di Pierluigi Pavone
Siamo passati dal “socialismo reale” al “pastoralismo reale”. Anzi iper-realista!
Nella storia dell’arte, a seguito della pop art, si delinea una corrente americana pittorica e scultorea che, negli anni sessanta e settanta, riproduce con incredibile fedeltà la realtà, fin nei minimi dettagli. Si potrebbe coniare il termine di iper-pastoralismo: il significato sarebbe quello di uniformare, fin nei minimi dettagli ed evoluzioni, la dottrina cattolica a qualsiasi criterio, input, moda, mentalità della società. Non si tratterebbe più di un dialogo sincretista e/o relativista col mondo; non si tratterebbe neppure di una secolarizzazione del cristianesimo. In questi casi, la relativizzazione e/o la mondanizzazione è applicata alla dottrina cattolica di sempre: un cedimento alla morale mondana, un cedimento alla fratellanza massonica; un cedimento alla suggestione comunista di assorbire il Vangelo profanandolo come utopia di giustizia terrena. Con tutte le conseguenze, in termini di sincretismo e apostasia. Tuttavia, l’iper-realismo pastorale va oltre. E la famiglia – dopo oramai la dissoluzione liturgica – è l’altare dove maggiormente si consuma lo scontro, perché è la manifestazione sociale dell’ordine creazionistico di Dio. A ben vedere proprio la famiglia precede la stessa opera di redenzione, perché precede il peccato stesso. La famiglia naturale – a differenza, ad esempio, delle infinite specie angeliche, raggruppate nelle nove schiere – è il pensiero eterno di Dio sull’uomo e sulla donna. E la stessa opera di redenzione si incarna all’interno della Santa Famiglia di Nazareth: Dio stesso sceglie per Sé di nascere e crescere all’interno di un nucleo di padre e madre. L’arcangelo non ebbe solo il comando di recarsi da Maria, ma anche da Giuseppe, perché accettasse la custodia del Figlio di Dio e della Sua Madre, all’interno dunque di una famiglia.
La cosa che suscita maggior scalpore è che l’iper-realismo pastorale accusa di “mentalità borghese” chi difende la famiglia naturale dalle perversioni di quella società contemporanea, che, al contrario, ha assunto molti valori liberali e liberisti anti-cattolici (vedi aborto; eutanasia; Gender; “diritto” al suicidio, ecc.).
Questo iper-realismo pastorale pone, prima di tutto, “il mondo” non più come luogo di contesa tra Città di Dio e Città del diavolo, come luogo in cui compiere un’opera sacramentale di esorcismo ed evangelizzazione, come un luogo da convertire. Adesso, sembra debba essere il mondo a dettare l’evoluzione dottrinale del Credo: il mondo diviene, nella sua mentalità, nel suo peccato, nel suo esplicito rifiuto di Dio, a partire dalla stessa legge morale naturale (prima ancora che Legge divina rivelata), il criterio di uniformità della pastorale ecclesiastica. L’iper-realismo pastorale capovolge così il senso stesso della evangelizzazione: ora è il mondo ad evangelizzare la Chiesa, anzi a contro-evangelizzare la Chiesa. E alcuni uomini di Chiesa chiamano “Vangelo della accoglienza e della comprensione” questa contro-evangelizzazione.
In secondo luogo, mentre sul piano globale e globalista si assiste alla denuncia della società di mercato e ci si oppone alle “strutture di peccato” che certo capitalismo può anche assumere, dall’altra si applica un iper-realismo sociale che di fatto nega giudizio e retto discernimento, legittimando ben più profonde strutture di peccato, che si annidano nel cuore dell’uomo. La tolleranza e l’accoglienza si muovono così sul terreno della indeterminazione ultima di bene e male, di peccato e Grazia, di condizione di peccato mortale e di condizione sacramentale. “Indeterminazione” con cui la mistica cabalista – ancora una volta – pensa Dio stesso come En Sof.
In nome di una teologia della ecologica liberazione ci si oppone a certi sovranismi o logiche liberali; in nome però di una accoglienza indifferenziata, ci si rende immuni e indifferenti a qualsiasi situazione di peccato. E di peccato mortale. Si misura il peccato di rigidismo bigotto-medievale in chi è fedele alla dottrina di sempre e, dall’altra, ci si rifiuta di misurare il peccato morale dell’uomo, anche quando questi adotta pubblicamente atti (e ne arriva a rivendicare persino il diritto), in esplicita contraddizione con la legge morale naturale e con l’ordine creazionistico disposto da Dio.
E c’è anche di più. Indicare la teologia familiare tradizionale come una sorta di “borghesismo sociale” potrebbe nascondere radici che nella modernità – da sempre e in modo inequivocabile – si sono posti in antitesi al cattolicesimo, alla Chiesa e a Dio stesso. Penso a Rousseau e agli sviluppi marxisti e freudiani, che nella rivoluzione del ’68 trovano un perfetto connubio, non lontano ideologicamente dal catto-comunismo. Proprio Rousseau infatti offre una immagine del selvaggio innocente, rispetto alla cui armonia naturale – totalmente altra dalla santità per Grazia di Adamo (ne abbiamo parlato qui) –, il progresso, la scienza, la proprietà privata e la famiglia tradizionale appunto solo elementi di oppressione, degenerazione e ingiustizia.
Questa immagine della “indeterminazione morale” – e quindi sessuale e familiare – diviene la matrice perfetta della rivoluzione sessuale del 1968. Su questa matrice si innestano – per mezzo di intellettuali come Marcuse – il postulato marxista e freudiano: entrambi rifiutano il modello borghese, in quanto emblema di un sistema di oppressione sociale, familiare, sessuale, istintuale. Se Nietzsche annuncia la morte di Dio, in quanto menzogna millenaria, e recepisce la morale come il sentimento nichilista del gregge, Marx e Freud sovvertono il sistema morale, recependo Dio, l’autorità, la legge – e la famiglia composta da padre e madre – come espressioni di oppressione “dall’alto”. Marx contestualizza l’alienazione nella fabbrica borghese; Freud direttamente nella famiglia: non solo la religione è nevrosi sociale, per cui Dio è l’immagine surrogata dell’antico Padre-padrone, ma la famiglia stessa è espressione borghese dell’inconscio sacrificio delle naturali e illimitate pulsioni erotiche.
Per Freud e Rousseau, l’universo del selvaggio era l’antefatto, rispetto alla società e alla religione. Non vorremmo che proprio la Chiesa ponesse questo universo selvaggio, tra ecologia e famiglia fluida, come il fine stesso di una capovolta evangelizzazione.
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