Card. Joseph Ratzinger (Gettyimages)
Card. Joseph Ratzinger (Gettyimages)

 

 

di Elena Mancini

 

Un afoso sabato pomeriggio di fine estate dentro la fiera vecchia di Rimini. Era il 1990 e l’allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede si apprestava a tenere una lectio magistralis dal titolo “Una compagnia sempre riformanda” che avrebbe concluso il Meeting per l’Amicizia fra i Popoli, organizzato da Comunione e Liberazione, che in quell’anno aveva come titolo “L’Ammiratore, Einstein, Thomas Becket”. Un’edizione memorabile: per citare in ordine sparso solo alcuni nomi possiamo ricordare che fra i relatori di quel Meeting ci furono Lech Walesa, Eugène Ionesco, Léo Moulin, mons. Tettamanzi e don Luigi Negri, il grande genetista Jerome Lejeune, la dissidente russa Irina Alekseevna Ilovaiskaya-Alberti e la vedova del premio nobel Andrej Sacharov, Vittorio Messori, l’immancabile Giulio Andreotti. Nomi profondamente legati a quel periodo storico molto diverso da quello di adesso e che sul piano nazionale vedeva ancora muoversi le forze della Prima Repubblica, mentre in sede internazionale segnava la fine della Guerra Fredda raccogliendo i frutti della caduta del muro di Berlino, senza ancora immaginarsi la prossima dissoluzione dell’Unione Sovietica. Chi avrebbe pensato che in quella particolare cornice Joseph Ratzinger avrebbe tenuto una conferenza che a leggerla oggi sembra scritta per noi, ora, e per la nostra tormentata Chiesa?

Quella lezione fu per tutti noi presenti un evento entusiasmante. Il modo ironico con cui il Prefetto sviluppò il suo discorso, la freschezza delle immagini e la profondità di argomentazioni conquistarono il pubblico di allora, ma la forza profetica di quella lectio si può apprezzare ancora più oggi, a più di trent’anni dalla sua presentazione: da quel giorno io l’ho riletta più volte (si può trovare integralmente ad esempio in un’edizione di Itaca[1]) e non poteva quindi non venirmi in mente negli scorsi mesi in cui di “riforma” si è parlato quasi quotidianamente. Il titolo “Una compagnia sempre riformanda” si riferisce naturalmente alla Chiesa e chiarisce immediatamente che una riforma permanente sia necessaria. Ma che cosa vuol dire riforma? Ratzinger inizia a descrivere tale concetto assumendo il punto di vista degli elementi più secolarizzati e progressisti della Chiesa per arrivare alla vera riforma a cui il Signore chiama sia la Chiesa che ciascuno dei suoi membri privatamente.

Il tema risultò anche all’epoca di grande attualità. Papa Wojtyła infatti aveva dovuto affrontare vènti riformistici di non poca gravità, come quelli derivanti dalla Teologia della liberazione da un lato e da una secolarizzazione sempre più grave nei paesi dell’Europa centro-settentrionale dall’altro. L’esempio forse più rilevante è rappresentato dalla vicenda dell’eucaristia distribuita direttamente sulla mano dei fedeli. Ricordiamo che Papa Paolo VI nell’istruzione Memoriale Domini (1969) ne aveva vietato la pratica, a meno che le Conferenze episcopali nazionali non votassero con una maggioranza dei due terzi una richiesta di indulto in tal proposito. E ciò avvenne, così che a partire dall’Olanda la pratica venne ratificata passo dopo passo in tutta Europa e fu un esempio chiarissimo di come nella Chiesa certe riforme possano avere un carattere quasi “democratico” e venire dal basso: la pratica della comunione sulla mano era infatti diffusa soprattutto in alcuni paesi europei già da prima della dichiarazione di Paolo VI, nonostante non fosse contemplata, quindi come atto coscientemente ribelle nei confronti di “Roma”, e fu prima riconosciuta come dato di fatto e poi resa lecita ufficialmente anche dagli organi vaticani. In Italia questa ratifica venne concessa nel 1989, ovvero un anno prima della conferenza tenuta al Meeting. Nella lectio è quindi evidente l’eco di questi movimenti dal basso ai quali Ratzinger offre una chiara risposta che resta valida a maggior ragione ancora oggi. L’insegnamento di questa lezione offre uno sguardo e un giudizio decisivi sulle questioni attuali in merito alle richieste dei porporati tedeschi e austriaci, al cammino sinodale tedesco e alle varie rivendicazioni delle diverse conferenze episcopali nazionali. L’invito a tutti è quindi quello di leggere integralmente questa preziosissima lezione del card. Ratzinger  nei testi di riferimento già dati o di ascoltarne la registrazione, resa pubblica sul canale YouTube del Meeting di Rimini, a cui rimando. Qui di seguito mi limito a riportare solo alcuni stralci fra quelli più significativi (le sottolineature sono mie).

