di Francesco Agnoli
La schiavitù, propria del mondo antico (né Aristotele, né Platone, e neppure Spartaco aveva concepito l’idea dell’uomo libero), entra in crisi in età cristiana, scomparendo quasi, ma non del tutto, dall’Europa per secoli. In età moderna ritorna: la schiavitù dei neri commerciati a Lisbona dai portoghesi, o di quelli traghettati dall’Africa verso le colonie europee dell’America e quella degli indiani d’America, sottomessi da spagnoli, portoghesi, olandesi, inglesi, francesi….
La tratta europea dei neri d’Africa si innesta sulla antica tratta inter-africana e sulla tratta islamica, sorta intorno al VII secolo. Essa non è un unicum: “non è certo un’invenzione diabolica dell’Europa” (Fernand Braudel). Infatti “molte delle società africane precoloniali, se non tutte, si reggevano su sistemi schiavisti”[1].
Gli Europei di regola non acquistano persone libere, per farne degli schiavi, ma degli schiavi – “in primo luogo vittime delle guerre tra gli Stati africani o le tribù” (soprattutto prigionieri di guerra, persone accusate di stregoneria, o altro) – che continueranno ad esserlo, sotto nuovo padrone[2]. Quanto “ai prigionieri deportati nelle tratte atlantiche, il 2% circa fu direttamente razziato dai negrieri occidentali, soprattutto all’inizio, fra il XV e il XVII secolo, quando il traffico non era ancora veramente organizzato: il 98% dei prigionieri era dunque acquistato da venditori africani”[3]. Sono dunque gli islamici che comperano gli schiavi dai mercanti africani (a loro volta spesso complici dei governi africani stessi), o li catturano direttamente per poi portarli sulle coste, per venderli agli europei. Ciò evidentemente nulla toglie alla malvagità dell’operazione dei mercanti di carne umana dell’Europa, che mentre con una mano asserviscono i neri, con l’altra fanno la stessa cosa, osteggiati però da altri spagnoli, i missionari in primis, con gli indiani (i quali, a loro volta, sono già “abituati” alla schiavitù, praticata su larga scala, precedentemente, dagli Aztechi e dalle altre tribù dominanti).
Siamo in un’epoca in cui gli Stati nazionali europei si sono rafforzati, e perseguono una politica di potenza. In cui i filosofi cominciano a tratteggiare l’idea del Principe (1513) di Niccolò Machiavelli, dello Stato con potere religioso, in cui il principe è capo della Chiesa, di Martin Lutero (1483-1546), del Leviatano di Thomas Hobbes (1588-1679), del Cesare divinizzato di William Tyndale (1494-1536). Per Tyndale, ad esempio, “colui che giudica il re giudica Dio; e colui che resiste al re resiste a Dio…il re è in questo mondo al di sopra della legge e può secondo la propria lussuria fare il bene o il male…” (Obbedienza di un cristiano, 1528).
Gli argomenti a favore della schiavitù non sono ancora quelli del cosiddetto razzismo scientifico, che nascerà tra Settecento ed Ottocento, nell’epoca dei cosiddetti Lumi.
L’opposizione alla schiavitù è dunque difficile, rispetto alla forza degli stati e agli interessi degli schiavisti. I protagonisti di essa sono alcuni papi e alcuni spagnoli (intellettuali, religiosi, politici). Per i papi si vedano la lettera di Pio II, Rubicensem, datata 7 ottobre 1492, in cui il papa ricorda al vescovo della guinea portoghese che la schiavitù dei neri è un magnum scelus, un grande crimine, e le bolle papali Sicut Dudum del 1435 di Eugenio IV (rivolta agli Spagnoli che avevano scoperto le Isole Canarie), la Sublimis Deus del 1543 di Paolo III, la Commissum nobis del 1639 di Urbano VIII… Bolle che verranno accolte piuttosto male da molti stati, esclusa, in certi momenti, la Spagna. Per esempio, la bolla di Urbano VIII, stimolata dai missionari gesuiti, vieta sotto pena di scomunica “di ridurre in schiavitù gl’Indiani occidentali o meridionali; venderli, comprarli, scambiarli o donarli: separarli dalle mogli e dai figli; spogliarli dei loro beni; trasportarli da un luogo ad un altro; privarli in qualsiasi modo della loro libertà; tenerli in schiavitù…”.
