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di Alberto Strumia
Domenica XXI del Tempo Ordinario (Anno A)
(Is 22,19-23; Sal 137; Rm 11,33-36; Mt 16,13-20)
Se vogliamo applicare il Vangelo di questa domenica alla situazione attuale siamo, quasi spontaneamente, condotti a fare i conti con una “parola” che descrive una “realtà” che oggi ci è divenuta familiare, non solo nel mondo extra-ecclesiale, ma anche – dolorosamente – nella Chiesa. Ed è la parola “relativismo”.
Alla domanda di Gesù: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?», le risposte sono le più varie e arbitrarie. Ognuno ha la sua soggettiva concezione di Cristo. «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti». Dopo duemila anni di cristianesimo sembra che siamo ritornati a questa stessa situazione, all’azzeramento della fede.
C’è però una grave, per non dire tragica, differenza. Ed è il comportamento di Pietro, che allora senza ombra di dubbi e di incertezze, dichiarò quella che da quel momento sarebbe stata riconosciuta per più di due milleni, la “vera fede cattolica”. «Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”». E meritò, in forza questa risposta che eliminava ogni relativismo in quella che sarebbe stata la futura Chiesa di Cristo, di ricevere il mandato unico di reggerla e governarla, che da quel momento in poi sarebbe stato chiamato a partire dal suo nome, il “mandato petrino”. «E io a te dico: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa”». Un mandato che poggia tuttora sulla professione di fede del “primo Pietro” e non tanto su quella dei suoi successori che ne ereditano l’autorità, per elezione, nel conclave. Anche se uno di loro rinnegasse quella professione di fede – come tra l’altro proprio quello stesso “primo Pietro” ebbe a rinnegarla («Non conosco quell’uomo», Mt 26,72) – quel mandato rimarrebbe intatto, perché garantito in ultima istanza da Cristo stesso, da Dio stesso («A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli»).
Non possiamo negare che molte delle ambiguità presenti nella Chiesa di oggi, nelle parole dei suoi pastori di ogni ordine e grado, delle formule di certi documenti come quello di Abu Dhabi, siano una riaffermazione del “relativismo” sull’identità di Cristo che contraddicono sia quella professione di fede del “primo Pietro”, che la fede della Chiesa espressa in tutta la sua storia bimillenaria. Queste “nuove formulazioni” somigliano più alle parole del rinnegamento del “primo Pietro” che alla sua precedente professione di fede. Dire che «il pluralismo e le diversità di religione […] sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani», è come negare che «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» e affermare che tutti gli altri fondatori di religioni sono equivalenti a Cristo, e quindi “sono tutti figli del Dio vivente” allo stesso modo, o che Cristo non lo è come non lo sono loro. È come dire «non conosco quell’uomo» che, per più di duemila anni la Chiesa ha conosciuto come «il Figlio del Dio vivente».
Che fare, allora? Al tempo del “primo Pietro”, stando alla narrazione dei Vangeli, lo sentirono in più persone dire quelle parole di rinnegamento, in risposta a una serva: «Ed egli negò davanti a tutti: “Non capisco che cosa tu voglia dire”» (Mt 26,70). Non sappiamo se tra quei presenti ci fosse anche qualcuno dei discepoli di Gesù che lo avevano sentito, professare precedentemente la fede in Cristo. Certamente, se qualcuno dei discepoli fu presente, dovette rimanere disorientato e scandalizzato non meno di come possono esserlo molti credenti di oggi.
Ma dopo un breve intervallo di tempo, anzi subito un gallo cantò («E subito un gallo cantò»). Forse quei discepoli – se ve ne furono – che sentirono con le proprie orecchie il rinnegamento di Pietro, non ebbero neppure il tempo di dire una preghiera per affidarsi a Dio, in quel momento di confusione quasi disperata, perché quel subito si realizzò davvero in un attimo e forse loro stessi poterono vedere Pietro scoppiare in quelle amare lacrime di pentimento che furono la salvezza di quella che sarebbe stata, nei secoli futuri, la Chiesa («E uscito all’aperto, pianse amaramente», Mt 26,75).
A noi, discepoli e pastori fedeli a Cristo, dei nostri giorni quel subito è stato “dilatato nel tempo”: questo è causa di tristezza, angoscia, impazienza, dolore e fatica, assumendo i caratteri di una grande prova della fede. Ma la dilatazione nel tempo di questo subito, a differenza di quanto accadde ai tempi del “primo Pietro” ci lascia almeno il tempo di pregare, per chiedere il pentimento e invocare le lacrime amare, oggi più che mai necessarie per la Salvezza della fede di molti nella Chiesa. Perché, il “gallo” che canterà, questa volta, in maniera convincente per gli erranti, dovrà essere Cristo stesso, con un suo intervento inequivocabile e diretto nella storia, per mezzo della Sua Santissima Madre, la Vergine Maria. Un canto che dovrà svegliare la Chiesa e l’umanità intera, facendo aprire gli occhi alla nuova luce della Verità, come in un nuovo mattino.
Si tratta di un intervento diretto di Cristo, che porterà una sconfitta visibile di Satana, che è stato promesso dal Signore stesso, proprio nel momento dell’affidamento del mandato al “primo Pietro” che non potrà essere compromesso neppure dal suo rinnegamento (“apostasia”): «le potenze degli inferi non prevarranno su di essa».
Tutti gli altri “poteri” civili e religiosi decadranno dall’apparente parità con Cristo che il relativismo di oggi vuole per loro : «Ti toglierò la carica, ti rovescerò dal tuo posto» (prima lettura) e l’unicità della Signoria di Cristo Redentore dovrà diventare un’evidenza per tutti, tanto che per negarla ci si dovrà accanire fino a scegliere l’inferno: «Poiché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli» (seconda lettura).
Ma, per ora, tutto rimane in qualche modo ancora sotto silenzio, nascosto in una sorta di nuovo “segreto messianico”: «ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che Egli era il Cristo», perché solo tra loro, discepoli fedeli, sarebbe stato comprensibile ciò che Lui veramente è. Non accade forse così anche a noi?
Come Maria, la madre di Dio, anche noi siamo chiamati, per ora a custodire tutto ciò nel nostro cuore («Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore», Lc 2,19).
Fonte: albertostrumia.it
Alberto Strumia, sacerdote, teologo, già docente ordinario di fisica-matematica presso le università di Bologna e Bari.
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