Il francescano cade in una serie d’imprecisioni teologiche a proposito della crocifissione di Gesù e della questione del male. Tenta di dimostrare che la sofferenza umana non è l’effetto di un castigo, contro ciò che affermano, al contrario, San Tommaso e San Bonaventura.
di Silvio Brachetta
Ci sono alcuni punti critici nell’omelia del francescano padre Raniero Cantalamessa, durante la celebrazione della Passione del Signore (10/04/2020). Padre Raniero cerca come può – e questo è un bene – di dimostrare l’innocenza di Dio dinnanzi al male del mondo. Ma lo fa attraverso le proprie opinioni personali, non tramite l’autorità dei santi dottori della Chiesa, né con gli strumenti della filosofia classica, tanto raccomandata da Giovanni Paolo II.
Padre Raniero cita un paio di teologi solo dopo avere spiegato perché, secondo lui, Dio non castiga l’uomo mediante flagelli e malattie. È un’opera altamente meritoria affermare che Dio non è responsabile del male e della morte, ma la spiegazione non può essere tratta da elucubrazioni personali attorno alla provvidenza.
Il predicatore è tenuto non solo ad attenersi alla dottrina cattolica ma, soprattutto quando voglia presentare delle novità, a citare per nome e cognome quel santo o quel dottore che possa sostenere quanto egli va dicendo. Se, per dimostrare qualcosa, Tommaso d’Aquino (che era San Tommaso) o Bonaventura da Bagnoregio (che era San Bonaventura) hanno infarcito le loro opere di citazioni altrui, non si vede perché non debba farlo anche Cantalamessa.
L’omelia comincia in modo ambiguo, tirando in ballo San Gregorio Magno, non per dimostrare la relazione tra Dio e il male, ma per un tentativo nascosto di giustificare l’evoluzione del dogma e della verità: «La Scrittura cresce con coloro che la leggono» («Scriptura cum legentibus crescit», “Moralia in Job”, XX, 1, 1). La massima, estrapolata dal contesto, è ripresa spesso da quelli che Romano Amerio avrebbe chiamato «novatori» o «neoterici». La si trova, ad esempio, ripetuta da Enzo Bianchi o dal gruppo di Bose.
Il fatto che il pensiero di San Gregorio Magno sia frainteso, è contenuto nella deduzione di Cantalamessa: la Scrittura – dice – «esprime significati sempre nuovi, a seconda delle domande che l’uomo porta in cuore nel leggerla». E qua c’è un primo gigantesco equivoco. Il significato della Scrittura – inaudito e già nuovo di per sé – non può mutare con il tempo e con le domande dell’uomo, a meno di non volere affermare che la verità cambia assieme alla storia. La Scrittura è già stata interpretata, nel suo significato autentico, dalla Chiesa: i teologi e i predicatori sono tenuti a conformarsi a questo significato, che scaturisce dalla Scrittura medesima, dal magistero e dal senso che ne hanno dato i santi. E, se anche ogni pericope biblica ha quattro sensi (letterale, allegorico, morale, anagogico), è da tenere nel massimo conto che essi sono già stati espressi dalla Chiesa docente e a questi è necessario attenersi per ogni ulteriore ricerca o considerazione personale.
Esprimere l’unico significato della Scrittura in una moltitudine di forme differenti, variabili con il variare della comprensione umana del testo, è del tutto lecito e lodevole, ma non equivale affatto ad affermare (come sembra invece ammettere il francescano) che la Scrittura possa avere ulteriori significati, applicati ad essa dall’esegeta di turno. Se questo avvenisse, al netto della buona intenzione, l’interpretazione della Scrittura rimarrebbe ostaggio del capriccio privato del teologo e della foga creativa.
Secondo equivoco: per comprendere la morte di Gesù Cristo, che padre Raniero indica efficacemente e correttamente come il «male oggettivamente più grande mai commesso sulla terra», è necessario guardarla non a partire dalle cause, ma dagli effetti. In particolare, Cantalamessa ritiene che «la Croce si comprende meglio dai suoi effetti, che non dalle sue cause». Si vuole, in modo subdolo, rimuovere la causa della crocifissione, che coinvolge il peccato e chi vi prese parte materialmente, per evitare ogni ostacolo al dialogo, come da consueta prassi modernista.
Anteporre gli effetti alle cause, però, è un metodo illogico, prima ancora di essere antiteologico. Ogni cosa, infatti, prima di essere causa di altri effetti è, primariamente, effetto di una causa. Se, dunque, non sono in grado di rispondere al “perché” di un fenomeno, tanto meno potrò dare una ragione delle conseguenze del fenomeno stesso.
