Dopo le farlocche definizioni di famiglia di questi giorni, soprattutto da parte degli appartenenti alle associazioni LGBT, ritorniamo alla realtà con questo stralcio di intervento sulla famiglia di don Luigi Giussani.

foto: don Luigi Giussani

foto: don Luigi Giussani

La famiglia è il luogo dell’educazione all’appartenenza, all’esperienza della paternità e, quindi, della maternità. Nella famiglia è evidente che l’elemento fondamentale di sviluppo della persona sta nell’appartenenza reciproca, coniugata, di due fattori: l’uomo e la donna.

Ed è nella famiglia che la vera appartenenza si rivela come libertà: l’appartenenza vera è libertà. La libertà, infatti, è quella capacità di aderire – fino all’immedesimazione e all’assimilazione – a ciò che ci fa essere, al nostro Destino, che è resa possibile dal legame con esso. Il primo aspetto della libertà è affermare un legame, altrimenti uno non cresce, perché non assimila più.

Se noi usassimo la nostra coscienza fino in fondo, se riflettessimo su noi stessi, non più bambini ma adulti, quale sarebbe l’evidenza più impressionante? Che in quel dato momento, nell’istante, io non mi sto facendo da me. Per cui io sono “qualcosa-d’altro-che-mi-fa”, sono come fiotto di sorgente. Perciò dire “io” con consapevolezza è dire “tu”, la parola più dignitosa e più umana del vocabolario. In questo istante io sono “tu-che-mi-fai”.


Per educare a questo senso dell’appartenenza che definisce la persona umana, occorre quasi un processo di osmosi o, per usare un’altra metafora, un “riflesso esemplare”. Vale a dire: l’educazione all’appartenenza accade se la coscienza di appartenere ad un altro è trasparente nei genitori. Quando c’è nei genitori, questa coscienza passa ai figli. Non attraverso dei discorsi: senza quella pressione osmotica, senza “riflesso esemplare” i discorsi stabiliscono nella coscienza dell’uditore, del figlio, solo degli ostacoli.

Quale atteggiamento occorre avere, dunque, verso il figlio? La parola dominante, assolutamente non astratta, è “gratuità”.

Si tratta innanzitutto di una gratitudine per la generazione, cioè l’accettazione completa che quel figlio appartenga a sé. In secondo luogo, della riconsegna del figlio all’Altro, a Ciò di cui il figlio è costituito e a Cui appartiene in modo totale, sì che questa appartenenza ne costituisca la personalità. Insomma è l’atteggiamento di adesione da parte dei genitori a ciò che costituisce la persona del figlio: rapporto con l’Essere, con Dio.


Ricordo sempre un’esperienza dei primi anni di sacerdozio. Ogni settimana veniva a confessarsi una signora, ma un giorno non venne più. Quando ritornò dopo un certo tempo mi disse: «Sa, non sono venuta perché mi è nata la seconda figlia». E, prima ancora che io potessi congratularmi con lei, aggiunse: «Sapesse che impressione ho avuto appena mi sono accorta che si staccava; non ho pensato: «È un maschio» o «È una femmina», ma «Ecco, incomincia ad andarsene».

Dire che il figlio se ne va equivale a dire che il figlio cresce, tanto appartiene a un Altro. In questo processo, l’atteggiamento originale di gratuità può vivere la separazione come occasione di riconoscimento del proprio figlio come qualcosa di diverso (sempre diverso da come uno se lo immaginava). Se, invece, viene meno la gratuità, subentra il rancore: a mano a mano che il figlio se ne va il rancore aumenta la solitudine. Per cui l’appartenenza del figlio al genitore è da questi pretesa con un atteggiamento di recriminazione, imbrigliata in uno schema.

Purtroppo oggi quasi tutti hanno un concetto di famiglia che non implica la totalità dei fattori secondo il disegno di Dio come ce li ha fatti conoscere il Signore attraverso Gesù. Chi non ha mai sentito parlare di Gesù non può pensare a un’immagine della famiglia alternativa a quella mondana. Si possono generare figli senza alcuna coscienza del loro destino, come una bestia mette al mondo i suoi cuccioli. Non si è padri e madri perché si fanno figli, ma perché, avendoli generati, li si educa: li si aiuta, cioè, a camminare verso il loro Destino. Senza questa responsabilità vissuta non c’è né paternità, né maternità.

Qual è il metodo che esprime tutto il processo educativo come paternità? Quello dell’esperienza: che il figlio realizzi l’esperienza del vivere, del proprio io. È solo l’esperienza personale vissuta che salva l’appartenenza a un altro dall’essere alienazione, e assicura perciò l’identità, così che l’appartenenza all’altro è la propria identità.
Questa traiettoria educativa, che si chiama esperienza, ha un dinamismo:
a) proposta, cioè l’assimilazione della tradizione propria dei genitori.
b) Il condurre per mano, cioè l’introduzione in una realtà concreta che il figlio possa assimilare. Questo punto è il più delicato.
c) L’ipotesi di lavoro. Si tratta di un lavoro umano, perciò qui ci si riferisce a un’ipotesi di significato. È la tradizione assimilata nelle sue ragioni.
d) Il rischio, che è destinato ad aumentare col tempo, proprio perché l’appartenenza è legame e responsabilità. Per cui la proposta, il condurre per mano e l’ipotesi di lavoro come significato, tutto questo deve essere offerto e attuato con discrezione verso la libertà e la responsabilità del figlio che evolvono.
e) Una compagnia stabile, che significa fedeltà. Dio è fedele. San Paolo osserva che anche se noi siamo infedeli, Dio rimane fedele, perché non può negare se stesso (cfr. 2Tm 2,13). L’esperienza della paternità nella famiglia si realizza come compagnia sicura coi figli, come fedeltà discreta, sempre pronta a intervenire, vigilante, nei loro confronti. Compagnia fedele, dunque, fino al perdono, all’infinito, ciò che impariamo continuamente dalla paternità smisurata del Dio con noi.

È quanto afferma ne L’annuncio a Maria il vecchio padre Anna Vercors rivolto alla figlia Violaine: «L’amore del Padre non chiede compenso e il figlio non occorre che lo conquisti o che lo meriti. Come era con lui prima del principio, così resta: suo bene e sua eredità, suo rifugio, suo onore, sua giustificazione».

di Luigi Giussani

 

(Stralci da “Paternità e appartenenza”
Intervento di don Luigi Giussani al Convegno su “Paternità di Dio e paternità della famiglia”, organizzato dal Pontificio Consiglio per la Famiglia.
4 giugno 1999)

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