Pilato e Gesù

 

 

di Gianni Silvestri

 

La giustizia è una grande aspirazione umana, perché sembra l’argine al sopruso, alla violenza, all’insicurezza della vita (Ulpiano ricordava che consiste nel riconoscere “a ciascuno il suo”, mentre per la tradizione ebraica e cristiana giusto invece è Colui che segue la legge del Signore, prima di ogni altra).
In ogni caso la aspirazione alla Giustizia ha bisogno di vari strumenti per attuarsi, tra i quali la legge (“uguale per tutti” ricordavano i romani, scrivendolo nel grande foro al Palatino) ed il processo, quale momento della sua applicazione al caso concreto.

Se il mondo greco ha lasciato all’umanità l’uso della ragione nelle sua principali esplicazioni (filosofiche, geometriche, artistiche ecc), il mondo romano ha lasciato in eredità la capacità di organizzazione (logistica, militare, sociale, giuridica).
I romani non solo riuscivano a conquistare militarmente popoli e nazioni, non solo li organizzavano ordinatamente (dalle strade agli acquedotti), ma riuscivano ad ordinare le società mediante la legge, il processo, l’uso coerente della forza, ove necessario.
Questa eredità è testimoniata da un enorme apparato legislativo e giurisprudenziale (pensiamo al “Corpus Iuris civilis di Giustiniano) ancor oggi fonte di ispirazione per gran parte delle nazioni (meno nei paesi anglofoni, di Common law).

Ma non bastano gli strumenti della legge e del processo per realizzare o conseguire l’aspirazione alla Giustizia, quasi che le sole norme – e le conseguenti tecniche – possano fare a meno dello stesso uomo e del suo comportamento concreto, sia nella preliminare fase del rispetto volontario della legge, sia nella successiva fase in cui, con un altro uomo, si determina il rispetto coattivo della norma violata. E’ l’uomo quindi il fulcro su cui si poggia e ruota la legge, il processo e la stessa realizzazione della Giustizia.

Queste premesse sono il minimo indispensabile per poter iniziare a riflettere sul principale processo che l’uomo ha realizzato nella storia: quello ad un DIO, sia pur nelle fattezze di un altro uomo, (che, anzi, tutto appariva fuorché una divinità).
E stiamo parlando di un processo attuato dal principale ed evoluto sistema giudiziario esistente a quel tempo, con il quale i romani amministravano la giustizia nel loro immenso impero, assicurando a tutti i popoli il rispetto delle regole poste a base della convivenza e dello sviluppo sociale.

Vediamone alcuni preliminari caratteri principali della loro azione:
A) Un sistema politico lungimirante.
I romani sapevano di dover evitare di essere percepiti come oppressori e quindi si mostravano principalmente quali alleati, assicurando ai popoli conquistati una difesa dai loro nemici, una organizzazione logistica e sociale di prim’ordine. L’alleanza diveniva fonte di benefici reciproci, tanto che da schiavi tanti popoli riacquistavano la libertà e persino la cittadinanza romana.
B) Una legislazione pragmatica ed adattabile
I romani ben sapevano che per amministrare tanti popoli, bisognava tener presente le loro religioni, tradizioni, usi e costumi per poter difendere e rafforzare gli aspetti positivi di ogni identità ed un’organizzazione sociale ordinata e capace di prevenire conflitti.
La “PAX ROMANA” era quindi assicurata da un sapiente mix di azione politica e normativa, rispettosa – per quanto possibile – delle condizioni dei popoli conquistati e compatibile con gli interessi di Roma. E’ questo uno dei motivi per cui i romani non abrogavano le legislazioni locali, ma le innervavano con le principali norme del loro “ius gentium”,(quella parte specifica dedicata ai rapporti con altri popoli).
C)  La presenza romana nella Palestina.
Roma era ben consapevole della unicità del popolo ebreo, unico all’epoca ad essere monoteista, a venerare un solo DIO, senza farsi influenzare da tradizioni religiose e culturali ben superiori  e politeiste come quelle degli egizi, dei greci e degli stessi romani. La “irriducibilità” morale e religiosa del popolo ebreo era ben percepita e gestita, lasciando ad esso le proprie leggi, tradizioni ed autorità religiose a condizione che non confliggessero con il riconoscimento della supremazia romana (che si riservava – oltre al dovuto tributo – lo “ius gladii”, la massima pena, proprio per sottolineare la sua autorità di ultima istanza).caifa

