di Mattia Spanò
Una premessa doverosa nei confronti dell’eventuale lettore: nei confronti della poesia ho la stessa sensibilità di un muretto a secco o un Big Mac. Non la capisco. Non la capisco perché non la so fare: ποιέω significa ‘fare’.
Aggiungerei, forse in un blando ossequio a reminiscenze di cultura greca, forse per suggestione personale, una connotazione immaginifica priva di fondamenta: ποιέω significa fare dall’interno. Gli uomini – basta guardare gli oggetti che ci circondano – costruiscono involucri: tanti begli oggetti molto raffinati, ricercati e vuoti. Qualsiasi oggetto o nasconde il vuoto, o lo occupa soffocandolo come una vergogna, uno spazio dove non è possibile essere e vivere.
Non vi sono più gli uomini
ad ostacolare il cammino limpido e vuoto
di un giorno.
E non sai se in questo ci sia attesa o conclusione.
Non che il poeta abbia capacità creativa. Il poeta non produce, non imbusta dieci grammi di chips in novanta grammi d’aria. Non li vende, non ti racconta quanto sei felice se ti lecchi le dita o sentendole crocchiare sotto i denti. Il poeta fa, cioè fissa lo sguardo sull’abisso di Dio, l’unico capace di procedere dal nonnulla dell’infinitamente piccolo all’infinitamente grande, estremi preclusi agli uomini, non ai poeti. Che stanno lì, come semafori nella nebbia quando non vedi nemmeno la strada.
Ma cos’è
una traccia, questo
spogliarsi delle cose?
Quando uno torna a casa esausto alle due e venti del mattino, l’ora in cui è nato più di quarant’anni fa, e trova un pacchetto appoggiato alla porta – un pacchetto sottile come una lama, il postino si è sbagliato un’altra volta – non in un giorno qualunque ma poco prima dell’alba del compleanno del figlio, lo apre e trova le poesie di un amico, e questo libro si intitola La parola nuova, allora comprende il significato della parola dono: qualcosa di inatteso, indesiderato, che nemmeno è per te ma per quei pochi che provi ad amare più di te stesso (fallendo miseramente).
Ho paura a segnare
la data di questo giorno.
No, non siamo felici.
Della poesia non frega più niente a nessuno. Il poeta è recluso dentro la mentalità dello spacciatore di cocaina, con la differenza che la tua dose la paga di tasca sua. È costretto in una dimensione relazionale clandestina di tipo criminoso. A qualunque ora della notte ti porta la sua pallina di parole, anche se non lo chiami. Attraversa il buio pronto a gettarla in un fosso appena vede le luci blu degli sbirri. Sono dei pusher falliti, i poeti. Un racket occulto come quello dei colombiani o delle ‘ndrine calabresi, che non accumula fondi neri colossali e non deve riciclare denaro. Non servono a niente. Sono come le zanzare: vorresti sterminarle e basta.
Il mio stare ancora qui
[…] sapendo che tra poco
dovrò chiudere io,
per ultimo, questa casa.
“Prova questo”, ti suggerisce subdolo porgendoti il libro (horror maximus: carta, cellulosa, alberi uccisi). Tu mica hai chiesto niente. Ti fai gli affari tuoi. Anche lui si fa gli affari tuoi e qui sta, come d’estate sull’albero la foglia, la quintessenza della tragedia. Dovresti denunciarlo per molestie spirituali, invece accetti e ringrazi: quando qualcuno ti regala qualcosa, mammà ti ha insegnato che si dice grazie. A questo punto se sei intelligente e fortunato, butti il libro su uno scaffale e non ci pensi mai più. Se invece sei stupido e sfigato, lo leggi. Se il poeta è davvero tale e non solo l’assassino di alberi che comunque rimane, lo maledirai sino al tuo ultimo respiro e oltre.
Quando il parassita incistato
nelle parole giace
in un umido sfacelo
Siamo onesti: a noi interessa la Scienza, campare in eterno circondati da oggetti vuoti fissando lubrichi seni gonfi di derivati petroliferi su Instagram. Immaginate quante tettone in più avremmo se invece di andare in macchina emettendo CO2 e altre schifezze gonfiassimo il petto alle signore. Che meraviglioso ininterrotto sollazzo digitale. Guardare senza toccare: l’apice libidinoso riservato al nostro futuro di servi impagati della Macchina. Se palpeggi scopri l’inganno: l’assenza, la rimozione del vuoto al quale anticamente si dava un nome, anzi l’unico Nome che conta ed è vietato pronunciare invano, mentre ora non più. Ora siamo resilienti, gender fluid, suderemo d’estate per risparmiare sangue ucraino.
Siede, come chi non vuole più
lasciare un figlio
dopo di sé.
Nel libro di Stefano Vespo uno rinviene tutto ciò che non cerca. Tutto, fino all’ultima particella. È un libretto elementale, fatto di vento, luce, terra, foglie, ombra, bicchieri, panni stesi al sole, mare, sentenze sferzanti. Poche chiacchiere, tanto sangue e sudore dell’agonia. La vita rappresa attorno alla morte, il limite, i limoni, le foglie secche, i muri. Sotto tutte queste cose, tra le pieghe di versi incisi a bulino nella carne viva, si vela rivelandosi il volto di Dio, la storia recente e quella di sempre, e un giudizio enorme su quanto sta accadendo dentro di noi, in quel territorio mortalmente pericoloso nel quale nessuno vuole addentrarsi davvero.
Ormai deserto
di chi stava a guardia
di un segnale,
di una parola nuova
che potesse ancora giungere.
Ora che frappongo le mie sciatte considerazioni ad alcuni estratti dei componimenti di Stefano, mi accorgo di quanta violenza sopravviva nell’atto di citare parti di un’opera, e quale laida ingiustizia si commetta. Non me ne scuso con l’autore, perché lui stesso è un uomo violento – Il cielo è dei violenti è un romanzo di Flannery O’Connor – spietato e brutale. Non si tratta semplicemente di scrivere cose amare e sgradevoli eppure così luminose, il che non fa altro che incrudelire la pena. Ci sbatte il cuore delle persone contro, come certi torturatori e boia del passato: senza odio, per mestiere. E quando pensi di essertela cavata, ecco che spunta un altro verso caduto di tasca come le chiavi di casa, con naturalezza, mentre sei tutto teso a cose importanti come la libertà di vedere Iron Man 18 al cinema grazie al super green pass (un po’ già ci manca). Resti chiuso fuori nel mondo freddo, e dentro fanno baldoria senza di te.
[…] la fiamma della legge
vacilla: un uomo
può essere meno
di un ciottolo,
o di una pianta
qualsiasi.
I poeti cattivi come Stefano sono il contrario dei cattivi poeti. Nessuno è buono in fondo, nemmeno Dio, come annotava Clive Staples Lewis: come un dentista, non fa ciò che è buono, ma ciò che è giusto. I poeti cattivi vanno puniti severamente comprando i loro libri. Bisogna ripagarli con il denaro, la massima astrazione, il non essere anaerobico a cui siamo votati, estrudendoli dal blocco di materia dove si nascondono. Se non lo facciamo, se non compriamo i loro libri, la questione in ballo non è non capire nulla di poesia – ci sta, non è un reato. La questione è non capire nulla di tutto il resto.
Sul volto
di fronte al quale
si coprono gli occhi
è la Gloria.
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