di Gianni Silvestri
DOPO SANREMO, COSA RESTA DEI MONOLOGHI DI TIZIANO FERRO?
“Nessuno dovrebbe mai soffrire o morire, perché la felicità non è un privilegio, ma un diritto”. (dai discorsi a Sanremo, “secondo Tiziano”).
A prescindere dalla valutazione artistica, non considero certo il Ferro Tiziano un esempio da seguire o commentare, ma analizzo la sua frase solo perché sta diventando rappresentativa di un certo modo di pensare, magari accattivante, ma illusorio e fallace.
Nella società odierna vi è la tendenza di alcuni a trasformare ogni desiderio in un diritto, quasi che, per il semplice fatto “di volere una cosa”, essa debba spettarci per forza, ad ogni costo, tanto da trasformarsi in diritto che – come tale – qualcuno dovrà assicurarci. Ma se in una società materialista la differenza tra desiderio (di cose) e diritti può divenire sfumata, questa distinzione dovremmo invece rimarcarla per gli aspetti fondamentali della vita (i sentimenti, l’amore, il dolore, la ricerca di un senso ecc).
Questi fondamenti non sono certo riducibili alle più superficiali categorie sociologiche, economiche, giuridiche con cui siamo abituati a valutare la realtà (e ci perdoni il grande giurista romano Ulpiano, se riteniamo giuste, ma certo insufficienti per la felicità, quelle da lui considerate come basi del diritto e della giustizia: “honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere”. (“vivere onestamente, non recare danno ad altri, attribuire a ciascuno il suo”, ovvero ”a ciascuno il suo” come, in seguito, semplificato dalla saggezza popolare).
Appare invece sempre più chiaro che la felicità non è il prodotto di alcuna azienda o società, non un diritto assicurato dallo Stato, non è nemmeno una nostra creazione personale.
Qualcuno ancora ipotizza – o convintamente afferma – che la felicità possa essere al contrario una “creazione collettiva” e che la mancanza di felicità sia dovuta alla ingiustizia, alle condizioni avverse, alla povertà e ad ogni altro genere di mancanza socio-economico-materiale che si dovrebbe combattere per poter raggiungere “il diritto alla felicità”. Ma anche su questo fronte, tutti sin’ora sembrano aver fallito. Da un lato, i vari regimi comunisti hanno mostrato – per decenni – che la ricerca della “ricchezza collettiva” (da cui sarebbe derivata quella individuale) è stata una illusione – e per di più pericolosa visti i sacrifici richiesti e le violenze perpetrate in suo nome.
Ad un simile risultato di fallimento ed infelicità ha condotto l’altra illusione, ugualmente materialista, del capitalismo occidentale, con la corsa inversa alla “ricchezza individuale” (che avrebbe poi favorito la ricchezza collettiva).
Anche tale esperienza (benchè più longeva e diffusa), non ha certo dimostrato che la sequenza “beni materiali=benessere=felicità, sia vera. A riguardo, basti considerare che nei paesi ricchi è più alto il tasso di suicidi ( quasi sconosciuto in quelli poveri), e che tali suicidi non risparmiano certo il mondo ricco e benestante (quanti artisti, attori, musicisti ecc. si sono tolti una vita che consideravano infelice, pur nella notorietà e ricchezza?). Proprio nei paesi ricchi e benestanti, sta crescendo inoltre la fuga dalla realtà con immersione in un mondo virtuale (videogiochi, social ecc), o artificiale (con le più ampie tipologie di droghe).
Queste considerazioni, molto sintetiche ma altrettanto evidenti, ci fanno intuire che la felicità (cosa diversa dal benessere, più o meno passeggero), non è certo il prodotto degli sforzi umani, non è il frutto della nostra inventiva o tecnica, ma riguarda corde molto più profonde rispetto alle realtà economiche o giuridiche e certo non solo materiali. La infelicità del materialismo (comunista o capitalista) ci di-mostra che “la vita va oltre la pelle”, non si riduce ai 5 sensi materiali, ma cerca un significato ben più appagante di una “pancia piena”.
Magari la felicità dipendesse solo “dalle condizioni esterne” in cui l’uomo vive, magari la felicità fosse esigibile come un diritto… (E contro chi manifestare per rivendicarla?).
