di Mattia Spanò
Un tweet di Chicco Testa mi ha fatto riflettere. Testa è un manager, un imprenditore, un opinionista e intellettuale colto e intelligente. Scrive: “Ti pareva che il Fatto non sposava un’altra causa sbagliata”. Credo si riferisca ad alcuni editoriali del Fatto Quotidiano critici con Israele, ma questo è secondario.
L’intuizione è questa: la nostra cultura ha sostituito il problema del vero con le cause, nel senso di battaglie culturali, politiche e sociali. Ce ne sono di tutti i tipi e per tutti i gusti: cause ambientaliste, animaliste, cause legate ai “nuovi diritti”, razziali, geopolitiche e territoriali, cause nobili e cause redditizie. L’elenco è sterminato.
Il termine causa è diventato sinonimo di lotta per produrre un cambiamento radicale di qualche tipo nella società. Secondo la definizione che ne dà Oxford Languages, causa è invece “un fatto che sia constatato o ritenuto come assolutamente determinante rispetto al verificarsi di un altro fatto o situazione (effetto)”. Come dire che abbiamo messo il carro davanti ai buoi, quel che è peggio continuando a credere che stia dietro.
Coloro che si battono per la nobile causa contro gli idrocarburi, ad esempio, tendono a rimuovere tutti i benefici derivanti dagli idrocarburi – uno su tutti, il petrolio è fonte di energia economica e di molte altre materie seconde indispensabili – eliminando così tutti gli effetti, quelli buoni e quelli cattivi.
La nostra cultura ha espiantato una morale stracciona dai fini trapiantandola nei mezzi. Uccidere qualcuno a colpi di pistola è male perché le armi sono male. Ucciderlo tramite l’aborto o l’eutanasia, o causarne la morte farmacologica tramite vaccini o il Fentanyl, è invece encomiabile. Si trascura il fatto – uccidere – giocandosi tutto sul mezzo e sul modo.
Si intende forse asportare dall’uomo il problema morale, che è essenzialmente un problema di dominio di sé, di libertà di “vedere il bene e fare il male”, se necessario, valutando gli effetti – se non giudichiamo gli effetti, gli effetti giudicheranno noi: non si sfugge al giudizio. A questo servono le cause: a debellare gli effetti, che sono giocoforza rivelatori della bontà o della cattiveria di una scelta. Questo mi pare il senso autentico della cosa.
Negli ultimi tempi siamo stati sepolti sotto una slavina di certezze: c’è un orribile virus omicida, l’unica salvezza è il vaccino. L’Ucraina è un baluardo di democrazia e valori, Putin è Hitler redivivo. Il cambiamento climatico è colpa dell’uomo, se vogliamo salvare il pianeta dobbiamo tornare al Paleolitico – forse nemmeno: bruciavano legna per scaldarsi e cuocere il cibo, orrore orrore. Israele è l’unica democrazia in Medioriente e ha diritto a difendersi. E così via fino alla prossima giusta causa, il prossimo atto di fede, la prossima emergenza che ci deve vedere tutti uniti per combatterla.
Altro fatto divertente è che questo approccio conduce ad un fallimento dietro l’altro. Fallimenti che quando emergono in tutta la loro potenza vengono nascosti sotto un tappeto di tragico silenzio.
Nessuno si chiede chi, cosa, dove, come e perché abbiamo sbagliato. Semplicemente si cerca un’altra giusta causa per la quale battersi al coltello, facendo carne di porco di tutto ciò che ostacola e contraddice il fine della causa.
Le tesi, giuste o sbagliate, hanno preso il posto delle ipotesi. Come al casinò, ci si alza dal tavolo del Black Jack e ci si accomoda alla roulette. Il vero giocatore, insegna Dostoevskij, è quello che perde senza chiedersi mai quante fiches gli sono rimaste.