 

Ratzinger inizia dando voce al popolo dei fedeli che mal sopportano dottrina e prassi così come proposte dal magistero, facendosene quasi portavoce.

«[…] L’ira contro la Chiesa o la delusione nei suoi confronti hanno (perciò) un carattere particolare, poiché silenziosamente ci si attende da essa di più che da altre istituzioni mondane. In essa si dovrebbe realizzare il sogno di un mondo migliore. Quanto meno, si vorrebbe assaporare in essa il gusto della libertà, dell’essere liberati: quell’uscir fuori dalla caverna, di cui parla Gregorio Magno ricollegandosi a Platone.

Tuttavia, dal momento che la Chiesa nel suo aspetto concreto si è talmente allontanata da simili sogni, assumendo anch’essa il sapore di una istituzione e di tutto ciò che è umano, contro di essa sale una collera particolarmente amara. E questa collera non può venir meno, proprio poiché non si può estinguere quel sogno che ci aveva rivolti con speranza verso di essa. Siccome la Chiesa non è così come appare nei sogni, si cerca disperatamente di renderla come la si desidererebbe: un luogo in cui si possano esprimere tutte le libertà, uno spazio dove siano abbattuti i nostri limiti, dove si sperimenti quell’utopia che ci dovrà pur essere da qualche parte. Come nel campo dell’azione politica si vorrebbe finalmente costruire il mondo migliore, così si pensa, si dovrebbe finalmente (magari come prima tappa sulla via verso di esso) metter su anche la Chiesa migliore: una Chiesa di piena umanità, piena di senso fraterno, di generosa creatività, una dimora di riconciliazione di tutto e per tutti.

Riforma inutile

Ma in che modo dovrebbe accadere questo? Come può riuscire una simile riforma? Orbene; dobbiamo pur cominciare, si dice. Lo si dice spesso con l’ingenua presunzione dell’illuminato, il quale è convinto che le generazioni fino ad ora non abbiano ben compreso la questione, oppure che siano state troppo timorose e poco illuminate; noi però abbiamo ora finalmente nello stesso tempo sia il coraggio che l’intelligenza. Per quanta resistenza possano opporre i reazionari e i “fondamentalisti” a questa nobile impresa, essa deve venir posta in opera. […]

Tutti devono invece diventare attivi operatori della vita cristiana. La Chiesa non deve più venir calata giù dall’alto. No! Siamo noi che “facciamo” la Chiesa, e la facciamo sempre nuova. Così essa diverrà finalmente la “nostra” Chiesa, e noi i suoi attivi soggetti responsabili. L’aspetto passivo cede a quello attivo. La Chiesa sorge attraverso discussioni, accordi e decisioni. […]

Vengono coniate nuove “formule di fede” abbreviate. In Germania, a un livello abbastanza elevato, è stato detto che anche la Liturgia non deve più corrispondere ad uno schema previo, già dato, ma deve sorgere invece sul posto, in una data situazione ad opera della comunità per cui viene celebrata. Anche essa non deve più essere niente di già precostituito, ma invece qualcosa di fatto da sé, qualcosa che sia espressione di se stessi. Su questa via si rivela essere un po’ di ostacolo, per lo più, la parola della Scrittura, alla quale però non si può rinunciare del tutto. [L’ironia di questi primi argomenti fino al pungente sarcasmo di quest’ultima frase e delle prossime sono ancor più apprezzabili nella registrazione-video della conferenza, che alleghiamo a fondo articolo, NdR.]. Si deve allora affrontarla con molta libertà di scelta. Non sono molti però i testi che si lasciano impiegare in modo tale da adattarsi senza disturbi a quell’auto-realizzazione, alla quale la liturgia ora sembra essere destinata.  […]

Una Chiesa che riposi sulle decisioni di una maggioranza diventa una Chiesa puramente umana. Essa è ridotta al livello di ciò che è plausibile, di quanto è frutto della propria azione e delle proprie intuizioni ed opinioni. L’opinione sostituisce la fede. […]

L’essenza della vera riforma

L’attivista, colui che vuole costruire tutto da sé, è il contrario di colui che ammira (l’”ammiratore”) [qui Ratzinger si richiama al titolo del Meeting, NdR.]. Egli restringe l’ambito della propria ragione e perde così di vista il Mistero. Quanto più nella Chiesa si estende l’ambito delle cose decise da sé e fatte da sé, tanto più angusta essa diventa per noi tutti. In essa la dimensione grande, liberante, non è costituita da ciò che noi stessi facciamo, ma da quello che a noi tutti è donato. Quello che non proviene dal nostro volere e inventare, bensì è un precederci, un venire a noi di ciò che è inimmaginabile, di ciò che “è più grande del nostro cuore”. La reformatio, quella che è necessaria in ogni tempo, non consiste nel fatto che noi possiamo rimodellarci sempre di nuovo la “nostra” Chiesa come più ci piace, che noi possiamo inventarla, bensì nel fatto che noi spazziamo via sempre nuovamente le nostre proprie costruzioni di sostegno, in favore della luce purissima che viene dall’alto e che è nello stesso tempo l’irruzione della pura libertà.»

