; la mappa è tutto ciò che c’è, il territorio potrebbe anche non essere mai esistito prima della mappa, e probabilmente non è esistito – ‘e non sopravvive ad essa’. La mappa precede il territorio, che viene abolito. Viviamo nella mappa, immaginando che sia la realtà, mentre non esiste più la realtà e solo la mappa è reale. Il simulacro è uno spazio in cui non c’è differenza tra ‘vero’ e ‘falso’, o tra ‘reale’ e ‘immaginario’. Non c’è differenza tra una persona che simula la follia e una persona folle e, allo stesso modo, non c’è differenza tra un politico che afferma qualcosa di vero e un politico che dice la verità, perché una volta che l’ha affermata, diventa vera.”
(…)
“Direi che Baudrillard è il primo e più completo profeta di una realtà totalmente secolarizzata, nel senso che ha annunciato il significato centrale di un mondo non creato da Dio. Ciò non significa che Dio non abbia creato il mondo – ai fini di questa analisi, la questione rimane aperta – ma Baudrillard annuncia un mondo in cui le intenzioni, le leggi e persino i materiali di Dio sono stati usurpati e sostituiti da un mondo in cui l’uomo è diventato… non il dio che immagina, ma un abile falsario della realtà, il cui regno deve essere riconosciuto e accettato fino al trionfo o, più probabilmente, al dolore.”
(…)
“In questa dispensazione, il bene diventa male; il male, bene; il pervertito, il modello; il su, il giù; il dentro, il fuori; la verità, la menzogna; la menzogna, il fact-checker. Ecco perché le cose sembrano così strane, perché le parole hanno esaurito la loro strada. Ci muoviamo in un mondo nuovo, pur immaginando di vivere in un continuum con il vecchio.”
Ho incontrato di persona, alcuni anni fa, il giornalista e scrittore John Waters dopo un incontro pubblico cui partecipai. Ebbi una forte impressione di lui. Lo conoscevo già prima per i suoi articoli. Su questo blog abbiamo già in passato tradotto alcuni suoi articoli (leggi qui). Oggi vi propongo un saggio molto potente e profondo, da leggere con attenzione, che riprendo dal suo Substack. Un sito che vi invito a visitare ed eventualmente ad abbonarvi. La traduzione è a mia cura.
L’esaurimento del linguaggio di fronte alle calamità degli ultimi 40 mesi è la conseguenza non tanto di un deficit linguistico dell’umanità, quanto di una risposta scioccata degli esseri umani a un improvviso e gratuito capriccio della realtà per ragioni che nessun processo di logica o ragione sembra in grado di spiegare. Le parole si muovono e sfiorano la superficie di questa nuova realtà, incapaci di acquisire la trazione di un significato e persino la qualità della gravità (in entrambi i sensi) per rimanere appropriate. La gente dice che tutto è “impazzito”, sembrando dimenticare di aver detto la stessa cosa molte volte quando non era vera, o non così vera. Ora che è più vero del vero, la parola “pazzo” è pateticamente inadeguata, così come “squilibrato”, “pazzo”, “lunatico”, “mentale”, “incrinato”, “folle”, “sclerato”, “impazzito”, “folle” o “pazzo da legare”.
Ci sentiamo dire che le cose sono diventate “surreali”, ma in modo poco convincente, perché il surreale è qualcosa che associavamo agli orologi fusi o alle tazze del water dislocate, ma ora lo usiamo nelle frasi di tutti i giorni in contesti che ne scalfiscono appena la superficie.
In un’altra direzione, parole che appartenevano a libri e film – come “distopia” e “gaslighting” – hanno iniziato a comparire nella realtà, come se l’addetto alle prenotazioni avesse mandato la band sbagliata a una festa per bambini.
Negli ultimi 40 mesi, affogati in un mare di speculazioni e in quelle che a volte sembravano – anche a noi stessi – iperboli, abbiamo faticato a formare frasi per descrivere ciò che ci stava accadendo. Spesso sembrava che avessimo esaurito le parole, così che anche quando sentivamo di aver comunicato qualcosa di chiaro e convincente come descrizione della nostra situazione, non riusciva a rendere l’idea delle questioni che contemplavamo e a provocare l’atteso e improvviso inizio di riconoscimento in qualsiasi spettatore si trovasse a portata d’orecchio. Non si trattava solo del fatto che tutto era inedito e nuovo, ma che i tentativi di articolare descrizioni della “realtà” sembravano sempre trasmettere qualcos’altro, qualcosa di parallelo o adiacente, ma mai del tutto sinonimo o coterminato o corrispondente.
C’era qualcosa nel comportamento degli agenti pubblici – intendo non solo i politici e i funzionari pubblici, gli esperti medici, gli scienziati, eccetera, ma anche i giornalisti, o come potremmo chiamarli ora – gli interpreti e i mediatori affermati della realtà, i giornalisti – che suggeriva una conoscenza anticipata di tutto ciò che ci stavano dicendo, accompagnata da un senso di normalità che strideva con la nostra esperienza e tuttavia era stranamente plausibile. Era come se fossimo entrati in una sorta di visione da incubo, in cui tutto veniva presentato come una sorta di elaborato scherzo pre-pianificato, forse per una festa di compleanno o per una festa di pensionamento, in cui tutti recitavano una parte programmata e, da un momento all’altro, qualcuno avrebbe perso la faccia tosta, avrebbe ceduto alle risatine e avrebbe ammesso che si trattava di uno stratagemma e di una bufala – solo per ridere – e non ci avevano forse preso per i fondelli per un po’, ah ah ah ah ah?
Naturalmente, questa caratterizzazione delle cose, per quanto risonante sotto alcuni aspetti, è proiettata, potremmo dire a prima vista, in colori del tutto sbagliati. Evoca la malizia nelle sue forme più lievi, intrise di buon umore, giocosità, affetto, ilarità repressa, mentre le forze e i fenomeni di cui ci occupiamo qui non hanno nulla di tutto ciò. Abbiamo a che fare con la malizia al livello più maligno: il ghigno fisso dell’assassino intimo; una mascherina di compassione su un volto di pura malvagità; una buffoneria oscura e sorridente che minaccia di esplodere in una catastrofe, l’oscurità più profonda che l’essere umano possa manifestare. Qui abbiamo incontrato un flusso incessante di inganni del tipo più subdolo, uno scatenamento industrializzato della malvagità più sistemica, un terrore e un furto di tutto ciò che finora avevamo potuto dare per scontato nelle modalità della nostra sicurezza, della nostra familiarità e della nostra sensazione di essere a casa e in pace nel mondo. E tutto questo per mano di persone che avevamo nominato, eletto e ordinato come nostri rappresentanti, affidando loro le chiavi delle nostre sacre istituzioni, patrie e civiltà.
Qui c’era di sicuro la tirannia, anche se messa in scena alla luce della “salvezza delle vite”, dell'”interesse pubblico” e del “bene comune”. E qui c’era la morte, sia nella forma di una prospettiva costantemente minacciata per la quale ci veniva chiesto di rinunciare a tutto ciò che si poteva concepire come un miglioramento della vita, sia, contemporaneamente, nella forma di una minaccia profondamente sospetta, innominabile e a malapena concepibile, che sembrava ombreggiare certe categorie di persone in certi tipi di situazioni – gli anziani nelle case di cura, per esempio, o quelli di qualsiasi età che ripongono piena fiducia nei medici, negli scienziati e nel loro governo per dire loro cosa è vero e cosa no. All’inizio si parlava incessantemente della prospettiva che molte persone sarebbero morte, e non c’era alcuna prova di ciò; eppure molte persone morirono presto in numero senza precedenti per ragioni che non era permesso discutere o anche solo menzionare.