Passando ad analizzare il processo a Gesù, giova evidenziare che il (primo) processo, ad opera dei propri connazionali, è stato meno garantista di quello del tribunale straniero di Roma.
Ed infatti:
1)- Gesù viene arrestato senza la contestazione di un’accusa. Anzi, proprio nella fase dell’arresto si verifica un fatto eclatante, che avrebbe dovuto far cadere ogni accusa: Il vangelo di Luca ricorda che uno dei presenti colpì con una spada il servo del sommo sacerdote (non uno qualsiasi..) staccandogli l’orecchio. Orbene Gesù non solo chiede “ai suoi” di rinfoderare le spade, ma compie davanti a tutti un miracolo, riattaccando l’orecchio al servo. Nemmeno un prodigio che mostra la soprannaturalità del caso, è sufficiente per far cadere una contestazione ed un arresto ingiustificati.
2)- Gesù non ha il tempo di preparare una sua difesa, in quanto il giudizio inizia poco dopo il suo arresto (a prima mattina, vista la necessità poi di recarsi da Pilato).
3) -Gesù viene processato senza una minima ipotesi accusatoria (tanto che i sommi sacerdoti cercavano, sul momento testimonianze non contraddittorie per poterlo condannare).
4)- Gesù non ha il minimo diritto di difesa, non solo con qualcuno che lo rappresenti, ma anzi senza poter parlare per difendersi nemmeno in prima persona (la prima volta che prende la parola viene colpito duramente da una guardia)
5)- Gesù non ha avuto diritto “ad un giudice terzo”, (oggi ben distinto dal PM, ma viene condannato direttamente da chi lo accusa.
6)- Gesù non ha diritto al “Giudice naturale”, ma anche il collegio Giudicante viene manipolato (tanti del sinedrio non sono avvisati);
7)- Nonostante tutto questo il (primo) processo sembra in stallo per la contraddittorietà dei testimoni ed è solo Gesù a volerlo/poterlo definire mediante la sua confessione-testimonianza di essere figlio di Dio. (se fosse rimasto zitto, nessun capo di accusa ed imputazione avrebbe retto ad una minima istruttoria, o non ci sarebbe stata condanna a morte, – non prevista per il Messia – ritenuto dagli ebrei un semplice uomo, inviato da Dio).
8) Un processo quindi in esplicita violazioni di ogni norma di ragionevolezza e difesa, prescritta persino a quel tempo per i cittadini Romani, (come dimostra il diverso processo a S. Paolo che, in quanto “cives romanus”, invoca appunto l’Imperatore come suo Giudice naturale, chiedendo un processo a Roma in cui sapeva di poter essere difeso).
9) Nel processo a Gesù la condanna sembra quindi già prestabilita e predeterminata: la morte di questo profeta, dichiaratosi Dio.
Tale condanna sembra pronunciata non solo per punire un reato,(si trattava di una bestemmia, di un’eresia di carattere religioso), ma soprattutto per una opportunità di natura politica.
10) Nel caso di Gesù riviviamo sin dall’antichità il caso di un processo politico, un uso appunto politico della giustizia.
Egli infatti era divenuto pericoloso per la stessa Autorità del Sinedrio soprattutto dopo la resurrezione di Lazzaro avvenuta a Betania, a pochi chilometri da Gerusalemme e pochi giorni prima della Pasqua (e del processo che stiamo analizzando).

Una resurrezione non solo umanamente inaspettata anzi inimmaginabile, ma giuridicamente ineccepibile: avvenuta alla presenza di tanti testimoni (Lazzaro e le loro sorelle era una famiglia nota e benestante) e ben a 4 giorni dalla morte (il tempo rabbinico chiesto per garantire l’assenza di una morte apparente e la certezza medico-legale del decesso): “già emana cattivo odore” precisa la sorella.

I vangeli precisano che, dopo l’episodio, tanti Giudei credettero a Gesù (e vorrei vedere il contrario) e non più alla autorità giuridico-religiosa del popolo ebreo, rappresentata dai sommi sacerdoti e dal Sinedrio.

11) Ma proprio perché l’esito del giudizio era predeterminato, non bastava una condanna minore qualsiasi (imprigionamento, pene corporali, ecc.), bisognava rivolgersi ai romani per poter mettere a morte questo profeta dai tratti inquietanti, che compiva atti straordinari tali da farlo considerare, dal popolo festante al suo arrivo in Gerusalemme, come il Messia tanto atteso.
Ed ecco che entra in gioco l’Autorità romana nella gestione del caso e del conseguente processo “di seconda istanza”.(il tutto comunque svolto nella mezza giornata del 6 aprile 31, secondo la più accreditata datazione).

