Recensione del libro: Giorgia Brambilla (a cura di), “Riscoprire la Bioetica. Capire, formarsi, insegnare”, Rubbettino, 2020, pp. 484, Euro 29,00 – Contributi di: Giorgia Brambilla, George J. Woodall, Pierluigi Pavone, Massimiliano Viola, Massimo Micaletti, Martina Collotta Ventriglia, Simone Barbieri, Claudia Navarini, Fabio Faggioli, Maria Elzbieta Konecka, Giulia Bovassi, Rodolfo De Mattei, Barbara Costantini, Luisa Lodevole, Matteo D’Amico, Fabio Persano, Fabio Fuiano, Joseph Seifert
di Silvio Brachetta
Non è più sufficiente scrivere un libro sulla bioetica. Prima di parlarne, la bioetica va “riscoperta”, perché esistono, a tutt’oggi, molte bioetiche – tante quanto i sistemi morali sulle quali poggiano. Eppure, nel corso del Novecento, non c’è stata una latitanza della Chiesa, che su etica e bioetica si è spesa molto, soprattutto durante e dopo il Sessantotto, a cominciare dall’Humanae Vitae di Paolo VI: voci che spesso hanno gridato solitarie nel deserto dell’ostinazione umana, se solo si pensa che la bioetica moderna nasce a prescindere – o in opposizione – al magistero cattolico, con impresso fin dall’inizio il carattere fluido della ricerca permanente.
Giorgia Brambilla ammette che nella società odierna vi siano «nuove problematiche e nuovi interrogativi che prima forse non ci si poneva neppure». Ma queste novità non possono essere un pretesto al crollo delle fondamenta morali dell’uomo: lo scienziato, proprio perché si muove in un campo che coinvolge l’etica, dovrebbe fondare il proprio studio su «ciò che è valido sempre», al netto dello sviluppo «culturale, emotivo e soggettivo», in perpetua mutazione storica.
I diciotto autori che hanno redatto l’opera sono accomunati dal principio metafisico circa la necessità di «riconoscere l’oggettività del reale», secondo l’espressione della Brambilla. In questo senso, la realtà è una, così come la verità in genere e, in particolare, la verità dell’ambito etico e morale. Non è solo una questione di fede. Per comporre un qualsiasi lavoro sull’etica, che abbia un valore scientifico, è imprudente assumere un’antropologia fluida, storicista, ma è indispensabile partire «dall’essere umano che ho davanti a me hic et nunc per ciò che è e non per ciò che ha o sa fare». C’è, insomma, una natura umana, stabile nella sua essenza, con la quale fare i conti, oltre le contingenze della storia.
Vi è poi un secondo punto forte del libro, che va a correggere la leggerezza (o la frequente infondatezza) del pensiero contemporaneo: anche in questo caso, gli autori puntano molto sulla «formazione», sull’«educazione» – che sono spesso i grandi assenti del nostro tempo. Il «metodo» da seguire – scrive Brambilla – è il continuo «rimando ai fondamenti» dell’etica, così da ottenere una formazione «solida, completa e capace di senso critico».
La sensibilità metafisica, inoltre, considera l’unità del reale, oltre il settorialismo proprio delle discipline. Al netto della differenza sostanziale tra gli enti, che sono oggetto di studio, non si può non tenere conto della «perfetta circolarità tra fede, ragione, verità e morale», nel senso che va superata la presunta frattura tra fede e ragione, imposta dalla modernità come un dogma.
Nel medesimo tempo, però, pur tenendo conto dell’oggettività del reale, è da evitare una «reificazione della persona», che darebbe luogo a una bioetica fatta solo «di bei principi dedotti da un “umanesimo”», pur se ricavati «da un’antropologia elevata» – osserva Brambilla. Non va dimenticato che speculare sull’etica implica l’impegno della ragione pratica, per cui si parla di «un sapere di tipo pratico»: in questo caso «la conoscenza morale non avviene mediante deduzione applicativa da affermazioni metafisiche sulla natura dell’uomo, ma come una luce di verità sul bene umano». La bioetica, cioè, non si riduce a poggiare su «piattaforme esclusivamente razionali», quasi da riporre una fiducia socratica e incondizionata sulla sola intelligenza umana. È piuttosto da tenere conto, primariamente, del dato della Rivelazione, così da evitare in partenza derive utilitaristiche o, comunque, filosoficamente o teologicamente spurie.
Il libro, pur non avendo la pretesa di essere esaustivo, è però un testo per una formazione di base, rivolto principalmente agli educatori e al mondo pro-life. È diviso in tre parti: Bioetica fondamentale, Biodiritto e Bioetica speciale. Si parte, quindi, dalla storia della bioetica, si passa per le questioni legate alla giurisprudenza e si approda ad un compendio della Morale, secondo le indicazioni della curatrice.
Vastissime le tematiche offerte dagli autori, tra cui: elementi di teologia morale, bioetica e diritto, fisiologia della riproduzione ed embriologia, questione dell’aborto, fecondazione artificiale, genetica, neuroscienze, teoria del gender, patologie adolescenziali, questione dell’eutanasia, aspetti etici delle biotecnologie. Il compendio dei saggi tiene conto della pubblicistica scientifica sugli argomenti e dei pronunciamenti magisteriali.
Non va trascurato anche l’aspetto specialistico dell’opera. Molte delle difficoltà odierne di approccio ai temi bioetici sono dovute, in buona parte, ai neologismi. Non è mai facile orientarsi con i concetti del tipo «gene editing della linea germinale», «enhancement», «genoma» o «neurobioetica». La lista è lunga. Quanto al problema dell’ideologia del gender, ad esempio, nonostante sia un argomento dibattuto, sono pochi coloro che hanno un quadro chiaro della situazione. E il quadro non è chiaro poiché manca la formazione specifica: è oscuro, in questo caso, il concetto di «genere», la sua genesi o il motivo per cui s’è imposta la separazione tra genere e sesso.
Le stesse osservazioni si possono fare nel merito delle altre questioni legate alla vita e alla famiglia. È complicato (se non impossibile) far fronte alla distruzione ideologica delle fondamenta dell’esistenza umana, così come sta avvenendo da almeno mezzo secolo, anche per via del fatto che la maggioranza delle persone non è in grado di leggere o comprendere quanto i media vanno pubblicando.
Laddove non c’è formazione, è difficile opporsi efficacemente alle derive eutanasiche, o al flagello dell’aborto, o all’eugenetica trionfante. E, anzi, l’onnipresente cultura della morte deve la potenza del suo nefasto contagio pure all’assenza di anticorpi culturali che la possano contenere.
Scrivi un commento