Le persone subirono un cambiamento che le portò ad assecondare piuttosto che a mettere in discussione. Era come se il loro cervello fosse caduto e si fosse cosparso per terra, causando loro solo un attimo di pausa prima di continuare come se nulla fosse accaduto. In un certo senso, era come se le persone a noi più care avessero improvvisamente iniziato a comportarsi come i cattivi del più spaventoso e agghiacciante film dell’orrore. Quello che stavamo osservando non aveva quasi nessuna relazione con quello a cui eravamo abituati nelle vite di qualsiasi durata fino a quel momento, tranne che per il fatto che il personale che sembrava essere a capo degli eventi ci era familiare, e il loro modo di fare era solo leggermente percepibile come diverso: il minimo aumento della minaccia, eppure tale da essere inconfondibile per qualsiasi altra cosa.
Man mano che andava avanti, diventava sempre più sinistro, eppure sembrava allo stesso tempo mantenere qualche elemento di continuità con la realtà che ci eravamo lasciati alle spalle. Figure che nel nostro ricordo ci sembravano certe di aver parlato per tutta la vita del valore della libertà, della giustizia e della libertà di parola, improvvisamente parlavano come se tali idee non potessero più essere contemplate – nell'”interesse pubblico” e per il “bene comune”. Sempre più spesso, in innumerevoli circostanze, le persone che avevamo nominato per rappresentare i nostri interessi sembravano comportarsi come un coniuge in cerca di un alibi per una violazione della fiducia e della lealtà, rivolgendosi a noi come se la colpa di ciò che stava accadendo fosse nostra.
Abbiamo flirtato con concetti sconosciuti: formazione di massa, pseudo-realtà, psicopatia, ponerologia, groupthink, lavaggio del cervello, ipnosi di massa, gaslighting. . . Eppure nessuno di questi termini o concetti sembrava portarci solo in parte alla comprensione, o anche solo adattarsi alle circostanze o toccare i significati degli eventi in un modo che animasse o vivificasse o attivasse le cose, o ci permettesse di descrivere meglio l’un l’altro esattamente ciò che stava accadendo e come ci sentivamo al riguardo.
“Gaslighting”, per fare un esempio, era una parola che sembrava in qualche modo esplodere in un livello di utilizzo prima impensabile. Una parola che, nel 2020, aveva già 82 anni ma non era ancora entrata nel lessico popolare, era rimasta lì, come in attesa per quasi un secolo, praticamente inosservata, minimamente compresa e sottoutilizzata, e all’improvviso era sulla bocca e sulla punta delle dita di tutti, emergendo per occupare uno spazio semantico che nient’altro sembrava adattarsi o riempire, il che a sua volta doveva significare che si erano improvvisamente manifestate condizioni nuove o fortemente insolite. Improvvisamente era ovunque. La gente lo pronunciava con convinzione e apparente sicurezza di essere immediatamente compresa, eppure, all’inizio, almeno la metà di ogni riunione doveva fermarsi e chiedersi il significato. Nel giro di poche settimane, quasi tutti non solo erano consapevoli del suo significato, ma lo usavano in ogni seconda frase.
La sua origine era stata a dir poco singolare. Nel 1938 c’era stato questo spettacolo teatrale, intitolato Gas Light, e nel 1940, e di nuovo nel 1944, due film, dai quali la parola era emersa nella sua interezza semantica, ma ancora priva di un contesto generale. Fino alla primavera del 2020, essa veicolava – o poteva essere usata come riempitivo di spazio – una condizione di interazione umana che richiedeva un breve seminario di spiegazione in occasione di ogni suo utilizzo.
Sentendo la parola “gaslighting” per la prima volta, uno spettatore acuto avrebbe potuto dedurre dalle circostanze immediate che significava qualcosa come “prendere qualcuno per pazzo”, o “spingere il pazzo più lontano”, o forse “costringere qualcuno a dubitare della propria sanità mentale”. Ma cosa c’entra tutto questo con il gas o la sua accensione? Nell’opera teatrale e nei film, la parola allude alle azioni di un marito violento, che spegne gradualmente le luci del gas nella casa di famiglia, fingendo alla moglie che nulla sia cambiato, con l’obiettivo di indurla a dubitare della propria sanità mentale, in modo da poterla ricoverare in un istituto. La moglie chiede ripetutamente al marito di confermare le sue percezioni sull’abbassamento delle luci e su altri sintomi della sua subdola astuzia, ma lui insiste sulla versione della realtà che sta producendo.
A meno che non si fosse vista l’opera teatrale o uno dei film, non c’era modo di “sentire il significato” della parola, o di usarla senza sentirsi un impostore. Quasi nessuno, a quanto pare, aveva visto l’opera teatrale e pochi avevano visto qualcosa di diverso da un breve spezzone di uno dei film. Era la parola più strana di sempre, eppure, nella sua stranezza, sembrava diventare più significativa e piccante e appropriata, come se la sua impenetrabilità aiutasse in qualche modo a descrivere cose che non avevano una descrizione razionale. A metà del 2020, tutti, indipendentemente dal fatto che avessero visto o anche solo sentito parlare dell’opera teatrale o dei film intitolati Gas Light, sapevano esattamente come ci si sentiva quando si parlava di gaslighting. A quel punto, da settimane era diventato il modo quasi universale di descrivere la modalità standard di comunicazione utilizzata da ogni politico, portavoce della sanità, scienziato ufficialmente accreditato, presentatore televisivo e giornalista acquistato nel mondo. La parola ha acquisito una vita propria, lontana dal suo contesto cinematografico, con le connotazioni di una sorta di lento assassinio dello spirito umano, e in ultima analisi del corpo, attraverso qualcosa di simile a bugie laceranti e infine letali. A quel punto, avevamo l’impressione di essere circondati da muri di menzogne, come se il mondo si fosse trasformato nel palcoscenico di un dramma dell’orrore e noi fossimo bambini che per la prima volta si imbattevano in un fenomeno come quello del teatro, ma senza avere il preavviso che ciò che avremmo vissuto non sarebbe stato realmente reale, così che entrò nelle nostre anime come nulla aveva fatto prima, o forse in un modo in cui, del tutto impreparati, come quando avevamo assistito al primo spettacolo “in forma” di una compagnia teatrale itinerante che si era introdotta nella nostra scuola media per esibirsi il giorno prima dell’inizio delle vacanze estive, e all’improvviso ci eravamo ritrovati come muti testimoni di minacce e furberie e violenze e omicidi e altre esperienze che non avevamo mai nemmeno sognato nelle vite innocenti che avevamo vissuto fino a quel momento. Ognuno di noi, a turno, guardava gli altri, sperando di trovare i segni di una maliziosa montatura, di un dramma deliberatamente architettato, di una burla, di uno scherzo, di una presa in giro. Ma i volti degli altri non ci confortavano nel senso dell’irrealtà e dell’impossibilità di ciò che stava accadendo, e con la loro serietà ci facevano abbandonare gradualmente i nostri sorrisi incolpevoli, mentre aspettavamo confusi qualche momento di chiarezza o di rivelazione.
