T. S. Eliot, poeta, saggista, critico letterario e drammaturgo statunitense naturalizzato britannico
T. S. Eliot, poeta, saggista, critico letterario e drammaturgo statunitense naturalizzato britannico

 

 

di Nicola Lorenzo Barile

 

Fra gli anniversari che sono caduti nel 2022, non si può non ricordare quello della pubblicazione del poema The Waste Land di T. S. Eliot (1888-1965), tradotto in italiano da Mario Praz con il titolo La terra desolata (1936), ovvero la terra invernale, che sembra chiudere definitivamente il ciclo della vita e che deve essere esorcizzata ritualmente perché torni la primavera con la fioritura delle messi.

Ogni epoca è certamente diversa dalle altre ma tutte, comunque, presentano uno schema di morte e rinascita, aridità e pioggia, radici secche e verdi foglie, sicché la metafora della terra desolata può inglobare le più varie occorrenze storiche, tanto l’inferno dantesco quanto l’alienante città della rivoluzione industriale, il deserto biblico come la terra devastata del Re Pescatore della leggenda del Santo Graal, il gelido squallore invernale come l’arsura estiva, o, per venire a tempi più recenti, il lutto per i caduti nelle guerre mondiali o la crisi della civiltà occidentale, fino ad arrivare ai fatti strettamente biografici, come la morte del padre di Eliot o il fallimento del suo primo matrimonio con Vivienne Haigh-Wood (1933).       

Com’è infatti testimoniato dalle traduzioni più recenti di Angiolo Bandinelli (Il paese guasto, 1994) e soprattutto, di Carmen Gallo (La terra devastata, 2021), The Waste Land non smette mai di ispirare interpretazioni sempre nuove, come nel caso di quella fortemente attualizzante presentata da Jahan Ramazani all’International T. S. Eliot Summer School del 2020, in cui si suggerisce di leggere la metafora di Eliot come grido di allarme e di dolore per il nostro pianeta, reso desolato, secondo lo studioso, dal cambiamento climatico.

Non dobbiamo dimenticare che The Waste Land, insieme all’Ulysses di James Joyce (1922), del resto ben conosciuto da Eliot, è un testo dal carattere sperimentale, anzi uno dei testi di punta dell’influente corrente detta del «modernismo», di cui fecero parte poeti del calibro di Ezra Pound (1885-1972), cui Eliot, non a caso, dedicò The Waste Land, in segno di gratitudine per la sua profonda opera di revisione del testo. Così, si stenta a riconoscere in Eliot quel poeta mosso da afflato religioso che si accosta problematicamente alla crisi del mondo contemporaneo con la guida, pur discreta, della fede cristiana, che abbiamo appreso a conoscere grazie a opere famose come Assassinio nella cattedrale (1935), ispirato al delitto dell’arcivescovo di Canterbury Thomas Becket perpetrato da re Enrico II d’Inghilterra (1170), o i cori da La Rocca (1934), che don Giussani scelse per testimoniare «I libri dello spirito cristiano» nell’omonima collana della BUR (1994).

The Waste Land è, però, un testo precedente alla conversione di Eliot (1927) a quel ramo della Chiesa anglicana noto come anglo-cattolicesimo, di cui fecero parte sia San John Henry Newman (1801-1890), che molto influì su Eliot, sia il suo oppositore Henry Edward Manning (1808-1892), entrambi destinati a entrare nella Chiesa cattolica e a diventare cardinali. Ci si chiede allora perché anche Eliot non si sia convertito al cattolicesimo: secondo Russell Kirk, il pensatore conservatore che ha dedicato una importante biografia intellettuale a Eliot (Eliot and His Age, 1971), ciò sarebbe stato difficile per un artista come Eliot, così profondamente intriso di cultura anglosassone; ai suoi occhi, il cattolicesimo romano, pur molto vicino all’anglo-cattolicesimo, non poteva che sembrare un esotismo, più appartenente all’Irlanda che a Roma; senza dimenticare la circostanza che la sua conversione alla Chiesa d’Inghilterra coincise di fatto con il conseguimento della cittadinanza britannica.

Comunque sia, con la sua conversione, Eliot volle testimoniare la preoccupazione per un mondo in rapido decadimento perché allontanatosi dalla fede. Ancora una volta, torna la metafora della terra desolata: se la terra è un arido deserto, perché le acque della fede sono state prosciugate, allora bisogna tornare a quelle sorgenti che sono state così vitali per la fioritura della nostra civiltà: è quanto farà Eliot con la sua poesia successiva, quella cristiana, che lo ha reso così famoso da fargli vincere il premio Nobel per la letteratura (1948).

Quando gli veniva chiesto di dare pubblica lettura di The Waste Land, però, rispondeva stancamente che non ne valeva la pena, dato che, tutto sommato, si trattava «solo di un pezzo di borbottio ritmico» (just a piece of rhytmical grumbling). Non così accadeva, invece, con una più breve composizione, certamente meno sofisticata di The Waste Land ma capace di suscitare non meno interesse, tanto da essere ancora oggi letta e recitata in occasione della festività dell’Epifania: Il viaggio dei Magi (Journey of the Magi; si veda, ad esempio: qui) e che mi accingo a commentare brevemente.