E, da questo errore di ragione, segue a ruota il terzo grosso equivoco teologico, secondo cui gli effetti della Croce sarebbero esclusivamente buoni e positivi. Dice il francescano: «la Croce di Cristo ha cambiato il senso del dolore e della sofferenza umana, di ogni sofferenza, fisica e morale», per cui «essa non è più un castigo, una maledizione». No, la Croce non ha «cambiato» il senso della sofferenza umana, ma lo ha «compiuto». Lo stesso Cristo insegna che non è venuto a cambiare la Legge, ma a darle compimento (cf. Mt 5, 17). La misericordia non annulla la giustizia.
Aristotele aiuta di molto a capire l’intera questione. Non solo la causa precede l’effetto, ma – fatto ancora più importante – a monte di ogni effetto non c’è una, ma quattro cause distinte: causa materiale, causa formale, causa efficiente e causa finale. Così anche la Croce è l’effetto di quattro cause: due inferiori e incompiute, due superiori e compiute.
È semplice, dunque, per via della Rivelazione, individuare tutte e quattro le cause della passione e morte di nostro Signore, confermate dalla successiva resurrezione. Gesù patì e morì per i nostri peccati e per mano di chi materialmente lo crocifisse (causa materiale). Gesù patì e morì per il giusto castigo dei peccati, che volle prendere su di sé (causa formale). Gesù patì e morì perché Dio lo permise e perché l’empio lo realizzò (causa efficiente). Gesù patì e morì per via della misericordia e perché tutti gli uomini fossero salvi (causa finale).
Come si può facilmente dedurre, le cause relative alla giustizia e al castigo sono le inferiori e incompiute (ma non cambiate o sostituite, come vorrebbe Cantalamessa). Le cause superiori e compiute sono invece espressione della misericordia che, assieme alla giustizia, costituiscono l’unicum dell’amore.
Le cause superiori, quindi, includono e compiono le inferiori, ma non le annullano: per questo il cuore e la mente dell’uomo devono essere rivolte alla causa efficiente e a quella finale, più che alla materiale e formale. Affermare – così come afferma padre Raniero – che Dio non castiga è ambiguo, anche se non è sbagliato in assoluto. Non si tiene conto, inoltre, che la misericordia o il castigo permangono anche dopo la risurrezione, tanto di Cristo, quanto degli uomini, i quali risorgeranno per la fiamma gloriosa dell’amore (paradiso) o per la fiamma punitrice del rigore (inferno).
È, quanto esposto, dottrina della Chiesa? Vediamo cosa dicono nel merito i dottori della Chiesa scolastici.
La pena o castigo – scrive san Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiæ (IIa-IIæ, q. 108) – può essere considerata sotto l’aspetto della «punizione» o sotto quello della «medicina». La punizione è il salario del peccato volontario, mentre è medicina «non solo per guarire dai peccati già commessi, ma per preservare dai peccati futuri, e per spingere al bene». È da notare che anche all’innocente può essere associata una pena: difatti «uno può essere castigato anche senza colpa», scrive il Dottore. Non senza, però, «una causa» – aggiunge – e danneggiando solo i «beni materiali». Accade allora che il dolore e la morte fisica colpisca innocenti e peccatori, nei modi e nei tempi che solo Dio conosce.
San Tommaso, cioè, afferma che Dio castiga nella vita temporale e in quella eterna. Nella vita temporale castiga tutti, colpevoli e innocenti, per ottenerne il pentimento o la perseveranza nel bene, per punire o per medicare. Nella vita eterna, invece, Dio punisce solo i dannati, nei loro «beni spirituali» e premia i giusti e i penitenti, dando loro la salvezza.
Nel senso degli argomenti offerti dall’Angelico, va dunque inquadrato lo scandalo della sofferenza e della morte dell’innocente. Può accadere, persino, che la «vendetta» divina raggiunga «pure chi è nell’ignoranza» o si eserciti «anche contro le colpe involontarie». I bambini dei Sodomiti – spiega san Tommaso – «sebbene fossero nell’ignoranza invincibile, perirono insieme ai loro genitori, come si legge nella Scrittura». Questo avvenne non perché Dio sia un sadico, o perché si rallegri della sofferenza umana, ma in vista di un bene maggiore, usando la pena come medicina e permettendo unicamente la devastazione dei «beni materiali».