E così, più o meno, le cose sono rimaste. Negli ultimi 40 mesi abbiamo lottato con le parole nel tentativo di descrivere ciò che stava accadendo a noi e al nostro mondo, per lo più con così poco successo che ci siamo limitati a ripetere la parola “gaslighting”, come se fosse diventata una sorta di succhiotto verbale. La natura inaudita e sconvolgente degli eventi, che si sono susseguiti quasi quotidianamente, ci ha reso difficile trovare parole adeguate per descrivere i nostri sentimenti e sempre più spesso abbiamo optato per un silenzio attonito, che sta lentamente uccidendo coloro che lo adottano. Molti di noi non sono stati nemmeno in grado di diagnosticare la necessità di nuovi modi di pensare a ciò che ci sta accadendo, o di nuove parole con cui condurre tale pensiero. Forse abbiamo pensato che le parole devono venire prima, ma forse è un errore. Forse i costrutti devono essere abbozzati, in modo che le nuove parole si offrano spontaneamente? O forse è giunto il momento di affrontare la possibilità che il problema non sia linguistico, ma concettuale – non ha a che fare con la funzione della descrizione, ma con l’identificazione della natura profonda di qualche cambiamento fondamentale che ha avuto luogo nelle profondità e nelle pieghe delle nostre società e culture. Forse questo cambiamento era in atto da molto tempo, ma ci è sfuggito perché le circostanze presentate dalla realtà non hanno coinvolto a sufficienza le condizioni mutate per far capire che le cose hanno smesso di essere come una volta.
Nulla di ciò che abbiamo trovato sembra ancora adeguato al compito di chiarificazione. Alcune spiegazioni – la fine dei tempi, la possessione collettiva, l’ipnosi di massa o il lavaggio del cervello, il collasso della funzione d’onda o qualche altro tipo di disintegrazione e ricostruzione della nostra griglia temporale – sembrano per un certo periodo funzionali come metafore, ma diventano poco plausibili quando vengono messe in relazione con le nostre esperienze soggettive e con l’abitudine che abbiamo acquisito di applicare i fatti storici e la logica alla comprensione del cambiamento. Non abbiamo mai conosciuto questi fenomeni prima d’ora – se non nelle opere teatrali o nei film – e allora perché dovrebbero invadere le nostre esistenze reali? Non c’è una spiegazione che sembri adattarsi completamente al percorso narrativo che le nostre vite hanno seguito attraverso l’infanzia, l’età adulta e ovunque ci troviamo; eppure, i sintomi di un cambiamento radicale sono ovunque, e soprattutto – come stiamo rapidamente scoprendo – tra le nostre orecchie.
Si sta verificando qualcosa di completamente nuovo, qualcosa che, se è accaduto prima, è accaduto in luoghi remoti o in epoche diverse, così che nessuno è in grado di ricordare alcun punto di riferimento per dire: “Oh, questo è proprio come era in passato…”. .’ E poiché non ci sono precedenti di questo tipo, molti di noi si sentono obbligati a prendere gli eventi al valore nominale, a credere che una pandemia possa verificarsi senza alcuna prova che non sia una costante asserzione; che un uomo rimbambito possa essere eletto presidente della più grande democrazia del mondo; che gli atleti siano sempre morti in gran numero, ma che nessuno delle autorità se ne sia mai accorto prima; che, dopo 150.000 anni di evoluzione umana, le donne e gli uomini si stiano improvvisamente trasformando l’uno nell’altro senza soluzione di continuità; che un mondo che per decenni si è preoccupato dei mali della molestia infantile ha improvvisamente deciso che i bambini non fanno abbastanza sesso e si è affrettato a garantire che brutti vecchi vestiti da prostitute femminili siano facilitati nell’agitare le loro parti intime a bambini di cinque anni come parte della loro seduzione – ecco, e che qualsiasi incoerenza di tutto ciò possa essere spiegata in modo soddisfacente accusando coloro che danno voce al loro sconcerto di indossare (invisibili) “cappelli di carta stagnola” e di rendersi fastidiosi per il gusto di essere vessati.
Dopo 40 mesi in cui ho lottato con ogni cosa, affidando all’etere più di due milioni di parole, sto iniziando solo ora a sviluppare un mirino attraverso il quale guardare a ciò che è accaduto. Credo che abbia a che fare con un cambiamento fondamentale nella natura della realtà, che equivale all’abolizione della realtà come l’abbiamo conosciuta. Dopo quasi tre anni di scrittura qui su Substack, credo di avere un’idea del tema e del tono del libro che ho sentito di dover scrivere fin dall’inizio, e che ora propongo di procedere con il titolo provvisorio: L’abolizione della realtà.
“Oh sì, molto originale!”, sento rispondere, “è Matrix!”.
Non proprio. In una recente conversazione su Twitter tra Andrew Tate e Tucker Carlson, Tucker si è vantato di non aver mai visto il film Matrix. Tate non poteva crederci. Posso fare di meglio: Ho visto metà del primo film, almeno due volte, ma non sono riuscito a proseguire. Non mi piace la fantascienza, non perché non mi interessi il futuro, ma perché mi interessa, e perché ho bisogno che il futuro sembri naturalistico, organico, non truccato, come quei saggi che scrivevamo a scuola nel ventesimo secolo su “La vita nel 2000 d.C.”, in cui tutti andavano in giro in hovercraft e per pranzo mangiavano una pillola macchiata al centro di un grande piatto. Non ho mai avuto l’impressione che la fantascienza nei libri o nei film riflettesse adeguatamente il modo in cui la realtà si trasforma e si intreccia nel tempo, perché mancano sempre gli aspetti più sorprendenti di quei processi osservati nell’arco di una vita. Una strana bizzarria del tempo, in questo senso, è che sembra non cambiare affatto, di giorno in giorno, di anno in anno, o addirittura di decennio in decennio, nel continuo intreccio di se stesso, eppure, ogni volta che elementi del passato si manifestano nel presente, essi – osservati come da una distanza temporale – appaiono inverosimilmente diversi da come li si ricorda. Se si guarda una Ford Escort Mark One del 1970 da dietro in un paesaggio stradale del 2023, sembra insicura e molto molleggiata, come un’anoressica traballante in minigonna, allo stesso tempo futuristica e incredibilmente antiquata, e ci si chiede se qualcuno possa aver progettato un’auto del genere e a cosa stesse pensando. Eppure, hai il ricordo più nitido di aver invidiato il tuo amico perché, un giorno del 1971, suo padre guidava uno di questi aggeggi, completo di ruote sportive e coprisedili in pelle di pecora, e di un cagnolino sul lunotto posteriore che annuiva al traffico che sopraggiungeva.
Se guardo la fotografia di un paesaggio stradale degli anni Ottanta, non mi sembra che sia un luogo in cui sono passato, anche se si tratta della mia città natale, e ci sono segni di costanza, come la chiesa o il ponte vicino alla sala da ballo, che lo rendono inconfondibile. Non ricordo di essere stato in luoghi simili, né di aver visto veicoli a motore di forma così strana o persone vestite in modo così inqualificabile. Tutto sembra essere una sorta di reazione a qualcosa di non visibile, come se si trattasse di una sorta di manifestazione in maschera nata dalla perversione, una forma di burlesca ripicca nei confronti di un passato che non si può immaginare ma che è ovviamente ripudiato.
Questa sembra essere una caratteristica continua dell’evoluzione della storia umana. Il passato è diventato qualcosa di folle, come se dovesse ancora arrivare; il presente dà l’impressione che abbiamo smesso di essere in grado di immaginare il futuro a sufficienza persino per scrivere uno di quei saggi, perché il futuro sta già invadendo il presente a un ritmo che fa sembrare i nostri panorami immaginati antiquati prima ancora di essere messi a fuoco. Eppure, la nostra esperienza del presente è una condizione scardinata e rivoltante. Il tempo sembra essersi bloccato, essere andato a male, come un campo di cavoli, così che non rimane nulla di utile, di significativo, di speranzoso.
