di Mattia Spanò
La risposta, amico mio, è persa nel vento, è persa nel vento. In questi giorni si è parlato molto – ma in quali circoli ristretti? – dei nuovi Dubia formulati da cinque cardinali, e della risposta del papa messa a punto, si dice, dal nuovo prefetto della Dottrina della Fede, Victor Manuel Fernandez. Non senza, com’è ovvio, l’approvazione del papa.
Zen, Sarah e Sandoval hanno preso il posto degli scomparsi Caffarra e Meisner, mentre Burke e Brandmüller avevano già espresso i Dubia del 2016.
Al sottoscritto sono tornati in mente i versi della canzone più nota di Bob Dylan, malamente tradotti la risposta è persa nel vento. Il verbo inglese to blow significa soffiare. La traduzione corretta è: la risposta sta soffiando nel vento. Oppure: il vento sta sussurrando la risposta. Per esigenze eufoniche e di metrica è stata resa con “perduta”. Nella Bibbia il vento, la brezza leggera che finalmente accarezza il profeta Elia, è dove si trova Dio.
“Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna. Ed ecco, sentì una voce che gli diceva: «Che fai qui, Elia?». Egli rispose: «Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita” (I Re, 19, 12-14).
Elia capisce che Dio è nel vento, si copre il capo ed esce dalla caverna dove si era nascosto. Non è un buon momento: il testo è molto chiaro. L’uscita dalla caverna – parziale: si ferma all’ingresso – alla luce è un concetto platonico, come descritto nel Libro VII de La Repubblica: gli uomini – i fuggiaschi, coloro che nella caverna si sono liberati dalle catene – indicano agli altri la via della luce e vengono uccisi da coloro che sono nella penombra – lo Sheol, gli inferi ebraici. È fortemente probabile che l’influenza platonica riecheggi nella traduzione dei Settanta di epoca alessandrina, investendo anche questo brano del Libro dei Re.
Perché Elia si copre il volto? Si è nascosto come Caino in una grotta, come Adamo si è coperto per la vergogna.
Per gli antichi, coprirsi il capo era segno di separazione dal mondo, atto che metteva l’uomo a tu per tu con Dio. Un confronto enormemente impari.
Seguendo la suggestione platonica, l’uomo si copre per non avere gli occhi bruciati dall’insostenibile luce divina. È San Paolo che sancisce l’obbligo di pregare e istruire i fratelli a capo scoperto per “non disonorare Cristo” (I Corinzi). Perché Paolo sovverte l’uso antico? Forse perché la luce, la brezza leggera si sono fatte carne viva in Cristo. Dio si è “svelato”, “rivelato”.
La canzone di Bob Dylan, per quanto da una prospettiva che prescinde dalla Rivelazione – Dylan è un ebreo convertito al cattolicesimo molti anni dopo averla composta – è assai meno disperata di quanto la traduzione italiana suggerisca.
In qualche modo essa apre le porte anche alla Rivelazione, sia personale che storica. La necessità di conoscere Dio è connaturata all’uomo di ogni tempo. La conoscenza è sempre una ri-conoscenza.
Ma lo è nella misura in cui l’uomo si converte, cioè si rivolge a Dio carico della sua natura umana. Non esiste possibilità che all’uomo sia negato il rapporto col divino, a meno che naturalmente non sia l’uomo stesso a negarlo.
Arrivati a questo punto non mi resta che rendere ragione di questa digressione. In altre parole: ha senso porre domande al papa? Ha senso porre queste domande in questo contesto? Ritengo di no.
In un’ottica solida, alla luce delle Scritture e della Rivelazione – nel complesso dell’Antico e del Nuovo Testamento – questo genere di domande è oscuro.
Non tutte le domande hanno scopo rischiarante. Alcune pescano dal caos, offrendo al suo artefice l’occasione di rendere l’oscurità più impenetrabile. Cosa che infatti è avvenuta con rigore ferreo. Basta leggere le risposte del papa per prendere contatto col fatto.
Pensavano i signori cardinali di stanare Bergoglio rendendo evidente a tutti la sua eterodossia? E una volta dimostrata la quale, cosa pensano di fare? Perché mentre loro “dubiano”, papa Francesco procede come un treno senza macchinista, come accade in Runaway Train di Andrei Konchalovski.
Nell’ordine soprannaturale un pontefice è un agente del divino. Di un divino rivelato che non può più essere immaginato. Egli non ha il potere di cambiare un singolo iota della legge. Ventilare l’ipotesi che l’abbia fatto, o che difetti di chiarezza rispetto alla legge, è già di per sé una destituzione, un misconoscimento dell’autorità.
