Ho letto con sorpresa una lettera (qui) indirizzata a tutti i vescovi italiani, sottoscritta da alcuni sacerdoti, docenti di teologia, membri di associazioni, membri di Caritas diocesane ecc., avente ad oggetto la questione della immigrazione nel nostro Paese.
Nella lettera si può leggere:
“Cresce sempre più una cultura con marcati elementi di rifiuto, paura degli stranieri, razzismo, xenofobia; cultura avallata e diffusa persino da rappresentanti di istituzioni.
In questo contesto sono diversi a pensare che è possibile essere cristiani e, al tempo stesso, rifiutare o maltrattare gli immigrati, denigrare chi ha meno o chi viene da lontano, sfruttare il loro lavoro ed emarginarli in contesti degradati e degradanti”.
La lettera è un invito a tutti i vescovi a far sentire la loro voce. Ma contro chi? Essa non lo dice chiaramente, anche se lascia intendere sottilmente che la voce deve essere levata principalmente contro almeno un esponente di questo Governo, cioè Matteo Salvini, Ministro degli Interni, ma anche nei confronti di una parte dei cattolici.
Essa addirittura riporta anche un passaggio che a tratti assume un sapore vagamente ricattatorio. Infatti, si può leggere: “Un vostro intervento, in materia, chiaro e in sintonia con il magistero di papa Francesco, potrebbe servire a dissipare i dubbi e a chiarire da che parte il cristiano deve essere, sempre e comunque, come il Vangelo ricorda”.
Da queste poche righe si capisce chiaramente che la lettera è intrisa di moralismo, buoni sentimenti, di politicamente corretto, di una visione ideologica. I sottoscrittori, infatti, pensando di avere “l’interpretazione esclusiva ed autentica del Vangelo”, credono di poter appioppare immediatamente l’etichetta di “razzista” a tutti coloro che osano porre dubbi sulla sostenibilità per il nostro Paese di un flusso migratorio fuori controllo, caratterizzato, per altro, per la quasi totalità da clandestinità, cioè dalla infrazione della legge. Non si può invocare il “bene comune” se si parte dalla patente infrazione della legge, cioè dalla illegalità. Si accoglie imperativamente chi scappa dalla guerra (vera), non chi finge di scappare da una guerra inesistente. E’ una banalità, ma va, purtroppo, ripetuta. Illegalità e “bene comune” non vanno a braccetto.
C’è però un vescovo, mons. Antonio Suetta, della diocesi di Ventimiglia – San Remo, che con toni pacati ma molto argomentati, ha risposto ai sottoscrittori dell’appello con una lunga lettera che potete leggere qui. E’ una lettera interessante, e per questo da leggere tutta d’un fiato, che costituisce un invito a riflettere su problemi complessi. Come detto è lunga, e per questo vi riporto solo alcuni stralci, in modo che possiate “assaporare” la ragionevolezza di una fede che affronta la realtà “a partire dalla esperienza”, quelladella Chiesa di Ventimiglia San Remo, rifiutando così gli occhiali dell’ideologia.
Dice mons. Suetta:
Su questo confine (di Ventimiglia, ndr) si sono consumate grandi tragedie umane, per la morte violenta di uomini e donne (anche incinte) rimaste vittime di incidenti nel tentativo di oltrepassare lo sbarramento francese, percorrendo di notte i binari della ferrovia, la galleria dell’autostrada o il “sentiero della morte” sui monti. A questo si aggiunga la proliferazione di situazioni di criminalità e di business, ad opera dei cosiddetti “passeurs”. (…)
Mi sono chiesto più volte: quale può essere il ruolo profetico della Chiesa in questa situazione? Certamente, abbiamo dato, e continuiamo a farlo, pasti caldi, riparo e supporti vari (mediazione, orientamento, soprattutto umanità) a chi versa in condizioni di difficoltà e ha bisogno del necessario per vivere. Ma può bastare questo per risolvere un problema di proporzioni sempre più gravi?
La Chiesa guarda al bene integrale dell’uomo e di tutti gli uomini, tenendo conto che la sua azione propria è di natura religiosa e morale, altrimenti non ci sarebbe nessuna differenza con una qualsiasi delle ONG che si attivano per il trasporto dei migranti nel Mediterraneo.