Le radici di questi trucchi del tempo e della cronologia sembrano iniziare con la crescente tecnologizzazione della realtà quotidiana, un concetto relativamente nuovo nel senso che i dispositivi ora disponibili sembrano conferire maggiori e più rapide possibilità evolutive alla vita quotidiana dell’essere umano medio. La difficoltà non riguarda la complessità o l’inconoscibilità della tecnologia, ma la capacità dell’immaginazione di cogliere cose che non sono ancora state, per così dire, “scoperte”, nel senso che stiamo ancora sperimentando l’ultima generazione di tecnologia quando arriva la prossima. Abbiamo tempo – se non altro questo – solo per capire il funzionamento operativo dei nostri dispositivi prima che diventino obsoleti, ma nel frattempo il loro effetto cumulativo richiede tempo, cambia la mente, cambia l’epoca e radicalizza l’esistenza in modi che non abbiamo tempo o capacità di immaginare. Il nostro presente è costantemente minato dalla contingenza dell’attesa di invenzioni non ancora avvenute ma non evitabili, che cambieranno tutto… di nuovo. Ad esempio, se negli anni Settanta a un gruppo di me e ai miei coetanei fosse stato mostrato un filmato che mostrava un paesaggio stradale del 2023 con persone che camminavano con un oggetto indecifrabile incollato all’orecchio o tenuto davanti a sé come un libro di preghiere, quanto tempo avremmo impiegato per capire cosa fosse?
L’altro giorno ho chiesto al mio figliastro di quattro anni, Kojak, che cos’è Twitter e lui mi ha risposto: “È un posto dove la gente va per mandare messaggi a persone che non conosce”.
Perfetto, soprattutto per quanto riguarda il fatto che sia un luogo e, ancora di più, per quanto riguarda l’invio di messaggi a “persone che non conoscono”. Questi concetti sarebbero stati impensabili quando avevo la sua età. (Elon Musk deve parlare con il nostro Kojak!) Ma per la maggior parte degli utenti, Twitter è solo Twitter, una tautologia. Sputiamo parole come se sapessimo cosa significano quando, nel migliore dei casi, abbiamo solo una comprensione molto limitata delle loro implicazioni, se non quella che abbiamo ricavato da ripetuti ascolti e dalle nostre stesse ripetizioni di qualsiasi cosa ne facciamo.
Riuscite a immaginare come sia il cyberspazio? Sappiamo cosa significa, più o meno: una specie di luogo senza luogo in cui parole e immagini si passano l’un l’altra in qualcosa di simile allo spazio nel tragitto tra due persone che non si sono mai incontrate, o forse si sono incontrate ma non cambia nulla. Tutti questi promemoria e saggi e poesie in prosa e poemi poetici e lettere d’amore e messaggi sessuali e selfie e meme e documenti di immunologia, tutti si urtano leggermente l’un l’altro – se lo fanno – nel percorso verso un numero inimmaginabile di destinazioni da un numero incomprensibile di punti di origine. Ma sapreste spiegarlo a vostra nonna? Comprendiamo il cyberspazio senza capirlo. Lo immaginiamo, ma in un modo confuso che non ha alcuna radice o origine nella realtà tridimensionale e concreta. La nostra immaginazione è in grado di assimilarla almeno in misura sufficiente a far funzionare i relativi meccanismi, anche se probabilmente non di più. Eppure, non possiamo descriverlo, non con frasi di uso quotidiano che forniscano i concetti necessari a comprenderlo con lo stesso livello di concretezza di chi dice: “Sono caduto dalla bicicletta alla brutta curva prima del ponte rosso sulla collina tra la chiesa e l’ufficio postale”.
Allo stesso modo, parliamo in modo impressionante e spensierato di transumanesimo, di singolarità, di avere la testa scheggiata da Elon e dell’imminente nuova utopia della trascendenza non sacra, ma in realtà non sappiamo letteralmente di cosa stiamo parlando. Possiamo usare tutte le parole e le frasi corrette, ma non possiamo immaginare come sarà, perché non sarà “come” nulla di ciò che possiamo attualmente immaginare.
Consideriamo questa definizione:
Il transumanesimo predica la possibilità di un potenziamento tecnologico del corpo umano, sia attraverso l’uso di protesi tecnologiche che attraverso un’estensione della vita resa possibile dall’uso della genetica, dell’ingegneria biomedica e delle nanotecnologie. L’obiettivo finale del transumanesimo è quello di superare completamente la necessità di un hardware biologico attraverso la fusione integrale tra uomo e macchina resa possibile dal mind-uploading, una tecnica che riverserebbe su un’infrastruttura digitale l’intero contenuto della mente umana.
La prima frase è relativamente comprensibile. La seconda sembra un’assurdità.
Ma provate a pensare di cercare di spiegare a vostra nonna, anche solo un decennio fa, che cos’è il transgenderismo. Eppure, eccolo qui, proprio sulla vostra strada, e persino i vostri nonni devono farci i conti. Lo so, perché sono uno di loro, ma almeno ho ancora la capacità di sapere che è un’assurdità, mentre quelli che hanno solo le parole per afferrare vagamente le sue implicazioni hanno altre parole con cui razionalizzare e adattarsi: “Bisogna stare al passo con i tempi”.
La verità è che molte cose che diamo per scontate nella realtà tecnologica e tecnocratica sono tali che ci sentiamo costretti ad accettarle e, in un certo senso, a “comprenderle” senza in realtà capirle o sapere come funzionano. Oppure, anche se sappiamo come funzionano – nel senso che, forse come scienziati o tecnologi, o semplicemente come nerd o consumatori, conosciamo il gergo e i concetti e come si incastrano tra loro, ma fino a che punto si estende la comprensione di tutti, tranne pochi, prima che debbano dire qualcosa come: “La nanotecnologia non faceva parte della mia laurea!”? Molto spesso, quando ci addentriamo in questi ambiti, utilizziamo metafore e analogie per aiutarci a spiegare, o a spiegare a noi stessi. Forse abbiamo sempre vissuto in mondi che sono al di sopra delle nostre possibilità, ma con il tempo siamo riusciti a trovare un accordo concettuale con essi, tirando fuori con disinvoltura parole e frasi che comunicano il nostro senso del loro significato generale, anche se forse non siamo in grado di penetrare oltre il primo strato della loro effettiva natura e configurazione e implicazioni, e in realtà ci limitiamo a ri-generare l’oggetto sotto forma di parole che lo “sostituiscono” senza catturarne o descriverne l’essenza.
Il defunto filosofo francese Jean Baudrillard è stato sia un poeta che un profeta, anche se – opportunamente – in sensi diversi da quelli normalmente evocati da queste parole. Era un profeta non in quanto prevedeva il futuro, ma in quanto prevedeva il futuro del futuro, così da essere in grado di anticipare il futuro e di coniare frasi per descrivere non solo ciò che vedeva, ma anche ciò che poteva significare. Spesso viene descritto come un “sociologo postmoderno”, ma lui lo nega a gran voce, così come rifiuta l’idea di essere rimasto marxista in età avanzata. Era, infatti, più un poeta che una di queste cose, anche se non credo che abbia scritto una poesia in vita sua, nonostante ne abbia ispirate parecchie.
È come profeta che lo vediamo qui. Egli ha predetto la condizione dell’oggi, cioè di questo momento in cui state leggendo, ma non tanto nei suoi particolari quanto nella sua condizione generale. Per tutta la seconda metà del XX secolo, egli riconobbe che l’essenza stessa della realtà stava per cambiare, o era già cambiata, sotto il logorio della tecnologia, cosicché nulla di ciò che avremmo incontrato d’ora in poi sarebbe stato simile a ciò a cui eravamo abituati, o a ciò che avremmo potuto aspettarci su quella base. Per sua stessa ammissione, non sapeva nulla di tecnologia, ma riusciva a vedere oltre gli alberi, fino al bosco. Le sue osservazioni non sono quindi una funzione di predizione, ma di logica osservativa e di testimonianza poetica dei cambiamenti culturali e di vita che hanno accompagnato la rivoluzione tecnologica.