In fondo, chi non vorrebbe che fosse così? Ma basta questo nostro desiderio, basta persino (fingere di) considerarla un diritto, affinché tale felicità si realizzi finalmente in noi? (quasi che il reale dovesse “piegarsi” ai nostri desideri, a quelli che vorremmo diventino persino diritti?).
Magari fosse così, (e potremmo discutere per decenni sulle tante sfumature del tema), ma basta la realtà a smentire questo assunto, basta la comune esperienza a dimostrare che la felicità non è una nostra creazione, un nostro prodotto, (e “contra factum non valet argumentum”, ci ricordano i latini: i fatti cioè sono molto più reali e testardi delle nostre argomentazioni).
Se la felicità fosse il risultato delle nostre azioni, tutti ce la daremmo da soli, non ci sarebbero infelici sulla terra; ma è evidente invece che la felicità è merce rara e spesso provvisoria, che sfugge ai nostri desiderata e controlli; la felicità sembra aver origini diverse persino dalla nostra stessa volontà: non basta voler essere felici per esserlo…
Questa riflessione, sia pur breve ed incompleta, ci porta a comprendere che la felicità, come il dolore, come la ricerca di un senso alla vita hanno origine invece nella nostra interiorità, e diventano parte di noi stessi, del nostro essere profondo e – come tali – convivono con le singolarità di ogni persona: c’è chi può essere felice con poco e chi invece quel poco lo considera addirittura fonte di insoddisfazione e infelicità.
Ma se la felicità non la creiamo noi, non è un prodotto in vendita o un diritto assicurato dallo Stato, essa è certamente Altro da noi, ha origine in una esperienza che ci trascende, che supera i nostri limiti umani. Se infatti la infelicità ha origine dalla nostra precarietà, come possiamo con la stessa precarietà superarla?
Sembra allora che la felicità sia da ricercarsi altrove, sia una condizione da raggiungere in un cammino, in una esperienza di vita da fare personalmente, senza deleghe a nessuno, in quanto la vita è fatta su misura per ognuno di noi, non è “a taglia unica”, non è replicabile o trasferibile a terzi.
Ecco un altro punto fermo: se la felicità ha poco a che fare con i beni o con i diritti (cioè con l’economia o la giustizia), ma affonda le sue radici nel profondo della nostra esistenza,vuol dire che essa dipende dal senso stesso della vita, dalla sua direzione, dagli ideali che la muovono. La felicità sembra aver a che fare con il vero valore della nostra vita ed ogni surrogato, ogni imitazione, sembra non funzionare, alla prova dei fatti.
Ecco allora un’altra caratteristica fondamentale della felicità: essa si presenta come “la prova del nove” della vita, come il desiderio di vero che svela i falsi valori della vita (che infatti non sanno assicurarla); la felicità è quel piccolo uccellino-rilevatore che i minatori portavano in miniera per scoprire i gas velenosi: quando la felicità viene meno, è segno che qualche gas illusorio ci sta soffocando, vuol dire che stiamo basando la nostra esistenza su valori e traguardi effimeri. È la vita stessa, con la sua esistenza e le sue domande che riconosce la vera felicità, distinguendola da quella falsa, essa funziona come un rilevatore di una vita vera (discernimento oggi sempre più difficile per la capacità della società di proporci sempre nuovi passatempi, distrazioni, idoli dietro cui la vita rischia di scorrere, sempre più sazia, ma sempre più insoddisfatta).
Al fondo della riflessione ci accorgiamo della profonda connessione della felicità con la vita stessa (non certo con le merci o con i diritti) e ci ritroviamo quindi di fronte ad un bivio, con due sole alternative:
1) la vita è sola nelle nostre mani, è quindi un viaggio solitario, di sola andata, verso il nulla, essa finisce con un “game over” che fa crollare ogni speranza. Ma questa ipotesi spegne la stessa idea di felicità (il nostro rilevatore di “falsità”), questa ipotesi negativa influisce su tutto il nostro vivere; questa ipotesi del buio totale sa di falso, va contro ogni nostro desiderio, aspirazione, sensazione, sembra, “a pelle”, essere innaturale, quasi che l’aspirazione alla vita eterna faccia parte del nostro DNA.