Nella realtà del Vicario di Cristo – detta altrimenti: nella regalità, nella sovranità del Vicario di Cristo – non esiste una dimensione storica. Esiste solo quella delle stelle fisse. Pertanto, interrogare il papa sulle proprie opinioni circa la sua fede, vale a dire circa ciò che lui pensa essere la fede, significa ridurre la fede ad una dimensione personale. In fin dei conti, significa corroborare l’idea che la fede sia un prodotto di una sensibilità culturale.
Questo mi sembra l’errore cruciale della modernità, che è mondanità nella sua forma più spinta. Ogni uomo avrebbe riverberi dello Spirito di Dio. Ogni uomo sarebbe un profeta. Ogni uomo avrebbe a capacità di giungere a Dio per vie uniche, originali, personali.
È una falsità assoluta, per giustificare la quale non di rado gli sherpa di papa Francesco, al cospetto delle sue intemerate più contorte, parlano di “profezia”, “profetico”, “profeta”. Intendendo con questo che il profeta sia colui che va oltre la legge di Dio per volontà di Dio stesso, in base a presunte “ispirazioni” una più scombiccherata dell’altra. L’aver reso la fede un fatto personale, un’eco della rivoluzione protestante, ha letteralmente ucciso la spiritualità nell’uomo. È ora di dirlo senza infingimenti.
L’idea che esistano uomini o persino papi titolari di un’aura profetica che li rende capaci di oltrepassare la legge divina è falso e assurdo. Dio non pone nulla oltre la Sua legge, a parte Sé stesso. Ma la legge è il perimetro dell’uomo, al quale per natura non è consentito derogare in nessuna forma. Non esiste alcun innesto nella natura divina che non sia operato da Dio stesso, ed esclusivamente da Lui. Il resto sono bubbole, storielle che si raccontano per gratificare ego debosciati.
Avere fede significa semplicemente aderire con la volontà e la ragione a verità rivelate, che quelle sono. Che alcuni – molto pochi – sviluppino una sensibilità particolare e si rendano testimoni efficaci di queste verità nel loro tempo è un fatto auspicabile, non è la regola.
Io posso anche non giustificare la Presenza Reale di Cristo nelle Sacre Specie, senza che questo tolga o aggiunga nulla alla verità della cosa. Mi basta crederlo, nel senso che per vivere non mi serve altro. Per morire vanno benissimo, sono validissime tutte le proposte diverse, sia nell’insieme che prese singolarmente. Per morire mi basta “morire bene”: per gli antichi la vita non era altro che prepararsi ad una morte virile. Per morire mi bastano Socrate o Seneca, non mi serve Cristo.
Sottovoce: anche Seneca – cotidie morimur, ogni giorno moriamo: la saggezza è non perdere la ragione di fronte alla contrarietà della vita che imbarca acqua come un vecchio battello – si colloca ad una distanza siderale da un papa ilare che insegna che noi saremmo “il sogno d’amore di Dio”. Horresco.
Nel momento in cui un pontefice mi dicesse che Cristo si è incarnato in un hamburger, suggerendo a qualche catena di fast-food di chiamare i propri panini “Gesù” per avvicinarsi alla sensibilità del tempo, io non gli rivolgerei alcuna richiesta di chiarimento. Avrei molto chiaro che non ha alcun senso farlo, e dunque non può avere alcuno scopo pratico, mettermi a discutere con lui sul punto.
Non sono così ingenuo o massimalista da non capire la funzione politica e immanente dei Dubia, ma ripeto: chiarito che non c’è l’intenzione di chiarire nulla, che si fa?
Con pazienza certosina, tornerei ad insegnare il Vangelo sine glossa, il catechismo sine glossa, con semplicità e chiarezza. Prima o poi gli uomini di annoieranno di essere assecondati in tutte le loro cialtronate, e torneranno a casa alla luce delle verità di sempre. Fuori dalla caverna, dove chi ha abbandonato Dio cerca di ucciderli.
Dio così risponde ad Elia:
“Su, ritorna sui tuoi passi verso il deserto di Damasco; giunto là, ungerai Hazaèl come re di Aram. Poi ungerai Ieu, figlio di Nimsi, come re di Israele e ungerai Eliseo figlio di Safàt, di Abel-Mecola, come profeta al tuo posto”.
Come si può notare in Dio non c’è il minimo riferimento ai sentimenti feriti di Elia, né vediamo la più piccola traccia di consolazione o gratifica del Suo abbacchiatissimo profeta. Anzi Dio lo congeda, ordinandogli di andare verso il “deserto di Damasco” per ungere Eliseo al suo posto. Oggi diremmo che lo licenzia, e senza nemmeno ringraziarlo per il lavoro svolto. Anzi gli appioppa le ultime cose da fare prima di levare il disturbo.
