La “medicina dell’abbondanza” anche per i bambini “microscopici”. La medicina occidentale crede di salvarsi moltiplicando i protocolli, ma al massimo ottiene la mediocrità. Una medicina dell’abbondanza potrebbe salvarla.
Un articolo di Carlo Bellieni pubblicato su Sì alla vita.

La Saturazione sensoriale è un approccio positivo al dolore del bambino microscopico, quello di pochi etti, che pesa da una lattina di Cocacola (se nasce prematuramente) fino al primo mese di vita. Si tratta di un metodo che nasce da un’intuizione che ebbi anni fa, quando il dolore del bambino piccolo era ancora molto trascurato e al massimo si davano poche gocce di zucchero in bocca per fargli sentire meno male… con scarso successo. Già, perché lo zucchero faceva diminuire un po’ la reazione al dolore, ma certo non la faceva sparire. Mi capitava invece di vedere che in braccio alla loro mamma, o con le coccole dell’infermiera, la reazione al dolore era molto bassa; provai ad aggiungere le due metodiche insieme, zucchero e massaggio, voce e odore della mamma, e il dolore scompariva. Allora presi a registrare decine e decine di prelievi di sangue misurando le reazioni di ogni singolo bambino con strumenti sempre più raffinati, finché cominciai pubblicare su riviste americane i risultati delle analisi: il pianto e il dolore sparivano. In uno studio intitolato “Alone no more” (“Mai più da soli”) spiegavo che sì è importante usare delle tecniche corrette, ma le tecnologia è inefficace se non è associata alla passione per il piccolo individuo che sta di fronte; se non si guarda e se non ci si avvicina con affetto al bambino anche le tecniche diventano solo dei freddi protocolli e i protocolli sono talora controproducenti, perché non ci troverete mai scritto la parola “affetto”; e quanto è diverso per un bambino sentirsi trattare con affetto o no; anche le medicine contro il dolore diventano molto meno efficaci se i tratti dell’ambiente ospedaliero del piccolo e della sua mamma sono scortesi, sgarbati, frettolosi, rumorosi, affollati, senza tempo di dare spiegazioni o una carezza.
Questo che sembra “poesia” e utopia, in realtà è quello che fa passare il dolore, e lo abbiamo mostrato noi e altri colleghi all’estero in un alto numero di pubblicazioni scientifiche. Cosa ne traiamo? Che nella nuova medicina non si può prescindere da una “medicina dell’abbondanza” dove non solo ci sia tempo ma soprattutto motivazione del personale per “trattare bene”, e “trattare bene” se fatto con raziocinio fa stare meglio clinicamente. La medicina dell’abbondanza si basa su due criteri: motivare il personale e migliorare l’ambiente di degenza. Mancano i soldi? Forse no, se i soldi li risparmiassimo sull’eccesso di medicine e ricoveri prescritti per medicina difensivistica, per routine, per protocolli seguiti ottusamente. La medicina occidentale crede di salvarsi moltiplicando i protocolli, ma al massimo ottiene la mediocrità. Una medicina dell’abbondanza potrebbe salvarla. Il problema della “medicina dell’abbondanza” è serio: non è un’utopia, ma è quello che farebbero medici e infermieri se non fossero presi nell’ingranaggio dei protocolli, del risparmio che significa tagliare indiscriminatamente su tutto e per tutti (così ci rimettono solo i più deboli); ogni sanitario ha in sé una vocazione di rispetto della vita e della dignità della persona, e sa benissimo spendersi più di quanto sia scritto nel suo contratto. Ma oggi quante pressioni ci sono per ridurre la medicina a un contratto, e quando si è firmato, nessuno si azzarda più a fare non solo un passo in meno di quanto sancito, ma neppure un passo in più, anche se vede che il paziente del letto accanto sta male, ma siccome “non è mio” allora “non è compito mio”. Triste ma vero; non generalizzabile ma sicuramente indirizzo e trend innegabile. Per tornare allo studio in questione, devo dire che è con soddisfazione che vedo che la saturazione sensoriale che ho creato anni fa ora viene usata in campo internazionale; questo lavoro pubblicato ora in un’importante rivista internazionale nasce dalla richiesta che mi hanno fatto dei medici asiatici di scrivere insieme a partire dai dati da loro raccolti. Il lavoro è stato fatto correttamente e ne sono orgoglioso. Devo dire che non tutti i lavori in questo campo sono davvero fatti bene; anni fa ho pubblicato assieme ad una collega canadese un paio di studi che mostrano come le ricerche in questo campo non sempre tengano conto del rispetto del diritto dei piccolissimi a non sentire il dolore nemmeno durante gli studi clinici, e questo è un grosso problema ce ho sollevato a livello internazionale su riviste americane. Già: l’etica non riguarda solo gli estremi della vita e il dilemma vita e morte, ma anche la pratica quotidiana con cui ci approcciamo al paziente, i suoi diritti e il suo benessere.
Per questo è importante la medicina dell’abbondanza: impariamo a dare di più, a dare molto!
Certo che non è facile nel mondo dei protocolli e dei contratti, dove manca soprattutto l’incentivo a fare e fare bene. Come scriveva Antoine de Saint-Exupery, “Se vuoi costruire una nave non devi per prima cosa affaticarti a chiamare la gente a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi; non distribuire i compiti, non organizzare il lavoro. Ma invece prima risveglia negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato. Appena si sarà risvegliata in loro questa sete si metteranno subito al lavoro per costruire la nave”. Ecco, la buona etica della sanità inizia da qui: dal far sentire gli operatori non come manovali di decisioni altrui o di protocolli asettici, ma protagonisti, non ridotti a macchine ma ad esseri pensanti. Pensate che gli ospedali siano davvero luoghi di condivisione e sforzo ed eroismo come è apparso nei giorni della pandemia? Purtroppo non lo sono; il che non significa inettitudine, ma vera “malasanità”, che non è quella degli errori (chi non sbaglia mai?), ma della mancanza di motivazione.
Aver creato un sistema in grado di far sparire il dolore nei piccolissimi che ancora avrebbero dovuto stare nel pancione materno per qualche settimana e che sono nati loro malgrado, è un orgoglio perché implica per funzionare non una ripetitività di azioni, ma empatia e interesse per il paziente. Può essere un inizio per guardare tutti in modo diverso e più umano.
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