La reazione degli schiavisti sarà così forte che alcune chiese in sud America verranno bruciate e i re di Spagna e Portogallo, un secolo dopo, per gli stessi motivi, decreteranno l’espulsione dei Gesuiti dalle Americhe e il loro scioglimento in patria.
Il caso della Spagna
Quando Cristoforo Colombo torna da uno dei suoi primi viaggi in Spagna con degli indios schiavi, la regina non esita ad intimargli di ridare la libertà ai prigionieri. Il 16 settembre 1501 Isabella firma a Granada una Istruzione per il governatore delle Indie, Nicolas de Ovando, affinché protegga in ogni istante i diritti degli indigeni dai soprusi spagnoli. Invita poi a convertire quei popoli “senza esercitare su di loro alcuna costrizione”[4]. Il 30 ottobre 1503, in una lettera recentemente ritrovata, di cui purtroppo non si conosce il destinatario, scrive: “Sappiate che il re nostro signore e io… abbiamo ordinato che nessuna delle persone da noi mandate a dette terre osino prendere o catturare alcun indios per essere portato nei miei regni, né per essere portato in nessun altra parte e che non venga fatto nessun danno a persone o a beni, e chiediamo che tutti gli indios che sono stati catturati vengano rimessi in libertà”[5].
Nel 1519, come sappiamo, Cortès abbandona Cuba e sbarca in Messico. Gli spagnoli iniziano così la colonizzazione del continente. Cortes trova l’alleanza di molte tribù che decidono di sostenerlo contro gli Aztechi. Senza l’appoggio di queste popolazioni indigene, non avrebbe mai vinto.
Cortes è avido di ricchezze e di conquiste, ma nello stesso tempo è sinceramente disgustato dai sacrifici di massa praticati dagli Aztechi e piano piano finisce per sentirsi come un liberatore.
Per questo dispone il divieto ufficiale di sacrificare bambini, prima, e poi quello di sacrificare chiunque sotto minaccia di pena di morte, poi[6].
Nello stesso tempo Cortès non ha alcuna preclusione di tipo razziale verso gli indigeni: infatti sposa Marina, un’indigena, e come lui fanno molti altri dei suoi soldati.
Il matrimonio misto tra spagnoli e indiani, all’epoca della Conquista, diventa frequente, cosa che non avverrà mai nelle colonie inglesi, dove la separazione razziale rimarrà sempre quasi assoluta. Nell’epoca di Cortès il re di Spagna è l’imperatore Carlo V: pur non riuscendo mai a recarsi nelle Indie, Carlo riceve relazioni da quei paesi: “da una parte i dignitari, anche i più alti di rango, erano propensi a giustificare davanti al re le violenze dei funzionari e a descrivere le situazioni come sopportabili; dall’altro i membri degli ordini religiosi avanzavano amare proteste contro le autorità. Alexander von Randa parla di una vera ‘rivoluzione dei monaci’ ”, che inviano al sovrano continue denunce (quelle che verranno poi utilizzate dagli inglesi per creare la “Leggenda nera”[7]).
In verità, pur combattuto tra le diverse versioni, Carlo V si impegna per impedire soprusi e violenze, conferendo incarichi ed onori, politici ed ecclesiastici, a Bartolomeo de Las Casas, emanando le Leyes Nuevas, e invitando i suoi sudditi, spesso invano, a rispettare la libertà degli indiani[8].
Bartolomeo de Las Casas
Un figura importantissima per capire la difesa degli indios dai soprusi spagnoli, ad opera di altri spagnoli, è quella conosciutissima, ma anche molto strumentalizzata, del frate domenicano Bartolomeo de Las Casas (1474-1566), l’autore della Brevissima Relazione sulla distruzione delle Indie. Questa sua opera viene ripetutamente pubblicata, tradotta e tradita soprattutto dai nemici politici della Spagna: olandesi, inglesi e francesi. Costoro tentano così, sottolineando le malvagità spagnole descritte dallo spagnolo Bartolomeo, di occultare e far dimenticare le proprie, con una operazione propagandistica degna di una vera guerra psicologica.