(…) ricordava San Giovanni Paolo II, intervenendo in un Simposio sulla Dottrina Sociale della Chiesa nel 1982: “la Chiesa non ha competenze dirette per proporre soluzioni tecniche di natura economico-politica; tuttavia, essa invita a una revisione costante di qualsiasi sistema, secondo il criterio della dignità della persona umana”. (…)
Di fronte a situazioni complesse di carattere politico e sociale, spesso i fedeli, individualmente o in gruppi particolari, possono assumere legittime e diversificate iniziative, trovando sempre però nel Vangelo e nell’insegnamento sociale della Chiesa i principi ispiratori delle loro azioni e delle loro scelte politiche. Le scelte e i progetti dei singoli o dei gruppi di ispirazione cristiana possono divergere, pur agendo da cristiani, senza per questo pretendere di agire a nome della Chiesa o di imporre un’interpretazione esclusiva e autentica del Vangelo. (…)
In un contesto complesso e pluralista, compito della Chiesa è indicare principi morali perché le comunità cristiane possano svolgere il loro ruolo di mediatrici nella ricerca di soluzioni concrete adeguate alle realtà locali. (…)
Tali precisazioni sono importanti per giungere al cuore della mia riflessione, che ruota attorno alla seguente affermazione: l’esperienza dell’emigrazione è dolorosa per ogni uomo; soffre chi è costretto a lasciare la famiglia, la casa, la terra, abbandonando affetti, costumi, lingua, cultura e tradizioni che compongono la propria identità; soffre la famiglia privata di un suo componente e smembrata; soffre la terra depauperata spesso delle sue risorse migliori. A ciò si affiancano le difficoltà dei popoli occidentali nel realizzare una difficile integrazione, spesso preoccupati – non sempre senza ragione – di preservare la loro sicurezza e la loro identità culturale e religiosa. (…)
Comprendo in questo senso le parole di San Giovanni Paolo II, tratte dal Discorso al IV Congresso mondiale delle Migrazioni del 1998: “il diritto primario dell’uomo è di vivere nella propria patria: diritto che però diventa effettivo solo se si tengono costantemente sotto controllo i fattori che spingono all’emigrazione”. (…)
La separazione e lo smembramento delle famiglie dovuto all’emigrazione rappresenta un grave problema per il tessuto sociale, morale e umano dei Paesi d’origine. L’emigrazione dei giovani rappresenta un grande depauperamento per l’Africa. Spesso, inoltre, a emigrare sono i giovani istruiti, nell’illusorio sogno del benessere europeo a portata di mano. (…)
Desidero richiamare in proposito l’appello che le Chiese africane hanno rivolto in più occasioni ai loro figli più giovani: “Non fatevi ingannare dall’illusione di lasciare i vostri paesi alla ricerca di impieghi inesistenti in Europa e in America” ha detto Mons. Nicolas Djomo, Presidente della Conferenza Episcopale del Congo, all’incontro panafricano dei giovani cattolici del 2015.
(…) si deve considerare il difficile tema dell’immigrazione islamica, che pone un grave problema di integrazione con la nostra cultura occidentale e cristiana. Faccio riferimento a dati obiettivi, fonte spesso di problemi non indifferenti, posti dalla difficile conciliazione di concezioni assai diverse del diritto di famiglia, del ruolo della donna, del rapporto tra religione e politica.(…) le difficoltà di integrazione le vediamo anche nelle realtà più piccole dei nostri centri, dove assistiamo alla creazione di veri e propri “quartieri islamici”, che, con gravi tensioni tentano di impiantare le loro regole e le loro tradizioni.
Anche Papa Francesco ha sempre riconosciuto che la politica dell’accoglienza deve coniugarsi con la difficile opera dell’integrazione “che non lasci ai margini chi arriva sul nostro territorio” e proprio pochi giorni fa ha precisato che l’accoglienza va fatta compatibilmente con la possibilità di integrare.
(…) i migranti, già vittime di ingiustizie nei loro Paesi d’origine, costretti a subire sfruttamento e gravi difficoltà nei Paesi di arrivo, soprattutto quando scoprono che non ci sono le condizioni di fortuna sperate, sono vittime insieme alle popolazioni occidentali di “piani orchestrati e preparati da lungo tempo da parte dei poteri internazionali per cambiare radicalmente l’identità cristiana e nazionale dei popoli europei”, come recentemente ha ricordato Mons. A. Schneider. (…)
Come Vescovo, sento forte la responsabilità di custodire il gregge che mi è stato affidato e di custodire la continuità dell’opera della Chiesa nel nostro problematico contesto sociale, presidio e baluardo di autentica promozione umana. Personalmente, sono convinto che il futuro dell’Europa non possa e non debba rischiare verso una sostituzione etnica, involontaria o meno che sia.
di Sabino Paciolla
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