Scriveva in prosa, ma non nel modo suggerito dalle implicazioni riduttive di questa parola. Come tutti i grandi poeti, non diceva mai quello che diceva, ma confidava che le parole risuonassero con il tempo che sarebbe venuto dopo, cosa che hanno fatto e continuano a fare. Non è possibile trovare nella sua opera una singola frase o un singolo paragrafo in risposta al quale si possa dire: “Ah! Questo è ciò che intendeva!”, ma il senso di ciò che intendeva deve essere raccolto cumulativamente attraverso l’immersione nelle sue parole. In realtà, non sta parlando di eventi o di sviluppi nel mondo, quanto di uno spostamento del centro di gravità del mondo, culturalmente parlando, in modo che non possa più essere considerato come lo stesso mondo raffigurato dalla storia, dalla letteratura e persino dalla scienza, con l’ulteriore implicazione che i suoi abitanti non possono più essere compresi sociologicamente, o psicologicamente, o persino intuitivamente.
Ciò che suggerisce, ridotto a uno schizzo, è che, come risultato del funzionamento della tecnologia, delle reti, dei computer portatili, degli smartphone, di Internet e, implicitamente, dei social media (sebbene egli sia morto proprio quando questo stava prendendo piede), la realtà come la conoscevamo aveva cessato di essere ed era stata sostituita da una “copia” di se stessa, che non era affatto simile all’originale. È strano che, scrivendo questo articolo, sia accaduto qualcosa di simile al testo che contiene le mie descrizioni della realtà e del baudrillardismo. Lo sto scrivendo su un computer portatile, che mi fornisce un conteggio continuo delle parole. Senza alcun motivo particolare, senza alcuna inclinazione o istruzione da parte mia, il file su cui stavo lavorando mi ha offerto la possibilità di fare una copia di se stesso. Questo poteva essere un momento allarmante, perché non avevo modo di sapere – se non leggendo le oltre 7.000 parole che avevo scritto sia nella copia che nell’originale – quale fosse la più completa delle due. Ho trovato l’originale e ho notato che aveva 7.567 parole; ho controllato la copia e ho visto che aveva 7.633 parole. Ho scelto di continuare con la copia, abbandonando l’originale alla condizione di fossile. Ora, il mio articolo è una copia di se stesso, e questo è qualcosa di simile a ciò che Baudrillard suggerisce sia accaduto con la realtà e lo stato del mio essere in essa.
Siamo entrati, dice, in un “simulacro” della realtà. A causa della frattura della realtà operata dalla tecnologia e dalle comunicazioni tecnologiche, è diventato impossibile restituire schemi coerenti agli eventi che sono stati “atomizzati” in virtù del fatto che sono stati elaborati, fatti circolare e ritrasmessi fino a diventare senza tempo.
Al di fuori di certi ambienti postmoderni, è un luogo comune per i commenti pubblici assumere che la realtà sia qualcosa di fissato in particolari fondamenta, e quindi un fenomeno che i media semplicemente descrivono o analizzano nella forma che assume in quel luogo. Baudrillard (ma non solo lui) è di parere diverso: l’oggetto che sta lì è tanto la creazione delle descrizioni e delle rappresentazioni quanto di qualsiasi processo concreto di produzione, e Baudrillard mi correggerebbe: “Molto di più”. La difficoltà che abbiamo nel comprendere questo ha a che fare con la relativa lentezza dell’evoluzione da una forma di realtà all’altra. Una volta l’oggetto era davvero tutto ciò che c’era; ora l’oggetto è solo un punto di partenza, un’entità fugace che diventa subito immagine, e può non esserci più, o essere stato, in primo luogo, uno strumento di depistaggio o un’illusione nata e riprodotta dalla propaganda. Ora, l’immagine è tutto e l’immaginazione è quindi il miglior strumento di comprensione della realtà.
La forza dell’ironia che impregna la prosa di Baudrillard è tale che non è possibile individuare la posizione precisa del suo pensiero nello spettro che si estende tra metafora e letteralismo. Sembra chiaro che stia parlando in senso metaforico – ma, d’altra parte, forse no. Non dichiara o riconosce mai di parlare per metafore. E non spiega nemmeno il processo attraverso il quale i concetti da lui rappresentati potrebbero essere entrati nella realtà come cose materiali, cosa che rimane oggettivamente inimmaginabile, se non impossibile. Ma una cosa che possiamo dire con certezza è che la sua ipotesi, per tutti i suoi aspetti fantasiosi, offre un’approssimazione di spiegazione, o almeno una contestualizzazione, per la maggior parte di ciò che sta accadendo ora, per ciò che ci è accaduto, per esempio, negli ultimi 40 mesi. Le cose che accadono nel 2023, che ci lasciano senza fiato se contemplate dalla prospettiva, ad esempio, del 1989, stanno gradualmente diventando quasi naturalistiche. Elaborare questo aspetto dal punto di vista sociologico, psicologico o politico sembra non portarci da nessuna parte, se non a girare nello stesso cerchio. Se pensiamo di essere usciti dal tempo, allora non c’è bisogno di altre spiegazioni.
Vale la pena di ripeterlo per dare maggiore enfasi: È difficile capire dalla sua frase quanto letteralmente intendesse che la sua definizione fosse presa, o cogliere con precisione la misura in cui potesse intenderla in senso metaforico, o addirittura metafisico – ma la sensazione è che stia almeno evitando il letteralismo. Per essere uno che non “conosceva molto l’argomento”, scrive in modo folgorante dell’impatto della tecnologia sulla coscienza e sulla cultura umana.
Per Baudrillard, in funzione delle forze su cui si concentrava, la storia era già finita. In polemica con lo scrittore italiano Elia Canetti, che nel 1945, all’indomani dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, sosteneva che l’umanità aveva abbandonato la storia rendendola irreale, ma che un giorno sarebbe ritornata, Baudrillard dichiarava impossibile una tale restaurazione. Secondo Canetti, i bombardamenti avevano eclissato il Sole come fonte del potere umano terreno: “La luce è detronizzata, la bomba atomica è diventata la misura di tutte le cose. La cosa più piccola ha vinto: un paradosso del potere”. Eppure, Canetti rimaneva ottimista: l’equilibrio sarebbe stato nuovamente ristabilito.
Baudrillard la pensava diversamente. A causa della frattura della realtà operata dalla tecnologia e dalle comunicazioni tecnologiche, insisteva, era diventato impossibile ripristinare schemi coerenti agli eventi che erano stati “atomizzati” a causa dell’elaborazione, della circolazione e della ritrasmissione fino a un’instabile atemporalità. L’indifferenza della maggior parte dell’umanità nei confronti del significato o del contenuto, se non come distrazione, ha fatto sì che la storia rallentasse e arretrasse ulteriormente. Anche in questo caso, è difficile comprendere con precisione fino a che punto egli possa aver inteso ciò in senso metaforico, ma la sensazione è che, come sempre, egli stia almeno sfuggendo al letteralismo, perché l’immaginario è tutto ciò che resta del reale. Anche se solo per certi aspetti, la realtà è un costrutto immaginativo. Se si riesce a convincere la maggioranza che il reale è come lo si descrive, si è a metà strada. Se poi riuscite a costruire la parvenza di quella realtà, come un palcoscenico, attraverso la linea visiva della popolazione, cosa rimane per contraddire il vostro racconto di ciò che è la realtà?