Dio se ne infischia di come ci sentiamo, di cosa crediamo di sapere o degli sforzi che facciamo per chiarire ciò che non può essere chiarito perché è già chiaro. Ha separato le tenebre dalla luce, ha mandato Suo Figlio e questo è quanto. A volte è buona cosa ricordarsene.
Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente le opinioni del responsabile di questo blog. I contributi pubblicati su questo blog hanno il solo scopo di alimentare un civile e amichevole confronto volto ad approfondire la realtà.
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Dice lo scrivente: “Egli (il Papa) non ha il potere di cambiare un singolo iota della legge. Ventilare l’ipotesi che l’abbia fatto, o che difetti di chiarezza rispetto alla legge, è già di per sé una destituzione, un misconoscimento dell’autorità”.
Nella figura di colui che veste di bianco esistono due persone: il Papa, la persona privata; Pietro e Simone. Una dicotomia.
I Dubia non sono rivolti al Papa in quanto Papa, che se fa il Papa è infallibile per dogma di fede. I Dubia sono rivolti alla persona privata che tentata potrebbe decidere di cambiare anche un singolo iota. I Dubia quindi sono rivolti alla persona privata per spingerla, per carità, a fare il Papa.
Papa Onorio cedette alla eresia monotelita, come persona privata; fu anatemizzato dal successivo Concilio di Costantinopoli dopo la sua morte; l’anatema e la condanna furono confermate dal suo successore.
Il Cristo insegna: “Simone, Simone, ecco: Satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli” . E Simone: “E Pietro gli disse: “Signore, con te sono pronto ad andare anche in prigione e alla morte”. Gli rispose: “Pietro, io ti dico: oggi il gallo non canterà prima che tu, per tre volte, abbia negato di conoscermi”.
Quindi preghiamo per chi è Papa. E preghiamo per il Papa.
Leggo l’articolo e leggo il commentatore Emanuele e me ne viene questa “associazione” di idee o riflessione personale, che dir si voglia, traendola da F. Prat, gesuita biblista che scrisse “La teologia di san Paolo”, opera di grande rilievo.
Cito:
“Erano avvenuti a Corinto due fatti scandalosi dei quali si era resa complice tutta la comunità, con la sua troppo tollerante indulgenza.
Venere, patrona di Corinto, vi era onorata con un culto in cui l’impudicizia dell’Afrodite greca si alleava con le turpitudini dell’Astarte orientale. Nel suo tempio mille hieroduli apertamente facevano traffico del proprio corpo, a suo profitto e onore: la prostituzione sacra era innalzata all’altezza di un sacerdozio. I costumi pubblici erano per conseguenza anch’essi di una deplorevole rilassatezza, e vivere alla corinzia era, anche per i pagani, un’ignominia.
In quell’atmosfera avvelenata, alcuni cristiani avevano subito il contagio, e uno di essi viveva in concubinato con sua matrigna, certamente vedova o divorziata.
Si parla di fornicazione tra voi, e di tale fornicazione quale neppure tra i Gentili, talmente che uno ritenga la moglie del proprio padre. E voi siete gonfi: e non piuttosto avete pianto, affinché fosse tolto di mezzo a voi chi ha fatto tal cosa! (1 Cor 5,1-2).
Non si tratta di commercio passeggero, ma di una unione stabile, come quella di Erode Antipa con Erodiade, moglie del suo fratello Filippo. La legge romana, così larga in materia di matrimoni, proibiva tali unioni, e gli esempi che la storia profana ne poteva offrire, erano riprovati dal sentimento pubblico, d’accordo in questo con l’istinto naturale. Ora i fedeli di Corinto non sembravano commuoversene troppo: continuavano a frequentare il colpevole e lo ammettevano nelle loro assemblee. Forse si lasciavano illudere da questa falsa massima, che il battesimo fa del cristiano un essere nuovo, libero da tutti i suoi vincoli antecedenti ed esente da qualsiasi proibizione legale.
Così agli occhi dei rabbini la conversione al giudaismo rompeva tutte le relazioni di parentela, e Maimonide insegna espressamente che è lecito al proselito sposare la sua matrigna.