L’opera sarà poi illustrata, soprattutto da disegnatori inglesi o olandesi, con disegni estremamente icastici, capaci di lasciare il segno sul lettore. Ma al di là della politica, l’opera di Bartolomeo è significativa del dibattito che si aprì in Spagna di fronte alla colonizzazione. Un uomo che passa la sua vita a difendere gli indios e a denunciare con estrema durezza le malvagità di molti suoi compatrioti, non viene escluso dal consorzio civile, dal potere politico, dalla Chiesa, ma al contrario, nonostante i molti nemici, diviene vescovo del Chiapas, viene ascoltato dall’imperatore Carlo V, che lo ospita a corte, e da suo figlio Filippo II, ed entra a far parte, nel 1543, del Consiglio delle Indie, contribuendo così all’emanazione di “tante disposizioni destinate alla protezione degli indigeni che fanno onore alla legislazione coloniale spagnola”[9].
Olanda e Inghilterra non avranno mai un Las Casas. Las Casas, inoltre, non è affatto un personaggio isolato. Anzitutto perché è appoggiato dai suoi confratelli. Nel 1511, per esempio, i domenicani di Hispaniola denunciano gli encomenderos spagnoli per le loro azioni, e padre Anton de Montesinos, si scaglia contro di loro: “Siete tutti in peccato mortale, in esso vivete e morirete, per la crudeltà e la tirannia che usate con queste genti innocenti. Ditemi con che diritto e con che giustizia tenete in sì crudele e orribile servitù questi indios? Non sono uomini questi? Non hanno anime razionali? Non siete obbligati ad amarli come voi stessi?”[10].
Anche Montesinos non rimane del tutto inascoltato e arriva a poter esprimere le proprie idee di fronte al consiglio della corona e ad ottenere qualche vittoria. Analogamente, nella sua Historia natural y moral de las Indias, il gesuita J. De Acosta, intorno agli ultimi anni del XVI secolo, difende la tesi che gli indigeni, nonostante la crudeltà di molte loro usanze, siano veri uomini e non bestie.
Tra questi ultimi il più celebre è il caso di Juan Ginès de Sepùlveda, celebre umanista: costui sostiene apertamente la bontà della servitù, e la giustifica alla luce del pensiero di Aristotele, secondo cui esisterebbero uomini che sono “schiavi per natura”. Per Sepùlveda gli indigeni, che fanno sacrifici umani, praticano talora il cannibalismo[11], offrono agli dei i bambini, non hanno diritto alla libertà, ma devono essere sottomessi. Questa tesi ha i suoi sostenitori, ma non a sufficienza: i professori universitari di Alcalà e Salamanca definiscono Sepulveda uomo non sani capitis, non sano di mente, e il suo trattato Democrates alter non riceve l’imprimatur da parte del Consiglio delle Indie.
Contro il Sepùlveda si schierano il Las Casas, il cardinal Caetano, generale dell’ordine domenicano, e moltissimi altri religiosi importanti, come il frate tomista Francisco de Vitoria. Costui, noto nel suo paese come il “Socrate spagnolo”, considerato oggi un padre del diritto internazionale, spinge “la Corona a prendere una serie di provvedimenti destinati a migliorare la condizione degli abitanti indigenti del Nuovo Mondo”, con l’effetto che in Perù, “i coloni spagnoli arrivarono persino a ribellarsi al re, che cercava di porre dei limiti al feroce sfruttamento che essi praticavano nei confronti degli indios”[12]. In base a quanto si è visto appare dunque adeguata la conclusione dello storico Rosario Romeo: “ …l’elemento religioso contribuì a questo ampliamento della coscienza europea con l’appello all’immediato sentimento cristiano della carità e della giustizia contro gli orrori perpetrati dai conquistadores nelle terre americane. Accenti di protesta è già dato cogliere in scritti italiani dei primi decenni del secolo contro lo sterminio di tanta gente innocente… ma anche nella stessa Spagna non mancarono, fin dall’inizio, scrupoli religiosi: e ne fanno fede, ad esempio, i dubbi della regina Isabella nella questione della vendita di indiani come schiavi…; l’impegno della grande maggioranza del clero in difesa degli indigeni, che diede luogo a vivaci conflitti nelle colonie; le perplessità, persino, di Hernàn Cortès, che nel suo testamento raccomandava ai propri eredi di liberare gli schiavi… Interventi non mancarono neanche, come è noto, da parte dell’autorità pontificia…”[13].