Sotto il logorio delle condizioni intuite da Baudrillard nel mondo così come lo leggeva, tutto si trasforma in un film. Poiché oggi tutti sono condizionati a pensare che la realtà si svolga in questo modo, non è difficile per gli aspiranti manipolatori imporre se stessi e i loro piani per il mondo. Abituata a seguire narrazioni in tre atti, la gente risponde come se fosse naturale a versioni sceneggiate della “realtà” – pseudo-realtà, la nuova merce dei media.
Inoltre, il tenore degli eventi trasmessi attraverso le tecnologie è diventato tale da far sorgere il dubbio che questi contenuti siano anche solo lontanamente credibili, poiché le possibilità tecniche e la quasi perfezione della trasmissione sono tali da mettere in dubbio l’esistenza di un evento sorgente – qualcosa di umanamente generato dietro la merce che piomba completamente formata nella mia casella di posta elettronica, per esempio – proprio come la perfezione del suono stereofonico mette in dubbio che la musica possa essere stata originata da un’orchestra o da un interprete organico. Non potendo tornare a verificare la fonte, siamo gettati in un mondo di mezzo tra il dubbio e la certezza, senza credere né incredulità, senza fede né scetticismo. Baudrillard ha descritto questo fenomeno decenni prima della comparsa dei deepfakes.
Oh, giusto!, direte voi, “è Matrix”. Sì, ma fate attenzione! Baudrillard precede anche Matrix in tutte le sue incarnazioni. È il padre e il padrino di Matrix. È stata la sua opera a ispirare il film omonimo, ma, pur essendo stato coinvolto nelle fasi iniziali come consulente, in seguito ha rinnegato il progetto perché si era allontanato dalle sue intenzioni.
Tuttavia, non aveva previsto le implicazioni totali. Da anarchico metafisico (ma non nichilista o amoralista), non vedeva tutto questo come una catastrofe. In un passaggio sul “soggetto” moderno nel suo libro Scambio impossibile, parla – ironicamente, si spera, ma forse no – della “liberazione” del soggetto attraverso le tecnologie, le reti, gli schermi, facendolo diventare fratturato, “sia suddivisibile all’infinito che indivisibile, chiuso su se stesso e condannato a un’identità senza fine”.
Se si volesse essere prosaici e antiquati – cioè lavorare con la logica e i metodi del mondo della “realtà” scomparso – si potrebbe immergersi e divinare una serie di spiegazioni “sociologiche” per le cose che egli sostiene per il simulacro e per come le cose si sono svolte dalla sua morte nel 2007. Si potrebbe dire, ad esempio, che tra gli effetti delle ondate di tecnologizzazione passate e future c’è sì, come dice lui, una forma di “liberazione”, ma che la “liberazione” in questione è quella che tende al caos e al disordine, e quindi potrebbe essere l’opposto della libertà. Ma perché, come? Forse perché questa è la natura del potere, di qualsiasi forma esso sia; forse perché la natura della cultura è quella di aborrire il vuoto; forse perché, sottraendo prima i bambini alla supervisione dei genitori, la tecnologia popolare li rende culturalmente feroci – in un certo senso “più intelligenti” dei loro genitori su cose che contano solo nel simulacro, ma che col tempo diventano le uniche cose che contano per loro – e quindi inclini a tendenze de-civilizzanti.
Questo senso di “liberazione” si trasmette attraverso la cultura, autorizzando un cambiamento di comportamento da parte di tutti coloro che ne sono coinvolti, così che presto solo l’eremita rimane inalterato. In fondo, la “liberazione” di cui parla Baudrillard ha a che fare con l’idea insinuata che il passato è finito, la storia è finita, e quindi virtualmente – per così dire – tutto ciò che contava prima non conta più, o conta molto meno di prima. L’effetto sui giovani si ripercuote sul pensiero e sul comportamento dei genitori, che sono anche legislatori, giudici, poliziotti, medici e presentatori televisivi. In generale, questi – pur essendo ancora riconoscibili come figure di autorità – avevano da tempo ricercato l’inafferrabile qualità di “cool” a causa della pressione interna della cultura post-sessantottina, e quindi si sono lasciati convincere piuttosto facilmente. Nella misura in cui ciò che è accaduto può essere comunicato sociologicamente, questo è tutto ciò che c’è da dire. Baudrillard ha a malapena, se non mai, affrontato queste circostanze in termini sociologici, ma ha sempre parlato come di una forma di magia, probabilmente perché sapeva che questo era il modo in cui gli effetti e le conseguenze si sarebbero manifestati nel mondo. Ciò che non aveva previsto è che sarebbe stata una magia nera, almeno per quanto riguarda il suo svolgimento. Fino alla sua morte, avvenuta nel 2007, gli effetti sembravano essere esattamente quelli che lui aveva previsto; è solo nell’ultimo decennio circa che la natura tossica e distruttiva di questi fenomeni è diventata chiara.
Quindi: In un punto di rottura incerto in un passato non troppo lontano, l’uomo ha smesso di vivere nella realtà ma si è mosso inconsapevolmente, come risucchiato in un buco nero, un “simulacro” del reale – e tuttavia privo di tutte le somiglianze con esso, se non quelle più superficiali – un mondo virtuale fatto di circuiti e reti e pixel e memi, in cui era necessario che l’uomo si virtualizzasse per cessare di essere un soggetto nel vecchio senso con un “io” e un’anima, e diventare come un’unità della folla. Il soggetto “perfetto” del simulacro, scrive Baudrillard, è un individuo che ha anche uno status di massa – come una particella della folla fuori dalla sua finestra. Egli è “la dispersione dell’effetto di massa in ogni singola particella…”. Oppure, in alternativa, l’individuo stesso forma una massa – la struttura della massa è presente, come in un ologramma, in ogni singolo frammento. Nei mondi virtuali e mediatici, la massa e l’individuo sono solo estensioni elettroniche l’uno dell’altro”.
Di nuovo, possiamo provare a tradurre: “Ah, la folla! Formazione di massa”. Sì, certo, ma… ‘
L’uomo si frammenta in molti e diventa una folla, che a sua volta diventa come una mente individuale. Questo è in qualche modo vicino alle caratterizzazioni di Gustave Le Bon, quasi un secolo prima di Baudrillard. Ma Baudrillard propone un’ulteriore possibilità: La tecnologia crea una frammentazione che affligge (contemporaneamente?) sia la folla che l’individuo, come se la struttura quantistica – che prima definiva solo l’individuo – fosse diventata in qualche modo una descrizione altrettanto funzionale della folla. L’individuo non esiste più, anche se persiste la presunzione della sua esistenza, perché lascia impronte e sembra essere lì. Ma nella “realtà”, secondo Baudrillard, non c’è nessuno. Ora c’è solo la folla, ma per il momento gli “elementi” costitutivi (gli esseri umani) presumono di essere come erano: separati e indipendenti.
Tutto questo avviene a livello di apprensione da parte dell’immaginazione, che è davvero l’unica realtà che possiamo conoscere. Ciò che è reale è ciò che può essere immaginato, e questo è più concreto di ciò che è vero, o concreto. Baudrillard distingue tra la “realtà” (ciò che è scomparso) e il “reale”, che la sostituisce.