Mi ha sempre colpito la “duttilità e saggezza politica” dei romani, tale esercitata in loco anche dal loro procuratore Pilato.

Egli mostra da subito una serie di rispettose “concessioni” ai poteri dei suoi sottoposti.
– Scende lui dai propri appartamenti del pretorio (probabilmente presso la Fortezza Antonia), in quanto gli stessi sacerdoti non possono accedere agli usuali luoghi di amministrazione della giustizia, senza contaminarsi;
– non contesta eventuali illegittimità del processo appena svolto nella mattinata, ma interroga di persona Gesù.
E Gesù, interrogato, dopo un primo silenzio, risponde per dar testimonianza alla Verità (quid est veritas? Risponde il mondo, ieri come oggi). Ma Pilato lo riconosce innocente (con un ardito -quanto improponibile – parallelismo, oggi diremmo che il GIP non avrebbe nemmeno chiesto il rinvio a giudizio, per mancanza dei minimi indizi di colpevolezza).
Luca nel suo Vangelo, indica un’ulteriore raffinatezza politica di Pilato che invia Gesù ad Erode (tetrarca di Galilea) per farlo giudicare da Lui che, invece, non trova – evidentemente – elemento di condanna tanto da rimandarlo a Pilato. L’Autorità civile sia ebrea che romana non trova colpa nell’imputato a differenza dell’autorità politico-religiosa del Sinedrio. (Luca osserva che da allora Pilato ed Erode divennero amici).
– Pilato mostra ancora una grande abilità diplomatica in quanto – approfittando di tradizioni del popolo ebreo – “gioca la carta di Barabba” mostrando di voler difendere l’innocente Gesù, ma la folla – sobillata – insiste e rumoreggia e ne chiede la crocifissione.
-Pilato ancora una volta proclama l’innocenza di Gesù affermando di volerlo far flagellare per poi liberarlo.

pilato 2A fronte dei tumulti crescenti, (ed alle accuse nei suoi confronti di apparire “nemico di Cesare”), Pilato sceglie di non rischiare né per l’ordine pubblico, né per la sua carriera.
Il processo torna ad essere deciso sulla base della opportunità politica, dopo che giuridicamente era terminato con una triplice  pronuncia di innocenza ed assoluzione (dopo il primo interrogatorio, con il tentativo di farlo liberare al posto di Barabba, contestualmente alla decisione di flagellazione, e senza contare la mancata condanna da parte di Erode).
Ecco la fine di un processo nato senza accusa e terminato senza l’accertamento di alcun reato da parte dei romani; ecco un processo in cui si rinuncia consapevolmente a far giustizia (tanto che il Giudice, “se ne lava le mani”),  ma si arriva alla pronuncia di una condanna basata su considerazioni di opportunità politica (e per una ipotesi di reato – Re dei Giudei – che Gesù aveva contestato “sono re, ma non di questo mondo”).

Ma ben altre erano le preoccupazioni di un funzionario che amministrava la giustizia per conto dell’imperatore (e non “in nome del popolo” come oggi si esprime un giudice terzo, autonomo dal potere politico).

Queste alcune sommarie considerazioni, con tutti i limiti di una veloce ricostruzione, su un “processo compromesso”, sia come modalità di svolgimento della fase istruttoria (addirittura con proposta di scambio “di prigionieri”), sia come giudizio sull’esito finale, frutto di considerazioni non giuridiche ma di opportunità, appunto di compromesso, tra varie istanze ed esigenze.
Queste considerazioni – volutamente “orizzontali” e prive di riferimenti al Figlio di DIO – ci fanno riflettere sia sul limite della giustizia umana, troppo spesso frutto di compromessi o vittima di “interessi superiori” (oggi si parla di “giustizia politica” o “ad orologeria”), sia sulla necessità di una giustizia che non pensi ad accontentare le folle (oggi l’opinione pubblica) in quanto la massa continuerà a scegliere sempre il Barabba di turno. Anche per questo i cristiani devono avere a fondamento della propria giustizia non le leggi umane, o il consenso sociale della folla, ma la logica del Vangelo, memori del Suo avvertimento: “Se la vostra Giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli”.

E’ questo il vero processo a cui guardare, è questa l’unica vera sentenza che conta e che non sarà soggetta ad alcuna impugnazione, ed avrà una esecuzione eterna. Ma questo non ci blocchi terrorizzati, perché sarà pronunciata questa volta non da un Giudice terzo, ma da un Padre benevolo, che – come ricordato a Santa Faustina – userà la sua Giustizia solo a chi avrà tenacemente rifiutato la sua misericordia.

In pace, per la Pasqua 2020

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