Questo articolo di Scott McConnell, uno dei fondatori della rivista The American Conservative, va al cuore di una delle maggiori problematiche europee del momento: l’immigrazione. Essa viene vista nelle sue varie sfaccettature, che hanno a che fare con questioni di fede, laicità e significato della vita. Quello che più colpisce è che Scott McConnell, pur americano, senta la questione del destino della civiltà europea molto più acutamente di tanta élite globalista europea, che comincia a sentire il fiato sul collo di un popolo che vuol far sentire il suo sonoro “NO” a politiche ideologiche, un popolo che vuole ragionevolmente distinguere tra veri rifugiati e migranti economici o in cerca di benessere.
Ecco la quasi totalità del suo articolo nella mia traduzione.
Nelle prossime settimane, mesi e forse anni, ho intenzione di scrivere qui e altrove sulla crisi europea dell’immigrazione. Accanto al riscaldamento globale, e naturalmente alla possibilità di una guerra nucleare, mi sembra la questione più critica per l’Occidente di oggi, una questione che può far sentire le persone ragionevoli come senza futuro, come non avesse senso avere figli, ecc. Sono stati pubblicati molti buoni libri che trattano aspetti diversi dell’argomento. Il dibattito intellettuale sull’immigrazione, la diversità e il multiculturalismo in Europa è generalmente più ricco che negli Stati Uniti, riflettendo il fatto che la loro è una vera e propria crisi di civiltà, molto più terribile della nostra.
Due libri sono particolarmente eccezionali: Reflections on the Revolution in Europe di Christopher Caldwell, pubblicato nove anni fa, e The Strange Death of Europe di Douglas Murray, uscito l’anno scorso. Entrambi sono esempi di analisi acute, di ricerche e reportage approfondite e di argomentazioni ragionate ed eque. Entrambi arrivano all’essenza del problema di una civiltà secolare stanca e dubbiosa che cerca di accogliere un afflusso improvviso e molto ampio di persone con un senso di identità completamente diverso e spesso con un senso teologicamente infuso dello scopo e dei significati della vita. Entrambi attribuiscono notevoli responsabilità ai leader politici dell’Europa occidentale e alle élite accademiche e mediatiche che hanno una lunga storia nel nascondere la natura del problema ai loro cittadini e forse anche a loro stessi.
Nove anni fa, alcuni nell’establishment liberale americano erano almeno disposti a riconoscere che l’immigrazione di massa in Europa poteva essere un problema. Il libro di Caldwell è stato recensito favorevolmente sul New York Times da Fouad Ajami, lui stesso immigrato libanese in America, che era partito sapendo, come ha detto lui stesso, “non ci sarebbero state imans o moschee in attesa” nel Nuovo Mondo, ma che ha fatto comunque il viaggio. Ajami ha elogiato il libro di Caldwell e ha detto che è stato scritto all’indomani dell’attentato terroristico nella metropolitana londinese con alto numero di vittime. Quell’evento aveva svegliato almeno alcuni britannici al fatto che moltissimi immigrati di seconda generazione non avevano il minimo interesse a diventare britannici, anche se gli imam radicali che hanno ispirato il loro terrore non si sono fatti scrupoli ad accettare i benefici del sistema di welfare europeo. Ajami fornisce questo succinto riassunto di uno dei temi di Caldwell: “Da parte loro, i nuovi arrivati, timidi all’inizio, si sono espansi nelle rivendicazioni che avevano fatto….erano fuggiti dal fuoco, e dal fallimento, delle loro terre ancestrali, ma avevano portato con sé il fuoco”.
Nove anni dopo, l’editor dello Spectator Douglas Murray ha pubblicato un libro per molti versi impressionante come quello di Caldwell, ma che include sviluppi recenti che hanno portato il problema dell’immigrazione più vicino al punto di ebollizione. Tra questi, l’accoglienza da parte di Angela Merkel di un milione di giovani migranti musulmani in Europa, l’accelerazione degli attacchi terroristici musulmani (che la stampa europea di prestigio e la classe politica centrista affermano invariabilmente “non avere nulla a che fare con l’Islam”), le aggressioni sessuali di massa a Colonia e in altre città, l’”adescamento” o bande di stupro infantile trovate in diverse città britanniche, l’emergere dei partiti populisti anti-immigrazione sia in Europa orientale che occidentale, e il riconoscimento, ormai pervasivo, che la questione dell’immigrazione è di primaria importanza in Europa. Ma a quel punto il Times aveva già scelto con decisione le parti in causa. Murray è stato respinto come “oratore prolisso” da un recensore che ha ignorato tutte le sue argomentazioni reali, attribuendogli “rivendicazioni retrò della comunità religiosa etnica” e “timori di contaminazione” – nessuno dei quali appare in qualsiasi forma nel lavoro di Murray.