Un simulacro non è la stessa cosa di un falso. Il simulacro è iper-reale, cioè è più reale della realtà, che viene abolita nel processo di creazione del simulacro. È, dice Baudrillard, “la generazione per modelli di un reale senza origine né realtà”. È la mappa senza territorio; la mappa è tutto ciò che c’è, il territorio potrebbe anche non essere mai esistito prima della mappa, e probabilmente non è esistito – “e non sopravvive ad essa”. La mappa precede il territorio, che viene abolito. Viviamo nella mappa, immaginando che sia la realtà, mentre non esiste più la realtà e solo la mappa è reale. Il simulacro è uno spazio in cui non c’è differenza tra “vero” e “falso”, o tra “reale” e “immaginario”. Non c’è differenza tra una persona che simula la follia e una persona folle e, allo stesso modo, non c’è differenza tra un politico che afferma qualcosa di vero e un politico che dice la verità, perché una volta che l’ha affermata, diventa vera.
Il reale è stato sostituito dai segni del reale, che sono più convincenti del reale, perché non c’è più distinzione tra reale e immaginario. Si tratta di una strana involuzione del pensiero: È implicito in tutto ciò che Baudrillard scrive su questo argomento che egli si rivolge alla condizione della cultura, ed è in questo senso che cerca di analizzare i significati di “realtà”, “reale”, “falso” e “simulacro”. La cultura è l’unico fenomeno reale, perché ciò che crediamo diventa ciò che sappiamo, che diventa l’unica verità che conta. Qualunque cosa emerga da questo schema culturale sarà tutta la realtà che possiamo conoscere. Così, quando Baudrillard parla della confluenza tra “reale” e “immaginario”, sta definendo la natura precisa del ruolo dell’immaginazione – collettiva e individuale (nella misura in cui questo rimane rilevante) – dell’umanità, e nel farlo dice che ciò che immaginiamo, o siamo portati a immaginare, sarà la realtà che ci imprigiona. Così come non c’è differenza nella “realtà” tra “il reale” e “l’immaginario”, lo stesso vale per l’ipotesi di Baudrillard, che riguarda l’immaginazione ma che in tal modo definisce il (nuovo) “reale”. L’unica evidenza del “reale” è in ciò che immaginiamo per noi stessi su ciò che è la realtà, che è diventata ipso facto l’unica realtà effettivamente esistente.
Questa (nuova) “realtà” emerge, come se fosse spontanea, dalle viscere della postmodernità. Il “reale”, dice Baudrillard, è prodotto “da cellule miniaturizzate, matrici e bande di memoria, modelli di controllo – e può essere prodotto un numero indefinito di volte da questi. Non ha più bisogno di essere razionale, perché non si misura più con un’istanza ideale o negativa. Non è più nient’altro che operativo”.
Questa osservazione contiene enormi risonanze per ciò che è accaduto alla politica, al governo e allo Stato di diritto nei nostri Paesi negli ultimi anni, ma soprattutto negli ultimi 40 mesi.
La tesi essenziale di Baudrillard è incentrata sull’idea che gli effetti degli sviluppi tecnologici e comunicativi siano stati tali da spostare la funzione dei mass media dal tracciare o – più spesso – nascondere la realtà, al generare effettivamente la realtà. Si tratta di ciò che egli definisce “simulazione”, un processo di costante riproduzione della realtà a partire dai segni, dai codici e dai modelli dei media, che filtrano a loro volta i segni, i codici e i modelli della politica, dell’ideologia, della scienza, della medicina, ecc. Ciò è avvenuto soprattutto attraverso l’uso delle tecnologie digitali, la cui natura binaria serve a suddividere il mondo (cioè, soprattutto la sua popolazione) in due elementi essenziali: (speculazione mia: originali e copie, pensatori e ripetitori, purosangue e cyborg, eccetera). Questi processi sono visti come forme di falsificazione, che rispecchiano quelle dei monaci medievali che copiano testi da antichi manoscritti, i processi di produzione di massa seguiti alla razionalizzazione della linea di produzione di Frederick Taylor, il lavoro di Andy Warhol con i multipli ripetitivi di immagini iconiche e i dispositivi moderni come la macchina fotografica, la fotocopiatrice e lo scanner – e, naturalmente, Internet.
La principale preoccupazione di Baudrillard è quella di considerare gli effetti di questi processi sulla soggettività dell’individuo. Il passaggio dall’oggetto all’immagine (cioè la registrazione visiva di un oggetto o di una persona) ha cambiato la percezione umana della realtà. Questo, sosteneva, ci portava fuori dalla realtà, in cui tutto era come appariva, verso l’iperrealtà, in cui tutto era come lo immaginavamo. L’iperrealtà è il mondo del virale, del frattale, dell’esponenziale e del metastatico, una realtà infinitamente divisibile in cui la ragione e la comprensione dipendono dalla gestione della velocità con cui il materiale della realtà si sposta – cioè una gestione del caos e del cambiamento costante, con una riedizione infinitamente ripetuta di immagini e fatti, in cui l’instabilità è l’ordine naturale e per la quale la generazione di cellule cancerose all’interno del corpo umano rappresenta la metafora più appropriata. In questo, scrivendo fino a mezzo secolo fa, Baudrillard anticipava l’algoritmo e la rete neurale, che oggi danno l’impressione di essere nient’altro che la rivendicazione della sua teoria: meccanismi programmati in grado di simulare l’intelligenza, la cognizione e persino la senzienza, ma che rifanno la realtà momento per momento secondo formule che nemmeno gli agenti umani che li creano sono in grado di prevedere quanto a logiche, azioni o effetti.
Qui arriviamo all’insistenza di Baudrillard sul fatto che tutto questo può alterare non solo i fatti, ma anche l’etica e la ragione. Il problema è che, sebbene la macchina possa essere progettata da un’intelligenza umana, la “magia” dell’algoritmo può conferire capacità superiori alla somma degli input. Se il programmatore prepara la macchina con un programma “etico” e aggiunge una serie di livelli di codifica aggiuntivi, attribuendo pesi a vari fattori morali ed etici, il programma consente alla macchina, sulla base di un esame istantaneo di dati comparativi, di “pensare” a situazioni che non erano state considerate dal programmatore, forse perché non erano ancora possibili al momento dell’installazione del programma. L’algoritmo impenetrabile e indivisibile ha già inaugurato un’era non dichiarata di decisioni ermetiche e istantanee, in cui gli esiti delle decisioni umane che cambiano la vita possono essere decisi da software che si scrivono da soli e da algoritmi con la capacità di superare l’intelligenza dei loro creatori. Questi processi possono assumere solo forme arbitrarie e sommarie, il che significa che il futuro non può essere altrimenti. La cosa ancora più strana è che, anche prima che l’algoritmo si impadronisse in questo modo della cultura umana, molti degli attori umani che governano le nostre società e le loro culture sembravano scimmiottare queste tendenze senza averle mai osservate in azione. Da qui, l’automa bugiardo dell’era Covid che sostiene di “salvare vite umane” mentre ordina il massacro di massa degli anziani per mantenere un livello adeguato di pornografia spaventosa; il politico patocratico che manifesta “compassione” per i migranti fraudolenti mentre distrugge le speranze del suo stesso popolo; il giornalista che ha ingannato il suo pubblico per 40 mesi apparendo a una manifestazione pubblica sugli stipendi dei media con un cartello in cui dichiarava che “La verità conta”.
Baudrillard dice: “L’universo della simulazione è transreale e transfinito: nessuna prova di realtà verrà a porvi fine – tranne il crollo totale e lo slittamento del terreno, che rimane la nostra speranza più sciocca”.
Nel mondo iper-reale, tutte le sfumature e le sottigliezze sono perse, perché il binario è l’unica misura di distinzione e definizione. Il “reale” è solo una serie di uno e di zero. Anche Dio può essere simulato, e questo significa che il mondo non è più un mondo creato da Dio, ma da chi è in grado di simulare Dio. Questa involuzione è il fulcro di ciò che ci sta accadendo ora. In un mondo dopo Dio, tutto è lecito.