[1]John Thornton, A historical guide to world slavery, Oxford University press, New York, 1988, p. 27.
[2]A. Giardina, G. Sabbatucci, V. Vidotto, Prospettive di storia, Vol. II, p. 231-232, Laterza, Bari, 2004.
[3]O. Pétré Grenouilleau, La tratta degli schiavi, Il Mulino, Bologna, 2004 , p. 21-22. La tratta atlantica, a cui contribuirono gli europei, deportò circa 11 milioni di persone, mentre le tratte orientali, gestite in gran parte dall’Islam, determinarono la prigionia per circa 17 milioni di neri.
[4]Jean Dumont, La regina diffamata, Sei, Torino, 1992, p. 125.
[5]Citata in 30 Giorni, aprile 1991; si veda anche Angela Pellicciari, Una storia unica, Cantagalli, Siena, 2019, p. 81 e seg.
[6] Otto von Habsburg, Carlo V, Ecig, Genova, 1993, p. 253.
[7] Pierre Chaunu: “La leggenda antispanica, nella sua versione americana (in quella europea punta soprattutto sull’Inquisizione) ha giocato un ruolo salutare di valvola di sfogo. Il preteso massacro degli indios da parte degli spagnoli nel XVI secolo ha coperto il massacro americano sulla frontiera dell’Ovest nel XIX secolo. L’America protestante ha così potuto liberarsi del suo crimine rigettandolo sull’America cattolica” (cit in Vittorio Messori, Pensare la storia, p. 637-657)
[8] Otto Von Habsburg, op. cit., p. 245; il von Habsburg riporta a p. 255 anche questo discorso di Carlo V: “ Le anime degli indiani non devono essere salvate con la forza. Bisogna evitare i sacrifici umani e il cannibalismo; le immagini degli idoli e i templi devono essere distrutti. Il Dio nostro Signore ha creato gli indiani come uomini liberi, non schiavi…Tra la Spagna e gli indiani è permesso solo il libero scambio. E’ vietato, pena severe condanne, portare via agli indiani ciò che loro appartiene; niente deve cambiare di proprietario senza adeguato compenso. Dobbiamo andare loro incontro nello spirito dell’amore e dell’amicizia”.
[9] Marianne Mahn Lot, Bartolomeo de Las Casas e i diritti degli indiani, Jaka Book, Milano, 1985, p. 166. E’ scritto nella Storia del mondo moderno, della Cambridge University, Garzanti 1982, p. 759: “Bisogna rendere atto al rispetto spagnolo per la libertà e per la legge se ai tempi di Carlo V -un grande re e un grande autocrate-, circolavano liberamente, senza suscitare scandalo, trattati in cui si denunciavano gli eccessi dei conquistadores…, si criticava l’intera impresa delle Indie…”. E si definisce l’imperialismo spagnolo “equilibrato, coscienzioso e prudente”.
[10]F. Maria Feltri, I giorni e le idee, Sei, Torino, 2002, vol. I, p. 194.
[11]Accanto al cannibalismo rituale classico, ve ne sono altre forme: ad esempio i Caribi mescolavano le ceneri dei defunti a liquidi e le ingerivano, forse per impedire che qualche nemico potesse impadronirsi della forza sacrale che essi possedevano
[12]F.M. Feltri, op. cit. vol. I, p. 195. Si veda anche E. Fueter, Storia universale degli ultimi cent’anni, Einaudi, Torino, 1947, dove si spiega come la madrepatria Spagna fosse spesso malvoluta dai coloni spagnoli, perché nel conflitti tra creoli e indios “l’amministrazione spagnola si manteneva neutrale e forse si mostrava persino incline a tutelare i discendenti degli abitanti indigeni contro i discendenti dei conquistadores”, mentre nelle colonie inglesi “i resti delle tribù indiane non avevano alcuna importanza numerica e gli schiavi neri, del tutto privi di libertà, non avevano alcun peso politico”. Si veda inoltre John Heming, La fine degli Incas, Rizzoli, Milano, 1975, pp. 254-255, 276-278.
[13]R. Romeo, Le scoperte americane nella coscienza italiana del Cinquecento, Laterza, Bari, 1989, pp. 39-53. Si veda anche: P. Chaunu, L’America e le Americhe. Storia di un continente, Dedalo, Bari, 1984.
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