Ma riflettendo più a fondo, ci accorgiamo che la vita non è nelle nostre mani: noi non decidiamo neppure se nascere, non abbiamo deciso in quale famiglia o in quale nazione o in quale epoca nascere; e non decidiamo neppure quando, come e dove lasciare la stessa avventura della vita. Prima o poi comprendiamo che persino la nostra vita non è nostra, non siamo noi a volerla o a crearla, (e c’è un Altro che lo fa).
In questo cammino di consapevolezza, quasi con meraviglia, ci accorgiamo che la felicità inizia e/o aumenta con la messa a fuoco di una risposta convincente per la vita, che spieghi la sua precarietà; la felicità nasce e cresce spontaneamente all’avvicinarsi di quella risposta che finalmente sembra dar senso alle nostre domande più profonde (quelle che nessun bene economico o diritto riesce a soddisfare).
2) Il desiderio di senso e di felicità ci indirizza naturalmente verso una seconda ipotesi: quella di vita dono di un Altro, inserita in un disegno più grande che non è (per fortuna) fatto da noi; un Disegno di eternità che intuiamo più vero, perché consono alle nostre più profonde aspirazioni, al nostro naturale anelito di vita eterna.
Quando riesce ad intravedere il cammino di ricerca di questo Altro, ecco che la felicità riappare come la stella ai Magi, è il nostro rilevatore-spia che registra una esistenza che diviene più chiara, il cuore che non si sente più smarrito, la ragione che intravede una luce in fondo al tunnel, ed in quel bagliore accecante scorge – o sente – un Qualcuno che ci attende e che assomiglia sempre più a quello che abbiamo sempre desiderato: una Compagnia alla vita, che duri e sia vera. La prospettiva religiosa è quella che, alla fine, sembra meglio rispondere alle nostre domande, alla ricerca di senso, al desiderio di una felicità non effimera, non dipendente dalla fortuna o dalla salute e da null’altro, ma vera di per sé. La ragione ed il cuore umano, se attenti alla vita, se fedeli al desiderio di senso e felicità, possono riuscire a percepire l’esistenza di Dio (anche se non a conoscerlo compiutamente), possono arrivare ad individuare quei “Preambula fidei” (presupposti della fede) che lo aprono alla scoperta di un Altro, alla Rivelazione, come S. Tommaso d’Aquino (il più grande teologo cattolico) ha indicato.
È interessante a questo proposito notare che nella stessa Costituzione americana – la prima a parlare della felicità – si legge che: “tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi vi sono la Vita, la Libertà e la ricerca delle Felicità”. Badiamo, non è riconosciuto un diritto alla felicità, (e chi potrebbe assicurarla?), ma il diritto di cercarla, ed essa è posta in stretto rapporto con un creato ed un Creatore”.
Alla luce di questo breve e laico ragionamento, guidato dalla razionalità della mente e dalla ragionevolezza del cuore, possiamo tornare non tanto alla frase superficiale di Tiziano Ferro, quanto al desiderio vero che la sottende: quello di una felicità reale, che sia sicura e non effimera (quasi che possa essere garantita, come un diritto). Ma chi può garantirla se non lo stesso Creatore della vita? Se non Colui che ci ha fatto a sua immagine, lasciandoci una nostalgia di Sé, magari sotto forma di sete e ricerca di felicità? Risuonano più reali che mai le parole senza tempo, pronunciate in un tempo che si credeva lontano, ma che è prossimo ad ogni uomo: “E’ la Verità che vi farà liberi” – e felici – (non altro).
Post scriptum:
E per finire serve precisare la ulteriore frase di Tiziano:
“DIO NON COMMETTE ERRORI”, Certo Tiziano, DIO NO, MA GLI UOMINI SÌ: e lo vediamo dalla violenza di ogni giorno).
Tiziano Ferro vorrebbe farci credere che lui (ed ognuno di noi) è a posto, è nel giusto, solo perché creatura di DIO? Anche Hitler e Stalin lo erano, ma hanno scelto liberamente il male.
Dio, (per amore), ci ha lasciati liberi e noi questa libertà la possiamo usare bene o male, possiamo rifiutarlo ed allontanarci da Lui e dai suoi consigli (“se mi amerete osserverete i miei comandamenti”). Il resto è desiderio, immaginazione, fantasia di artista, ma questa non può arrivare a costruire un Dio a nostra immagine, quasi una marionetta nelle nostre mani.
In pace.
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