di Pierluigi Pavone
Una apparente retorica insiste sulla “fragilità umana” e sul “bisogno di salvezza”, come elementi paritetici e comunemente presenti in ogni tradizione religiosa, che quindi sarebbe portatrice di un identico messaggio. In realtà, tale retorica sincretista non considera l’irriducibile differenza ontologica tra Occidente e Oriente. Una irriducibile opposizione tra il presupposto occidentale sulla realtà, sull’uomo, su Dio, rispetto al presupposto delle religioni o vie etiche dell’Asia, che contraddice qualsiasi logica e possibilità di quel “dialogo intra-religioso”, proposto in ambito cattolico da R. Panikkar. Per Panikkar, in modo davvero inspiegabile e assurdo sul piano della logica ancor prima che della fede, le tradizioni religiose del Cristianesimo e del Buddhismo in fondo “sono convinte del fatto che l’uomo si trova in uno stato di incompiutezza e quindi in un dinamismo di crescita, di divenire, di progresso, che fa di lui un pellegrino” [1]. E questo basterebbe per porre sullo stesso piano la situazione umana e quindi la via di liberazione.
La domanda, però, è quale sia dunque questa condizione umana e la conseguente liberazione. Liberazione da cosa? Quale condizione umana, quella che deriva da un ordine di Bene che è Dio o quella che ammette un numero infiniti di esseri senzienti i cui potenziali karmici hanno creato questo universo? Quella di chi parla di abuso di una condizione in sé ordinata e buona, di rifiuto peccaminoso di Dio, di libero e cosciente tentativo di auto-deificazione, da cui sono dipesi dolore e morte, o di chi asserisce che siamo stati spinti in questo ciclo di sofferenza dalle nostre illusioni e dalle azioni che esse provocano, note come karma? Quella di chi ammette Gesù Cristo, Dio incarnato e unico salvatore del mondo, o quella che sostiene che possiamo diventare Buddha di noi stessi? Quella che sostiene che ci sarà un giudizio su quanto in questa vita avremo amato Dio e il prossimo o quella che prescrive di domare la mente come il compito più importante che abbiamo nella vita? Quella che sostiene la sussistenza eterna dell’identità personale o quella che insegna che l’antidoto che eliminerà le illusioni è la saggezza che comprende la non esistenza del sé?[2]
Se la Rivelazione biblica ebbe modo di confrontarsi con il logos greco e il diritto dei Romani, questo avvenne perché sia ad Atene sia a Roma si faceva scienza dell’essere e scienza del diritto. Non è affatto vero che la Rivelazione biblica si sarebbe potuta confrontare positivamente con qualsiasi tradizione culturale e che lo fece con quelle del Mediterraneo, solo per naturali motivi geografici. Questa visione è sia falsa sia banale. Anzi, di per sé la Rivelazione biblica falsificava (e falsifica) di per sé qualsiasi religione, paganesimo e spiritualità: la Verità di Cristo, la Verità che è Cristo esigeva (ed esige) di rinnegare superstizioni, alienazioni, perversioni spirituali individuali o collettive. Il Cristianesimo in questo ha compiuto una immensa opera di esorcismo nei confronti di coloro che, nati con la colpa del peccato di Adamo e privi della Legge di Mosè e della Grazia della Croce, erano soggiogati (e sono soggiogati) dal potere di Satana che – senza Battesimo – vanta una proprietà su ogni anima. La Rivelazione biblica si confrontò con il logos, perché Cristo stesso è Logos (Gv 1,1-3); perché il peccato originale non ha ridotto l’uomo – come per Lutero – ad asino condotto o da Dio o da Satana; perché la Giustizia di Dio non è – come per Lutero e prima ancora per lo gnostico Marcione – aliena, cioè totalmente “equivoca” e “altra” da qualsiasi ragionevolezza, possibilità e logica umana. La Giustizia di Dio non è una anarchica giustificazione, che alcuni uomini subiscono a priori, contro la massa che resta, quindi, predestinata, alla dannazione.
