Di seguito segnalo all’attenzione e alla riflessione dei lettori di questo blog l’articolo scritto dal prof. Leonardo Lugaresi e pubblicato sul suo blog. Visitate il sito e valutate liberamente le varie opzioni offerte e le eventuali richieste.
L’articolo è molto importante e vi consiglio di leggerlo con molta attenzione.
Paradossalmente, bisogna essere grati a mons. Fernandez, nuovo prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede e prossimo cardinale, perché, loquace com’è (pare che abbia già dato una quarantina di interviste da quando è stata annunciata la sua nomina) e forse meno cauto di altri nel parlare, gli capita di dire apertamente il suo pensiero.
Intervistato da Edward Pentin per la rivista National Catholic Register l’11 settembre scorso, ha fatto la seguente dichiarazione, che riporto prima in inglese e poi nella traduzione italiana che riprendo dal sito di Sabino Paciolla, qui: https://www.sabinopaciolla.com/arciv-fernandez-attenzione-ai-vescovi-che-pensano-di-poter-giudicare-la-dottrina-del-santo-padre-perche-sarebbe-eresia-e-scisma/.
«When we speak of obedience to the magisterium, this is understood in at least two senses, which are inseparable and equally important. One is the more static sense, of a “deposit of faith,” which we must guard and preserve unscathed. But on the other hand, there is a particular charism for this safeguarding, a unique charism, which the Lord has given only to Peter and his successors.
In this case, we are not talking about a deposit, but about a living and active gift, which is at work in the person of the Holy Father. I do not have this charism, nor do you, nor does Cardinal Burke. Today only Pope Francis has it. Now, if you tell me that some bishops have a special gift of the Holy Spirit to judge the doctrine of the Holy Father, we will enter into a vicious circle (where anyone can claim to have the true doctrine) and that would be heresy and schism. Remember that heretics always think they know the true doctrine of the Church. Unfortunately, today, not only do some progressives fall into this error but also, paradoxically, do some traditionalist groups».
«Quando parliamo di obbedienza al magistero, questa viene intesa in almeno due sensi, che sono inseparabili e ugualmente importanti. Uno è il senso più statico, di un “deposito della fede” che dobbiamo custodire e preservare indenne. Ma dall’altro lato, c’è un carisma particolare per questa salvaguardia, un carisma unico, che il Signore ha dato solo a Pietro e ai suoi successori.
In questo caso non si tratta di un deposito, ma di un dono vivo e attivo, che è all’opera nella persona del Santo Padre. Io non ho questo carisma, né voi, né il cardinale Burke. Oggi lo possiede solo Papa Francesco. Ora, se lei mi dice che alcuni vescovi hanno un dono speciale dello Spirito Santo per giudicare la dottrina del Santo Padre, entreremo in un circolo vizioso (dove chiunque può affermare di avere la vera dottrina) e questa sarebbe eresia e scisma. Ricordate che gli eretici pensano sempre di conoscere la vera dottrina della Chiesa. Purtroppo, oggi, non solo alcuni progressisti cadono in questo errore ma anche, paradossalmente, alcuni gruppi tradizionalisti».
Immagino che mons. Fernandez, non essendo (ancora?) papa, non ritenga di essere avvolto dalla stessa aura di indiscutibilità che egli attribuisce alla persona del pontefice, dunque non gli dispiacerà affatto se un semplice battezzato come me si permette di esprimere alcune perplessità generate dalla lettura di questa sua dichiarazione.
