“Il linguaggio della “gabbia” si basa su un’idea sbagliata e letale della Chiesa e della fede. Il cristiano è veramente libero non perché la Chiesa fornisce uno spazio sicuro di affermazione personale, ma perché offre una nuova vita in Cristo, espressa nei suoi dogmi. Coloro che pensano che la Chiesa sia un luogo di prigionia a causa dei suoi dogmi hanno tragicamente scambiato la propria schiavitù per la libertà”.
Di seguito ampi stralci di un articolo di Carl R. Trueman, nella mia traduzione.
La Chiesa cattolica è una gabbia? Il linguaggio [usato] in un recente articolo del New York Times sul numero di uomini gay nel sacerdozio cattolico romano implica certamente che lo sia. La citazione precisa viene da padre Bob Bussen, un sacerdote dello Utah: “La vita nell’armadio è peggio del capro espiatorio”, ha detto. “Non è un armadio. È una gabbia“.
Mentre Bussen non incrimina esplicitamente la sua Chiesa, la conclusione è chiara: la Chiesa cattolica romana imprigiona i suoi sacerdoti a causa del suo insegnamento sulla sessualità. L’articolo ha molti problemi, non ultimo il presupposto che la sessualità equivalga alla totalità della persona. C’è anche l’intrigante questione di come questi uomini siano riusciti a offrirsi volontariamente per il sacerdozio senza rendersi conto che ciò avrebbe richiesto loro di astenersi da ogni attività sessuale. Erano forse assenti dalla classe del seminario il giorno di quella lezione? Ma ciò che mi ha affascinato di più è stata la scelta della parola “gabbia”. Rivela che i cristiani di oggi non si trovano solo a lottare con la questione se il sesso gay sia legittimo o meno, o anche del ruolo che la sessualità gioca nella nozione di persona. A un livello più profondo, sono alle prese con la questione di quale sia esattamente lo scopo della Chiesa.
Come presbiteriano, non porto con me alcuna indicazione per il cattolicesimo romano, ma riconosco nella lamentela di padre Bussen un atteggiamento verso la Chiesa che è altrettanto prevalente negli ambienti protestanti: che la Chiesa esista per il bene del popolo, e che il suo compito è quello di servire come un gigantesco terapeuta o, forse più precisamente, di fornire un palcoscenico su cui le persone possano esibirsi.
Il costante – forse dominante – mito di quest’epoca è che l’autenticità personale richieda che io sia in grado di eseguire per il mondo quello che sento di essere dentro di me. Da Rousseau a Reich e oltre, questo nonsense afferra l’immaginazione popolare. Se devo essere riconosciuto come me stesso, nessun pensiero deve rimanere muto, nessun desiderio non realizzato, nessuna avversione personale inespressa. Questo sta trasformando il significato e lo scopo di quelle istituzioni che hanno tradizionalmente condotto e trasmesso la cultura. Le istituzioni non ci addestrano più ad appartenere a qualcosa di più grande di noi stessi. Piuttosto sono lì per sostenermi nei miei atti di espressione del mio essere.
Se mi sento una donna, anche se intrappolata in un corpo di cellule codificate con cromosomi XY (maschio biologico, ndr), allora devo potermi esibire in pubblico come tale. I medici professionisti devono aiutarmi in questa ambizione. Gli scienziati che non vogliono applaudire la mia performance devono essere emarginati o espulsi dalle associazioni (formali o informali) che danno loro status e autorità. Gli insegnanti che ostacolano l’espressione del mio essere devono essere stroncati come offensivi, bigotti o incompetenti. La medicina, l’educazione, chiamali come vuoi, ora devono facilitare le mie performance.
Questo è il punto dove la mentalità moderna si scontra con il cristianesimo e la Chiesa. Il cristianesimo non è una religione dell’auto-creazione e la Chiesa non è un’istituzione destinata a fornire un palcoscenico sul quale io possa esibirmi in un ambiente sicuro e affermativo. Al contrario, è il canale della grazia di Dio. Non è lì per dirmi che è tutto a posto o per rendermi felice. È lì per assicurarmi che in me stesso non va tutto bene, e per rendermi totalmente infelice, ponendomi di fronte alle mie drammatiche carenze e alla necessità di un Salvatore. Solo allora potrò trovare la felicità – nella grazia di Dio, non nell’applauso dell’uditorio.
Come ho già notato in First Things, sono con Lutero e Newman nel considerare il cristianesimo come una fede dogmatica. E se la fede è dogmatica, allora anche lo scopo della Chiesa è dogmatico. La Chiesa non è un terapeuta [che è lì] per rassicurarci della nostra intrinseca autostima, né una compagnia teatrale che ci dà l’opportunità di mostrare pubblicamente chi pensiamo di essere dentro. Essa è, per usare termini presbiteriani, un mezzo di grazia con cui noi (e tutti i miti che ci piace raccontare di noi stessi) ci confrontiamo e veniamo rovesciati da Dio.
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Il linguaggio della “gabbia” si basa su un’idea sbagliata e letale della Chiesa e della fede. Il cristiano è veramente libero non perché la Chiesa fornisce uno spazio sicuro di affermazione personale, ma perché offre una nuova vita in Cristo, espressa nei suoi dogmi. Coloro che pensano che la Chiesa sia un luogo di prigionia a causa dei suoi dogmi hanno tragicamente scambiato la propria schiavitù per la libertà. E coloro che sembrano avere i dogmi giusti ma li usano come oggetti di scena per le loro rappresentazioni teatrali non sono davvero diversi.
Carl R. Trueman è professore alla Alva J. Calderwood School of Arts and Letters presso il Grove City College, Pennsylvania.
Fonte: First Thing
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