Esisteva un presupposto filosofico fondamentale, che in Grecia strutturò e rese possibile il confronto con la Bibbia e la fede ebraica e cristiana nei secoli dell’Impero Romano: la realtà sussiste in sé; la realtà è vera, logica, misurabile, buona. Esiste una armonia e un ordine naturale iscritto nella natura delle cose. L’essere è. Proprio questo presupposto “ontologico”, cioè riguardante l’essere, la realtà e la sussistenza delle cose, degli enti, è capovolta e negata in Oriente. Per l’Occidente la realtà determinata non è una colpa. Persino nella Gnosi, per quanto la realtà sia prigione, almeno resta effettiva nella sua materialità. Per quanto nelle visioni morali ellenistiche si indica l’apathia (assenza di passioni negli Stoici) o l’atarassia (assenza di turbamento, nel “quadrifarmaco” epicureo) come vie razionali dell’uomo, eppure l’imperturbabilità, il raggiungimento della felicità, il dominio delle paure (persino quello praticamente ateo di Epicuro, che nega il coinvolgimento divino nelle vicende umane) non è – mai – in opposizione al mondo. Non è mai fuga dal mondo. Non è mai negazione della realtà. Al contrario: è uniformità assoluta alla realtà, proprio nella sua sussistenza, armonia, ordine. Si tratta di vivere secondo ragione, cioè secondo la natura delle cose. Non si tratta affatto, come in Oriente di ricondurre la realtà a illusione.
Al contrario, il presupposto “sanscrito” è proprio il velo di maya, che indica in senso negativo l’illusione dell’essere, l’illusione che è l’essere, a tal punto da poter affermare che l’uomo – nella sua sussistenza, ragione, volontà – non è “nella” illusione. Ma è “parte” della stessa illusione. Il Nirvana è l’Incondizionatezza, nel senso della nullificazione assoluta – contro la fede cristiana nella conservazione di sé, in anima e addirittura nel corpo, sia all’inferno sia in Paradiso. Buddha indica in ognuno il “redentore di se stesso” – contro la fede Cristiana, dove il Sacrificio della Croce è unica via di riscatto e soddisfazione della Giustizia divina.
La condizione di illusione determinata dal velo di maya è persino peggiore della rielaborazione che offrirà Schopenhauer: quest’ultimo è il filosofo occidentale sensibilmente più vicino alla spiritualità buddhista. La via ascetica della noluntas – della nullificazione di ogni volontà e per “il Nulla di tutto ciò che è” – è teorizzata, come nel buddhismo, alla luce del dolore, che a sua volta è conseguenza della illusione di questo mondo e della sua desiderabilità. La differenza sta nel fatto, però, che in Schopenhauer l’essenza della realtà, occultata dal velo di Maya, è Volontà anarchica, eterna e priva di senso. In questo senso l’uomo è vittima della stessa esistenza, perché esistere significa desiderare, desiderare significa vivere una mancanza, quindi soffrire. Tutto soffre, perché tutto esiste. Nella misura in cui esiste. Nel Buddhismo, invece (come si leggeva all’inizio di queste pagine), l’illusione e il dolore sono determinate colpevolmente dalla mancanza di dominio del desiderio. Quindi l’uomo diventa carnefice e redentore di se stesso, allo stesso tempo, in una via di interiore spiritualità e volta al Nulla.
L’essere è male in sé, proprio nella sua sussistenza, rappresentazione, desiderabilità e illusione. Di contro in Occidente l’essere in quanto tale è vero e buono. Nella dottrina dei trascendentali di san Tommaso, in continuità con la metafisica aristotelica, ogni ente, ogni sostanza è indicata nella sua materia e nella sua forma, cioè essenza data; si ammette che alcuni enti siano di grado ontologico superiore rispetto ad altri, pur essendo “ognuno in sé e per sé” perfetto, logico e compiuto (come una giraffa è di grado ontologico superiore rispetto ad una pietra); si ammette che alcuni enti non abbiano materia, come gli angeli non hanno corpo ma sono creature esclusivamente spirituali. Nella dottrina dei trascendentali – e quindi nel Cristianesimo – si distingue per questo il male ontologico, il male morale, il male fisico. E si afferma – contro la metafisica asiatica – che il male non esiste in sé: ogni ente è nel suo grado perfetto e buono. Il male, allora, è la scelta moralmente colpevole di auto-deificazione (il peccato dell’angelo e dell’uomo); e quindi – come conseguenza – il male è il male fisico, come dolore e morte.
Non è possibile – né per ragione, né per fede – accostare o avvallare, dunque, una qualsivoglia analogia tra salvezza occidentale e salvezza orientale. L’una esiste, anzi, solo rinnegando l’altra.
[1]R. Panikkar, Il dialogo intrareligioso, trad. it. N. Giostra, Cittadella Editrice, Assisi 1988, p. 170.
[2] Sono espressioni recuperate dai testi del Dalai Lama, pubblicate in Dalai Lama, La via della liberazione. Gli insegnamenti fondamentali del buddhismo tibetano, trad.it. L. Fontana e F. Matera, il Saggiatore, Milano 2009.
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