Eccone innanzi tutto il testo, nella traduzione classica di Roberto Sanesi:

“Fu un freddo avvento per noi,
proprio il tempo peggiore dell’anno
per un viaggio, per un lungo viaggio come questo:
le vie fangose e la stagione rigida,

nel cuore dell’inverno”.
E i cammelli piagati, coi piedi sanguinanti, indocili,
sdraiati nella neve che si scioglie.
Vi furono momenti in cui noi rimpiangemmo
i palazzi d’estate sui pendii, le terrazze,
e le fanciulle seriche che portano il sorbetto.
Poi i cammellieri che imprecavano e maledicevano
e disertavano, e volevano donne e liquori,
e i fuochi notturni s’estinguevano, mancavano ricoveri,
e le città ostili e i paesi nemici
ed i villaggi sporchi e tutto a caro prezzo:

ore diffidi avemmo.
Preferimmo alla fine viaggiare di notte,
dormendo a tratti,
con le voci che cantavano agli orecchi, dicendo
che questo era tutto follia.

Poi all’alba giungemmo a una valle più tiepida,
umida, sotto la linea della neve, tutta odorante di vegetazione;
con un ruscello in corsa ed un mulino ad acqua che

batteva buio,
e tre alberi contro il cielo basso,
ed un vecchio cavallo bianco al galoppo sul prato.
Poi arrivammo a una taverna con l’architrave coperta di

pampini,
sei mani ad una porta aperta a dadi monete

d’argento,

e piedi davano calci agli otri vuoti.
Ma non avemmo alcuna informazione, e così

proseguimmo
ed arrivati a sera non solo un momento troppo presto
trovammo il posto; cosa soddisfacente (voi direte).

Tutto questo fu molto tempo fa, ricordo,
e lo farei di nuovo, ma considerate
questo considerate
questo: ci trascinammo per tutta quella strada per una
Nascita o una Morte? Vi fu una Nascita,

certo,
ne avemmo prova e non avemmo dubbio. Avevo visto

nascita e morte,
ma le avevo pensate differenti; per noi questa Nascita fu
come un’aspra ed amara sofferenza, come la Morte,

la nostra morte.
Tornammo ai nostri luoghi, ai nostri Regni,
ma ormai non più tranquilli, nelle antiche leggi,
fra un popolo straniero che è rimasto aggrappato

ai propri idoli.
Io sarei lieto di un’altra morte.

Il viaggio dei Magi è uno dei quattro Ariel Poems (1936), volumetti editi in forma di busta per lettera contenenti un quartino con una poesia e un’illustrazione, in questo caso, di E. McKnight Kauffer, composto nello stesso anno della conversione e, dunque, ispirato dallo zelo e dall’entusiasmo della nuova fede, partendo da un sermone del 1622 del predicatore Lancelot Andrewes (1555-1626) sul «cuore dell’inverno» (the very dead of winter): uno spunto che Eliot trasfigura da par suo, come del resto aveva già mostrato di saper fare con The Waste Land, utilizzando sapientemente descrizioni dei paesaggi, dall’Anabasi di Senofonte (430/425 a.C. circa-355 a.C.) fino al sofisticato scrittore francese Saint-John Perse (1887-1975).

Il protagonista del poemetto è uno dei Magi, appartenente dunque al mondo pre-cristiano (the old dispensation) che, anche se ha visto il Bambino, sarebbe «felice di avere un’altra morte», perché per lui la Sua nascita è «dura e amara agonia». Il vecchio ordine, infatti, anche se ancora visibile, è finito ma quello nuovo, tuttavia, ancora stenta ad emergere: un buon poemetto, tutto sommato, di ispirazione religiosa, dunque, certamente non all’altezza dei successivi Mercoledì delle ceneri (Ash Wednesday, 1927-1930) e Quattro quartetti (Four Quartets, 1941).

A Il viaggio dei Magi Robert Crawford ha riservato preziose pagine di commento nel secondo volume della sua monumentale biografia dedicata a Eliot (Eliot after «The Waste Land», 2022). Secondo Crawford, mentre Eliot nella stessa The Waste Land aveva dipinto morte e rinascita come strettamente intrecciate, in termini assai vicini al buddismo, secondo il protagonista de Il viaggio dei Magi il binomio nascita e morte, pur così simili tra loro, può essere risolto solo da un’«altra morte», e cioè la sua. Che la nascita evochi direttamente la morte può sembrare una lettura insolita, per non dire stravagante, della festa dell’Epifania mentre, in realtà, Il viaggio dei Magi di Eliot esprime un’antica verità cristiana e cioè che «Tra incarnazione e croce non si può che parlare di identificazionechi dice incarnazione, dice croce», diceva il teologo H. U. von Balthasar. Si pensi, ad esempio, ai mosaici delle Storie della Vergine realizzati da Iacopo Turriti nel catino absidale della basilica di Santa Maria Maggiore a Roma (1295-1296), in cui il Bambino è avvolto in fasce che ricordano molto da vicino le bende di Gesù nel sepolcro, per ricordarci che la vera vita è nella congiunzione del tempo con l’eternità.

 


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