(…)
Non è dato sapere cosa ha causato questo grande cambiamento nella linea editoriale del Times sull’immigrazione europea, un cambiamento che si è manifestato anche nell’incessante “copertura” da parte del giornale della presunta “minaccia ai valori europei” posta dai governi liberamente eletti di Ungheria e Polonia che sono scettici sull’immigrazione. Ma che rafforza un nuovo consenso liberale americano sul fatto che gli europei che temono che la loro casa si stia trasformando in qualcosa di irriconoscibile per loro, sono poco più che nazisti e bigotti.
Non ci credo neanche per un momento. Credo che il desiderio dei cittadini europei che l’Europa rimanga per loro la casa sia la più naturale e difendibile delle aspirazioni politiche umane. Credo anche che l’opinione dell’élite globalista, (che ritiene) che la Cina possa essere la Cina e l’India possa essere l’India, ma che l’Europa possa essere trasformata in un deposito per chiunque nel mondo possa arrivarci, se si realizzasse appieno, distruggerebbe quella che è stata una delle civiltà più feconde e innovative dell’umanità. Lo dico, naturalmente, con piena cognizione dei punti oscuri del passato europeo, alcuni dei quali sono stati davvero molto oscuri.
Credo anche, in modi forse analoghi a quanto credevano gli statisti americani quando l’Europa era minacciata dal nazismo e poi dal comunismo, che l’America non avrebbe prosperato in un mondo con un’Europa dispotica o distrutta. Ci sono profonde ragioni culturali per cui abbiamo mandato milioni di uomini a combattere in Europa durante il secolo scorso, generosamente finanziato la ricostruzione europea del dopoguerra, e consideriamo i nostri alleati della NATO come un parente culturale e politico in un modo che non proviamo per le altre nazioni. Non sono ottimista per natura, e non credo che il successo sia inevitabile o addirittura probabile. Per prevalere nei prossimi anni, gli europei dovranno eleggere governi che siano in grado di dire “no”, che siano disposti a distinguere tra veri rifugiati e migranti economici o in cerca di benessere, che espellino alcuni o tutti questi ultimi come meglio credono, e che istituiscano misure che rendano l’immigrazione illegale in Europa tanto improbabile quanto l’immigrazione illegale in Cina (per fare un esempio di una società che non ha l’impulso a suicidarsi).
Gli europei possono ancora avere successo, ma il risultato è molto dubbio. Da un lato, ci sono letteralmente centinaia di milioni in Africa e nel Medio Oriente e nel subcontinente asiatico che credono che la loro situazione migliorerebbe trasferendosi in Europa e che hanno sempre più spesso i mezzi per mettere in moto tali piani. Essi sono resi possibili da un’élite europea globalista profondamente radicata che, per una combinazione di colpa, stanchezza civile e una genuina convinzione che i confini sono obsoleti, non vogliono costituire un serio ostacolo al loro ingresso. Dall’altro lato stanno nascendo i sentimenti della maggioranza dei cittadini europei, che hanno ancora accesso agli strumenti della democrazia e alla capacità di cambiare le loro élite. Alleati con loro c’è una crescente schiera di intellettuali, molti dei quali in precedenza di sinistra, che si rendono conto dopo tutto che non vogliono che la loro civiltà finisca.
Come tutti i lettori dei libri di Caldwell e Murray sanno, questa battaglia ha radici intellettuali profonde e complesse, profondamente legate a questioni di fede, laicità e significato della vita. Sarà combattuto in una miriade di modi: alle urne, nei media, a volte per strada. Purtroppo, sembra tutt’altro che improbabile che alla fine comporti violenza, cioè violenza al di là di ciò che i terroristi hanno già iniziato.
Come giornalista spero di poter aggiungere qualcosa alla comprensione americana di questa battaglia leggendo quello che posso della stampa europea, descrivendo i principali eventi e dibattiti, citando e collegando liberamente, e probabilmente viaggiando in Europa come ho fatto in precedenza per riferire su elezioni ed eventi critici. In ogni caso, questo è il piano.
Fonte: The American Conservative
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