Nella sua misericordiosa Provvidenza, Dio dispone gli accadimenti affinché l’innocente sia santificato, nonostante mezzi che all’uomo possono apparire scandalosi. L’intervento di Dio, in ogni caso, non va visto sempre come diretto, ma spesso è indiretto, poiché Egli permette il male per mezzo dell’azione dei demoni e degli uomini malvagi.
Notevole è anche la riflessione di san Bonaventura da Bagnoregio, Dottore Serafico della Chiesa. Nel Commentarius in Evangelium S. Ioannis, afferma che se è vero – come è vero – che ad ogni peccato corrisponde una pena, non è sempre vero che ad ogni pena corrisponda un peccato (c. IX).
Qua il Dottore interpreta il celebre passo del cieco nato: «Maestro, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio […]» (Gv 9, 2-3). Eppure, san Bonaventura mette subito in chiaro che il Gesù del cieco nato è quello stesso Gesù che aveva detto al malato di Betesda: «Ecco: sei guarito! Non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio» (Gv 5, 14). Perché allora Gesù ha parole tanto diverse per il cieco nato e per il malato di Betesda? Come risponde il santo di Bagnoregio a questa apparente contraddizione?
Innanzi tutto egli commenta la frase dei discepoli: «Maestro, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?». Essi – scrive Bonaventura – supponendo che «la sapienza divina non infligge una pena senza colpa, chiedono in che consistesse tale colpa». E, in effetti, i discepoli «avevano capito bene, ma ora ponevano male la domanda», seppure pertinente: Dio commina davvero la pena ai peccatori.
San Bonaventura osserva che «la punizione del peccato può avvenire in due modi: uno temporale, l’altro eterno». Dio, cioè, castiga il peccatore in questa vita e nell’altra. E ancora, ogni male che Dio permette ha due cause: «c’è una causa sine qua non [senza la quale non c’è l’effetto], quando ogni pena ha nella colpa la sua causa, dimodoché, se non ci fosse colpa, non ci sarebbe pena alcuna».
Ma «c’è anche una causa meritoria, per cui non ogni pena è prodotta da una colpa; e di questo caso parla il Signore», nella vicenda del cieco nato. Anzi – chiarisce Bonaventura – ci sono vari motivi per cui Dio infligge le pene: «Talvolta le pene vengono inflitte per il peccato commesso» (malato di Betesda); «altre volte per provare la virtù e renderla manifesta» (Giobbe, Tobia); «altre volte ancora per conservare la virtù» (Satana che schiaffeggia san Paolo); «altre volte per decisione del divino consiglio» (passione e morte di Cristo); «altre ancora perché sia manifestata la divina potenza» (il cieco nato).
Lentamente, quindi, dietro il castigo, si scorge sempre più netta l’immagine di un Dio Padre misericordioso. Quanto alle pene che coinvolgono più persone, le cause possono essere molteplici: per Sodoma il peccato attuale, per la morte fisica di tutti il peccato originale. Quanto ai terremoti, o agli altri disastri naturali, resta il mistero, perché c’è di mezzo la sofferenza dell’innocente. A meno che, però, un santo non ne chiarisca la causa, per illuminazione divina, come ad esempio sant’Annibale Maria di Francia che, dopo il terremoto di Messina nel 1908, chiamò il popolo a conversione. In ogni caso, in assenza di una tale illuminazione, l’uomo dovrebbe forse astenersi dal motivare le cause dei cataclismi.
Il magistero è comunque concorde su quello che si può conoscere della Provvidenza. Paolo VI, ad esempio, in Indulgentiarum doctrina (1967) insegna che «è dottrina divinamente rivelata che i peccati comportino pene infinite dalla santità e giustizia di Dio, da scontarsi sia in questa terra, con i dolori, le miserie e le calamità di questa vita e soprattutto con la morte, sia nell’aldilà anche con il fuoco e i tormenti o con le pene purificatrici».
Ecco, dunque, come sia del tutto evidente che una questione tanto profonda come questa non possa essere liquidata con giudizi del tipo «Dio non castiga» o «Dio non punisce». Sono affermazioni grossolane, estranee al magistero e alla teologia dei santi.
Ma se proprio volessimo guardare agli effetti – secondo l’auspicio di Cantalamessa – è da ritenere come vera in assoluto la Parola di Gesù Cristo: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi» (Gv 9, 39). Una sola causa, quindi, per due effetti: uno di assoluzione e uno di condanna.
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