L’indignazione di Paolo fu al colmo. Era sua pratica costante il sottoporre tutti gli scandalosi a una specie di scomunica la quale portava con sé la cessazione anche delle relazioni di convenienza e di civiltà. Egli aveva minacciato questa pena agli arruffoni e agli scioperati di Tessalonica, se non avessero obbedito ai suoi ordini; più tardi imporrà a Tito di evitare l’eretico ostinato, cioè il fautore di divisioni e di disordini. Nella lettera ai Corinzi, che andò perduta, ingiungeva loro espressamente di troncare ogni relazione con gli impudichi (cfr 2 Ts 3,14). Qual è dunque ora il suo dolore nel vedere che tollerano l’infame! Presto! si allontani l’incestuoso, affinché non siano contaminati da lui. Si era, a quanto pare, verso la Pasqua, e veniva molto a proposito questa esortazione: Non sapete che un poco di lievito fa fermentare tutto l’impasto? Togliete via il vecchio fermento, affinché siate una nuova pasta, come siete senza fermento; perché il nostro agnello pasquale Cristo è stato immolato. Solennizziamo dunque la festa non col vecchio lievito, né col lievito della malizia e della malvagità, ma con gli azzimi della purità e della verità… Togliete di mezzo a voi il cattivo (1 Cor 5,6-8).
Queste ultime parole che contengono la sentenza definitiva di Paolo, sono un’allusione al Deuteronomio (17,7) il quale stabilisce la pena di morte per certi delitti. La scomunica, specie di morte simbolica, nel Vangelo sostituisce la morte reale dell’antica Legge. Egli aveva prima pensato a una pena assai più grave e più proporzionata all’enormità del delitto.
Io però assente corporalmente, ma presente in ispirito, ho già come presente giudicato che colui il quale ha attentato tal cosa – congregati voi e il mio spirito nel nome del Signor nostro Gesù Cristo – con la potestà del Signore nostro Gesù, sia dato questo tale nelle mani di Satana per morte della carne, affinché lo spirito sia salvo nel giorno del Signore nostro Gesù Cristo (1 Cor 5,3-5).
I canonisti, desiderosi di trovare qui un esempio di scomunica maggiore secondo le forme attualmente in uso nella Chiesa, si domandano come mai Paolo abbia potuto fulminarla e dare ordine ai Corinzi di fulminarla in nome suo, senza istruzione del processo, senza citazione nè interrogatorio. Ma sono tutte questioni superflue: Paolo non pronunzia la sentenza e non impone ai Corinzi di pronunziarla; egli esprime soltanto il suo parere su la pena dovuta all’incestuoso notorio; forse insinua il castigo rigoroso che egli è risoluto di infliggere, nel caso in cui i fedeli non facessero nulla da parte loro. Per quello che lo riguarda, egli crede giusto e conveniente di abbandonare il colpevole a Satana, ma non dice quali formalità si dovrebbero osservare se si dovesse venire a tale castigo.
Questo castigo terribile evidentemente supponeva la scomunica, cioè l’esclusione della Chiesa con la privazione delle grazie e degli aiuti di cui la comunione dei santi è il canale; ma comprendeva pure qualche cosa di più spaventevole. Gli Apostoli che avevano ricevuto dal Signore IL POTERE DI INCATENARE I DEMONI, AVEVANO PURE IL POTERE DI SCATENARLI. ……
Il delinquente colpito da questa condanna più grave che la scomunica, veniva abbandonato alla vendetta dell’eterno nemico degli uomini e diventava preda e zimbello di Satana. Ma, siccome tutte le pene inflitte dalla Chiesa sono medicinali, lo scopo finale era sempre la conversione e la salvezza del peccatore. Almeno una volta nella sua vita, Paolo si servì di questo terribile potere: egli abbandonò a Satana Imeneo e Alessandro per insegnare loro a non più bestemmiare (1 Tm 1,20), o piuttosto perchè lo imparassero a loro spese quando fossero abbandonati, senza protezione e senza scampo, alla tirannia del demonio.
Con l’incestuoso di Corinto egli è meno rigoroso; si accontenta dell’esclusione del colpevole e, se per un momento ha pensato ad un castigo più severo, lo ha fatto sempre per salvare l’anima del peccatore, affliggendo la sua carne” (F. Prat, La teologia di san Paolo, parte prima, pp. 92-95).
Ora, ripetendomi, trovo ancora pertinente riproporre un versetto dagli Atti degli Apostoli (12,21 -23):
Nel giorno fissato Erode, vestito del manto regale e seduto sul podio, tenne loro un discorso. Il popolo acclamava: ”Parola di un dio e non di un uomo!”. Ma improvvisamente un angelo del Signore lo colpì, perchè non aveva dato gloria a Dio; e, ROSO DAI VERMI, spirò (una variante specifica: ”sceso dalla tribuna, ANCOR VIVO, DIVENNE PASTO DEI VERMI, e così spirò”).
Ognuno tragga le sue conclusioni – alla luce (si fa per dire) di quella odierna “prostituzione sacra innalzata all’altezza di un sacerdozio”- magari in ginocchio, alla presenza di Dio, nel Tabernacolo.