Benché all’inizio definisca «inseparabili e ugualmente importanti» le due forme di obbedienza al magistero che distingue, di fatto egli le separa, implicitamente le contrappone, e considera l’una molto più importante dell’altra. La prima obbedienza, infatti, egli la applica a quello che chiama, con un’espressione tradizionale, il deposito della fede, cioè il corpo della verità della Rivelazione. La parola «deposito» (in greco παραθήκη) nel NT compare solo tre volte, nelle due Lettere a Timoteo, scritti pastorali di ambiente paolino che la grande maggioranza degli studiosi non considera però di mano dell’apostolo ma composti probabilmente verso la fine del I secolo. In tutte e tre le occorrenze, il termine è strettamente connesso con il verbo custodire: «O Timoteo, custodisci il deposito (τὴν παραθήκην φύλαξον); evita le chiacchiere profane e le obiezioni della cosiddetta scienza, professando le quali taluni hanno deviato dalla fede» (1 Tm 6, 20-21); «so a chi ho creduto e sono convinto che egli è capace di custodire il mio deposito (τὴν παραθήκην μου φυλάξαι) fino a quel giorno il mio deposito. […] Custodisci il buon deposito (τὴν καλὴν παραυήκην φύλαξον) per mezzo dello Spirito Santo che abita in noi (ἐν ἡμῖν)» (2 Tm 12. 14).
Notiamo: a) la custodia del deposito, che nella prospettiva dell’autore delle due lettere è una funzione ecclesiale essenziale, viene presentata come responsabilità condivisa dai credenti: da “Paolo” stesso e da “Timoteo” a cui si rivolge. Non è compito esclusivo di “Pietro” (che non viene nemmeno nominato), cioè del papa (che d’altronde a quella altezza cronologica, come istituzione con le prerogative e i poteri di oggi, era ancora di là da venire); b) la capacità di custodire intatto il deposito, cioè la verità della fede, non è nostra ma viene direttamente da Dio: da Cristo stesso in cui crediamo e dallo Spirito Santo che abita in noi.
Ciò che a me risulta molto problematico è che il nuovo prefetto del DDF consideri la Tradizione come qualcosa di statico. Il concetto di depositum fidei, per come lo presenta lui, lungi dall’essere pensato in modo relazionale è isolato e chiuso in sé stesso. Non evoca la Tradizione vivente che da Cristo, attraverso la mediazione normativamente compiuta dagli Apostoli, e poi l’incessante lavoro di conservazione, meditazione, preghiera e approfondimento compiuto da generazioni e generazioni di Padri nostri, ce lo ha fatto arrivare fino al presente – dando a ciascuno di noi la responsabilità ecclesiale di accoglierlo, prestargli obbedienza, farlo nostro immedesimandoci nella sua infinita ricchezza, e poi a nostra volta trasmetterlo, ulteriormente arricchito dalla nostra fede, alle generazioni future – ma è irrigidito in una forma chiusa, e perciò morta in se stessa, se qualcuno o qualcosa dall’esterno non la ravviva. Paradossalmente, ma non troppo, oserei dire che la sua concezione di Tradizione è tradizionalista. Si capisce molto bene infatti, da come ne parla, che il depositum fidei è per lui come un antico scrigno: un prezioso cimelio di famiglia, che «dobbiamo preservare indenne» (anche perché è di lì che la famiglia prende i suoi quarti di nobiltà), ma che di per sé non ha vita, non ha rilevanza con il presente; appartiene al passato.
Altrettanto problematico mi appare l’altro lato del suo ragionamento. Egli infatti prosegue: «But on the other hand, there is a particular charism for this safeguarding, a unique charism, which the Lord has given only to Peter and his successors». Già fa specie quell’avversativa (“ma, dall’altro lato”), che svela la separazione / contrapposizione insita nella sua concezione, a dispetto dell’affermazione iniziale: il prefetto ragiona come se la Tradizione della Chiesa (chiusa nel baule del depositum) e il magistero del papa fossero due entità separate, con la seconda che – applicandosi o sovrapponendosi alla prima – ha il potere esclusivo di farla funzionare correttamente. I due poli, tuttavia, in questo modo non stanno sullo stesso piano e dunque non ci può essere vera relazione tra di essi. Mons. Fernandez lo dice subito dopo, “papale papale”: «In this case», cioè nel caso del “carisma unico che il Signore ha dato solo a Pietro e ai suoi successori”, «we are not talking about a deposit, but about a living and active gift, which is at work in the person of the Holy Father». Esco per un momento dall’esegesi delle sue parole e mi permetto di farne una semplificazione brutale (che egli avrebbe probabilmente ragione a considerare violenta, ma io non avrei torto a difendere come un esempio volgare di come poi certe dottrine vengano tradotte nella pratica …): “la tradizione è morta, il papa (questo papa) è vivo”.