Mammà qualche tempo fa si espresse così a proposito delle cose che vanno bene o male: “La gente, quando le cose vanno male, si chiede sempre perché vanno male. Ma quando le cose vanno bene, non si chiede mai perché sono andate bene”. La buona sorte è un atto di giustizia riparatoria, la malasorte il peccato di Dio contro l’uomo.
Stiamo assistendo ad un ulteriore passo involutivo: quando le cose vanno male la gente non si chiede nemmeno perché sono andate male. In compenso, pretende che i grilli che ha per la testa vadano a meraviglia. Perché ci crede ciecamente, o perché al contrario crede in se stessa al punto di non accorgersi di quella non piccola parte di cosmo che, semplicemente, non è ognuno di noi.
“Se hai un sogno, ci devi credere”, “non mollare”, “insisti, sii resiliente”, “focalizza gli obiettivi e perseguibili: vedrai che ce la farai”, e il più importante di tutti, il comandamento supremo “non avrai altro Dio all’infuori di te stesso realizzato”. L’uomo è un ectoplasma, uno spettro, un demonio che deve possedere un corpo nel quale realizzarsi. Se non ti realizzi, sei un fallito. Una vita sprecata.
Sono solo alcuni degli incantamenti che ci vengono continuamente proposti. Applicati alla “giusta causa”, questi “principi morali” generano masse di automi del tutto estranee alle conseguenze dei propri pensieri, parole, opere e omissioni.
Per quell’alambicco di filosofia che è la lingua parlata, si dice per l’appunto “sposare una causa”. Si contrae cioè un impegno sacro e sentimentale con la causa in questione: “Ha dedicato tutta la vita alla protezione delle foche monache”. Un sacramento come il matrimonio dissociato dalla carne umana e impostato sulle ossessioni genera mostri. Innanzitutto, il soffocamento della pietas.
L’ossessione per uno scopo oggettivamente fuori portata (“pensa l’impossibile”, “pensa fuori dagli schemi”) è l’ingrediente base dell’impostura spacciata per il sacrificio estremo che gli antichi tributavano agli dei è un fattore nobilitante, che rende la vita degna di essere vissuta. La consacrazione ad una “buona battaglia” rende persino la morte bella – essenzialmente agli occhi di chi sopravvive (per il momento).
Per questo, alla radice, non andrà tutto bene. Perché l’impegno – che da politico è diventato profondamente impolitico: seek and destroy, cerca e distruggi il nemico – con i dati di realtà è stato rimosso e sostituito da impulsi elettrici provenienti dall’esterno: i media, i politici, gli intellettuali, il papa stesso.
Nel ‘700, Luigi Galvani diede l’illusione della resurrezione dalla morte elettrificando una rana morta, che magicamente si agitava e saltava. Il fatto ispirò a Mary Shelley la scrittura del suo capolavoro Frankenstein.
Il risveglio, la woke culture appunto, è tutto speso su alcune cause-chiave che possiamo riassumere nell’intento di rimuovere il male dal mondo. Il prodotto sarà la Franken-Kultur. Un mondo che separa le cause dagli effetti è cadavere che cammina. Sempre morto rimane.
Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente le opinioni del responsabile di questo blog. I contributi pubblicati su questo blog hanno il solo scopo di alimentare un civile e amichevole confronto volto ad approfondire la realtà.
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Non c’è crisi che non abbia una soluzione pronta nelle menti mezzane di quell’eccesso di “ottimisti senza scrupoli” (Roger Scruton) che occupano e manovrano a vario titolo la grande macchina del consenso legittimato a prescindere purché sia sempre orientato a sinistra.
Ieri il vaccino salvifico, l’altro-ieri l’U.E. sempre più stretta, il multiculturalismo, l’esportazione della democrazia; oggi eolico contro gaas, armi contro ventilatori. territori in cambio di pace… Che ogni volta la “soluzione” abbia sempre e solo creato maggiori danni non scalfisce la fiducia degli ottimisti che anzi chiedono più europa, più immigrazione, più vaccini, più armi…