Baudrillard viene talvolta liquidato come un falso filosofo che crea reti di parole che significano poco o nulla. Ma la prova è se ciò che dice ci fa sentire una corrispondenza con ciò che sperimentiamo più convincente di qualsiasi spiegazione “razionale”, e lui supera questa prova ogni volta – e con colori che migliorano ogni giorno che passa. Forse non è affatto un filosofo, ma piuttosto un veggente del significato delle cose. Ma qual è la differenza, visto che la maggior parte dei “veri” filosofi ha già abbandonato sia il territorio che la mappa?
Direi che Baudrillard è il primo e più completo profeta di una realtà totalmente secolarizzata, nel senso che ha annunciato il significato centrale di un mondo non creato da Dio. Ciò non significa che Dio non abbia creato il mondo – ai fini di questa analisi, la questione rimane aperta – ma Baudrillard annuncia un mondo in cui le intenzioni, le leggi e persino i materiali di Dio sono stati usurpati e sostituiti da un mondo in cui l’uomo è diventato… non il dio che immagina, ma un abile falsario della realtà, il cui regno deve essere riconosciuto e accettato fino al trionfo o, più probabilmente, al dolore.
In un saggio del 1995, Il doppio sterminio (sull’Olocausto della Seconda Guerra Mondiale, ma non è questa la risonanza immediata che mi interessa), Baudrillard ha parlato della natura delirante del senso che l’umanità ha dei propri rapporti con il virtuale, che si presume essere una sorta di strumento per estendere il potere umano sulla realtà, ma che (in realtà) è qualcosa di completamente diverso.
Oggi non siamo noi a pensare il virtuale, è il virtuale a pensare noi. E per noi questa inafferrabile trasparenza, che ci separa definitivamente dal reale, è incomprensibile come il vetro della finestra per la mosca che vi sbatte contro senza capire cosa la separa dal mondo esterno. La mosca non può nemmeno immaginare cosa limiti il suo spazio. Allo stesso modo, non possiamo nemmeno immaginare quanto il virtuale – come se corresse davanti a noi – abbia già trasformato tutte le rappresentazioni che abbiamo del mondo. Non possiamo immaginarlo, perché la particolarità del virtuale è quella di porre fine non solo alla realtà, ma anche all’immaginazione del reale, del politico e del sociale; non solo alla realtà del tempo, ma anche all’immaginazione del passato e del futuro (questo è ciò che si chiama, in una sorta di umorismo nero, “tempo reale”). Siamo quindi ben lontani dall’aver capito che l’entrata in scena dell’informazione ha posto fine allo svolgersi della storia, che l’avvento dell’intelligenza artificiale ha posto fine al pensiero, ecc. L’illusione che ancora nutriamo nei confronti di tutte queste categorie tradizionali – compresa l’illusione di “aprirci al virtuale”, come se fosse un’estensione reale di tutte le potenzialità – è l’illusione della mosca che sbatte senza sosta contro il vetro della finestra. Perché noi crediamo ancora nella realtà del virtuale, mentre il virtuale ha già virtualmente strapazzato tutte le vie del pensiero.
Più avanti, nello stesso saggio, ribadisce la misura in cui tutto – politica, sociologia, storia, pensiero – si è virtualizzato:
Il sociale, il politico, lo storico – persino la morale e la psicologia – non esistono più se non eventi virtuali all’interno di tutte queste categorie. Ciò significa che è inutile cercare una politica del virtuale, un’etica del virtuale, ecc. poiché è la politica stessa che sta diventando virtuale, l’etica stessa che è diventata virtuale, nel senso che sia la politica che l’etica stanno perdendo i principi che regolano la loro azione, perdendo la loro forza di realtà. E questo vale anche per la tecnologia: parliamo di “tecnologie del virtuale”, ma la verità è che ora ci sono – o ci saranno presto – solo tecnologie virtuali. Ora, non può più esistere la nozione di artificio in un mondo in cui il pensiero stesso, l’intelligenza, sta diventando artificiale. È in questo senso che possiamo dire che è il virtuale a pensare noi, non il contrario.
Questo implica che la politica e l’etica sono cose di un passato che si allontana e diventa un ricordo ammaliante, il che contribuirebbe a “spiegare” alcune delle cose a cui stiamo assistendo negli ultimi 40 mesi: l’improvvisa rottura dell’amoralità da parte dei politici, l’abolizione silenziosa delle nazioni e delle leggi, la tirannia delle forze di polizia, la vera e propria corruzione delle magistrature, il ribaltamento dei modelli mediatici da una verità approssimativa a una vera e propria menzogna incessante. E, qui, in quello che passa per il presente, proprio come la Ford Escort del 1970 sembra assomigliare contemporaneamente a un’astronave e a una carrozzella quando è parcheggiata in un paesaggio stradale contemporaneo, e sembra essere stata progettata per apparire come una sorta di risposta provocatoria a una Ford Prefect o Popular degli anni Sessanta, così il sistema di valori della realtà emergente viene formulato come l’antitesi di ciò che è venuto prima. In questa dispensazione, il bene diventa male; il male, bene; il pervertito, il modello; il su, il giù; il dentro, il fuori; la verità, la menzogna; la menzogna, il fact-checker. Ecco perché le cose sembrano così strane, perché le parole hanno esaurito la loro strada. Ci muoviamo in un mondo nuovo, pur immaginando di vivere in un continuum con il vecchio.
Questa visione della realtà può rimanere sfuggente per molti perché i nuovi costrutti germogliano come se fossero organici da quelli più vecchi e più stabili, ereditando e adottando le modalità e i codici di questi ultimi in misura tale da farli passare per prosecuzioni naturalistiche in una nuova era che promette solo cose buone. Le abitudini di esistenza nel tempo lineare hanno insinuato una continua plausibilità che sopravvive alle più radicali alterazioni di direzione e carattere, e in qualche modo, nell’immaginario della maggioranza, la transizione passa inosservata. Sorgendo sulle fondamenta del vecchio modello, gli edifici attuali appaiono come una semplice versione modernizzata della stessa idea di base di prima, mentre in realtà sono qualcosa di completamente nuovo, senza precedenti, né buoni né cattivi. Gli edifici di fiducia costruiti più generazioni fa, e tramandati con gioia e orgoglio, sono stati ereditati da abitanti di un mondo completamente diverso, in cui l'”etica” operativa consiste nel dissanguare tutto per ottenere un profitto immediato e nel considerare gli esseri umani come un fastidio superfluo, a meno che non siano immediatamente utili, cosa che per lo più non è. Inoltre, la nostra abitudine di associare i concetti, per analogia, al mondo materiale continua a ingannarci nell’attesa che questo (nuovo) mondo si stabilizzi secondo le vecchie regole (immutabili?).
C’è anche, avverte Baudrillard, qualcosa di pericolosamente terapeutico in questo nuovo mondo. Andy Warhol ha osservato che “più si guarda la stessa identica cosa … più ci si sente bene e più vuoti”. Si riferiva alla natura ripetitiva della cultura popolare, che sfruttava a fini di commento e sfruttamento. La sua convinzione sui benefici emotivi della visione ripetuta lo portò a ripetere le immagini nelle sue opere d’arte. Guardiamo le sue Marilyn Monroe e sentiamo immediatamente che sono “iconiche” di un’epoca in cui la ripetizione era una virtù, forse l’unica. Ora viviamo in un mondo incomprensibile in cui la familiarità generata dalla ripetizione di sensazioni ricordate a metà è l’unica cosa che ci dà pace.
John Waters
Avvertenza: Questa potrebbe essere la prima di una serie in due parti. Attenzione!
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