Qui Joseph Ratzinger prende in prestito la bellissima immagine dello scultore e ne fa un tema centrale della lectio:

«[…] Con lo sguardo dell’artista, Michelangelo vedeva già nella pietra che gli stava davanti l’immagine-guida che nascostamente attendeva di venir liberata e messa in luce. Il compito dell’artista – secondo lui – era solo quello di toglier via ciò che ancora ricopriva l’immagine. Michelangelo concepiva l’autentica azione artistica come un riportare alla luce, un rimettere in libertà, non come un fare.

La stessa idea applicata però all’ambito antropologico, si trovava già in san Bonaventura, il quale spiega il cammino attraverso cui l’uomo diviene autenticamente se stesso, prendendo lo spunto dal paragone con l’intagliatore di immagini, cioè con lo scultore. Lo scultore non fa qualcosa, dice il grande teologo francescano. La sua opera è invece una ablatioessa consiste nell’eliminare, nel togliere via ciò che è inautentico. In questa maniera, attraverso la ablatio, emerge la nobilis formacioè la figura preziosa. Così anche l’uomo, affinché risplenda in lui l’immagine di Dio, deve soprattutto e prima di tutto accogliere quella purificazione, attraverso la quale lo scultore, cioè Dio, lo libera da tutte quelle scorie che oscurano l’aspetto autentico del suo essere, facendolo apparire solo come un blocco di pietra grossolano, mentre invece inabita in lui la forma divina.

 

Se la intendiamo giustamente, possiamo trovare in questa immagine anche il modello guida per la riforma ecclesiale. […]

 

Per questo esse devono sempre di nuovo venir portate via, come impalcature divenute superflue. Riforma è sempre nuovamente una ablatio: un toglier via, affinché divenga visibile la nobilis formail volto della Sposa e insieme con esso anche il volto dello Sposo stesso, il Signore vivente. Una simile ablatio, una simile “teologia negativa”, è una via verso un traguardo del tutto positivo. Solo così il Divino penetra, e solo così sorge una congregatioun’assemblea, un raduno, una purificazione, quella comunità pura a cui aneliamo: una comunità in cui un “io” non sta più contro un altro “io”, un “sé” contro un altro “sé”. Piuttosto quel donarsi, quell’affidarsi con fiducia, che fa parte dell’amore, diventa il reciproco ricevere tutto il bene e tutto ciò che è puro.

[…] L’attivista, colui che vuol sempre fare, pone la sua propria attività al di sopra di tutto. Ciò limita il suo orizzonte all’ambito del fattibile, di ciò che può diventare oggetto del suo fare. Propriamente parlando egli vede soltanto degli oggetti. Non è affatto in grado di percepire ciò che è più grande di lui, poiché ciò porrebbe un limite alla sua attività. Egli restringe il mondo a ciò che è empirico. L’uomo viene amputato. L’attivista si costruisce da solo una prigione, contro la quale poi egli stesso protesta ad alta voce.

Invece l’autentico stupore è un “No” alla limitazione dentro ciò che è empirico, dentro ciò che è solamente l’aldiqua. Esso prepara l’uomo all’atto della fede, che gli spalanca d’innanzi l’orizzonte dell’Eterno, dell’Infinito. E solamente ciò che non ha limiti è sufficientemente ampio per la nostra natura, solamente l’illimitato è adeguato alla vocazione del nostro essere. Dove questo orizzonte scompare, ogni residuo di libertà diventa troppo piccolo e tutte le liberazioni, che di conseguenza possono venir proposte, sono un insipido surrogato, che non basta mai. La prima, fondamentale ablatio, che è necessaria per la Chiesa, è sempre nuovamente l’atto della fede stessa. 

[…] La fondamentale liberazione che la Chiesa può darci è lo stare nell’orizzonte dell’Eterno, è l’uscir fuori dai limiti del nostro sapere e del nostro potere. La fede stessa, in tutta la sua grandezza e ampiezza, è perciò sempre nuovamente la riforma essenziale di cui noi abbiamo bisogno; a partire da essa noi dobbiamo sempre di nuovo mettere alla prova quelle istituzioni che nella Chiesa noi stessi abbiamo fatto. Ciò significa che la Chiesa deve essere il ponte della fede, e che essa – specialmente nella sua vita associazionistica intramondana – non può divenire fine a se stessa.

[…] Non è di una Chiesa più umana che abbiamo bisogno, bensì di una Chiesa più divina; solo allora essa sarà anche veramente umana. E per questo tutto ciò che è fatto dall’uomo, all’interno della Chiesa, deve riconoscersi nel suo puro carattere di servizio e ritrarsi davanti a ciò che più conta e che è l’essenziale.»

 

[1] In: La bellezza, la ChiesaBenedetto XVI (Joseph Ratzinger). Ed. Itaca, 2005

 

 

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