Ciò che colpisce, in questo modo di impostare la questione, non è di certo la rivendicazione – sulla quale tutti i buoni cattolici concordano – dell’autorità suprema del papa in materia di dottrina della fede e di governo della Chiesa, ma: a) il fatto che tale autorità istituzionale venga presentata come un carisma personale. C’è il rischio, così facendo, di lasciare intendere che esista un’assistenza speciale dello Spirito Santo garantita non al vescovo di Roma in quanto tale, cioè come istituzione-cardine della Chiesa universale, ma oggi a Jorge Mario Bergoglio, ieri a Joseph Ratzinger, l’altro ieri a Karol Wojtyla, e così via … risalendo fino a tempi remoti in cui gli storici della chiesa ci raccontano che al soglio pontificio ascesero anche soggetti poco raccomandabili. Da questa confusione credo nasca anche la singolare espressione che poco dopo esce dalla penna del prefetto: «giudicare la dottrina del Santo Padre». Ma esiste una “dottrina del Santo Padre” distinta e diversa dalla “dottrina della Chiesa”? Non si rischia qui di fare una grave confusione, coprendo col manto dell’indiscutibilità anche ciò che il papa ritiene come “dottore privato” (e che, come tale, dovrebbe sempre stare attento a non confondere col suo magistero ordinario)? b) Il modo assolutamente estraneo per non dire incompatibile con l’idea di collegialità apostolica, con cui il primato di Pietro viene qui rappresentato. Il papa qui non è il garante ultimo, l’istanza suprema di discernimento e di giudizio di un comune lavoro di “vitalizzazione del deposito della fede” a cui tutti i fedeli, e in particolare tutta la gerarchia ecclesiastica, in forza del dono dello Spirito che tutti hanno ricevuto, sono chiamati a partecipare, ma ne è l’unico protagonista. Nella scena evocata dalle parole del prefetto, infatti, c’è il baule del depositum, pieno di cose antiche; c’è papa Francesco col suo carisma papale-personale di ridare vita alle cose morte; e poi non c’è nient’altro. I vescovi (sgradevolmente evocati con un nome scelto non a caso) compaiono sullo sfondo solo come possibili figure di disturbo, da tacitare immediatamente.
Il terzo aspetto problematico che rilevo nella dichiarazione di mons. Fernandez è appunto il fatto che egli sembra far derivare dalle sue premesse una conseguenza che, ben oltre l’infallibilità, approda ad una sorta di indiscutibilità o ineccepibilità di tutto ciò che il papa dice e fa. Quando dice che il carisma, quello buono, «oggi lo possiede solo papa Francesco», e quindi tutti gli altri, cardinali, vescovi, preti o laici che siano, devono stare zitti e basta, non prefigura un ideale di chiesa monarchica, in cui il papa è sovrano assoluto?
Mi domando quale sia il fondamento di tale concezione. Nel Vangelo di Giovanni, leggo che quando il Risorto affida a Pietro il compito di pascere le sue pecore, accompagna il mandato con questo avvertimento: «In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi» (Gv 21, 18). Non vedo qui alcuna traccia dell’idea, oggi diffusa tra persone che sono molto papiste ma poco cattoliche, che “il papa è il papa e può fare quello che vuole”. Mi pare invece che la suprema autorità di Pietro vi sia incatentata alla suprema ubbidienza del martirio.
Prof. Leonardo Lugaresi
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