Più di cento sinodali, capitanati da mons. Erwin Kräutler, si sono riuniti a Roma il 20 ottobre per rinnovare il “Patto delle Catacombe”, una dichiarazione del 1965, divenuta la base teorica della teologia della liberazione. La nuova iniziativa si avvia a rimanere lettera morta, come la precedente.
di Silvio Brachetta
Se qualcuno pensasse che nella Chiesa le cose accadono così, a caso, spontaneamente, ingenuamente o bonariamente, avrebbe ragione a metà. Da una parte ci sono i santi, penitenti e spontanei, dall’altra i furbi, che agiscono in modo calcolato, pianificato nei minimi dettagli.
Lo spirito pauperista-orizzontale del Sinodo Amazzonico nasce molto prima del 2019 o del 2013. E nasce in un giorno preciso, di un anno preciso: il 16 novembre 1965, a Concilio Vaticano II appena concluso. Quel giorno, una quarantina di vescovi (guarda caso, molte le presenze latino-americane) si riunì nelle Catacombe di Domitilla a Roma, ufficialmente per presenziare una Eucaristia di ringraziamento: questa è la motivazione per gl’ingenui, lo specchietto per le allodole.
Il vero scopo della riunione, al contrario – il secondo fine, cioè, accuratamente nascosto alle masse – fu quello di firmare il “Patto delle Catacombe”, una sorta di manifesto clerical-progressista, in cui sono elencati tutti gli elementi, oramai tristemente noti, della «Chiesa povera per i poveri», dialogante, bonaria, filantropa e filo-socialista. Il testo ha innescato, storicamente, la nascita della teologia della liberazione e delle suggestioni pauperiste. Ma la cosa sconcertante non è l’ideologia che fonda il documento, ma il fatto che nulla di quanto scritto si sia realizzato.
Nell’elenco delle intenzione espresse nel Patto si legge, ad esempio: «Rinunciamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente negli abiti». Realtà fattuale: vescovi e cardinali non sono affatto poveri o mendicanti, né danno segni visibili di esserlo.
Altro esempio: «Cercheremo di vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di locomozione e tutto il resto che da qui discende». Realtà fattuale: vescovi e cardinali vivono ordinariamente separati dalla popolazione indigente, in edifici più che dignitosi.
E andiamo avanti: «Rifiutiamo di essere chiamati, oralmente o per scritto, con nomi e titoli che significano grandezza e potere (Eminenza, Eccellenza, Monsignore…)». Realtà fattuale: vescovi e cardinali non hanno per nulla rinunciato ai titoli di Eminenza, Eccellenza e Monsignore.
E ancora: «Opereremo in modo che i responsabili del nostro governo e dei nostri servizi pubblici decidano e attuino leggi, strutture e istituzioni sociali necessarie alla giustizia, all’uguaglianza e allo sviluppo armonico e totale dell’uomo tutto in tutti gli uomini […]». Realtà fattuale: vescovi e cardinali, per la quasi totalità, non danno alcuna importanza né alla Dottrina sociale della Chiesa né, tanto meno, ai principi non negoziabili.
L’elenco è lungo, ma non sterminato: incremento dell’evangelizzazione (ma solo a favore dei poveri), rinuncia ai beni immobili e al conto in banca (utopia), aiuti agli episcopati di nazioni povere (ma ognuno coltiva il proprio orticello), apertura a tutti e «a qualsiasi religione» (l’unico punto, forse, giunto a realizzazione).
Nonostante, dunque, il testo sia rimasto abbondantemente lettera morta e cinquant’anni di finto pauperismo abbiano fatto crollare le vocazioni sacerdotali e il numero dei fedeli, il 20 ottobre di quest’anno più di cento sinodali si sono riuniti a Roma per rinnovare il “Patto delle Catacombe” e sostituirlo con un documento analogo: “Patto delle Catacombe per la Casa comune”.
Anche in questo caso, nulla di spontaneo, ma tutto è stato pianificato nel dettaglio. I prelati si sono riuniti più volte, a seguito di mesi e mesi di preparazione. Anche stavolta sarà redatto il solito elenco di buoni propositi, da concretizzare in data sine die. Il cristianesimo, cioè, non è più fondato sulla concretezza del presente, ma su una serie d’intenzioni astratte, posticipate in un futuro radioso a venire.
È la parola d’ordine di ogni utopia, di ogni socialismo: «avvenire». Non l’oggi, non il «dico» e «faccio» dei santi. Il modernismo si fonda invece sul procrastinare a data da destinarsi, anche perché si regge su degli assunti che forzano la realtà e cercano di trasformarla secondo le proprie fantasie.
La Chiesa «serva e povera» di Papa Giovanni XXIII non è un’utopia, perché i santi sono stati e sono servi e poveri – San Francesco docet. L’utopia è però nella pretesa di tutti i totalitarismi, che è quella di separare un principio buono e giusto e farne la norma valida per tutti. La povertà, in particolare, è un consiglio evangelico che va realizzato da ciascuno, ma a partire dalle proprie capacità e dalla vocazione personale. Nello stesso senso, lo spirito di servizio e richiesto a tutti, ma il cristiano vi deve pervenire senza forzature, secondo il proprio talento e in misura della propria fede.
Imporre la povertà come dovere per tutti, non solo è un progetto irrealizzabile, ma non è nemmeno evangelico, nel senso che il pauperismo forzato e lo spiritualismo imposto sono eresie storiche, più volte condannate dal magistero.
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I vescovi del cosiddetto terzo mondo riuniti a Roma per il concilio hanno visto il boom economico dell’Italia e si sono detti che non era giusto. E hanno deciso di volere anche per le loro popolazioni il boom economico dando il via alla disastrosa politica degli aiuti umanitari che invece di diminuire la povertà l’hanno aumentata. I paesi del boom per lavarsi la coscienza hanno aderito a questa politica esportando nei paesi cosiddetti poveri ogni genere di cose dal trattore ai tubi per i pozzi dell’acqua da piantare al centro del villaggio. Ma soprattutto hanno esportato la nostra medicina e la libertà sessuale con le conseguenze che tutti vediamo con l’incremento indiscriminato delle popolazioni pronte ad invadere chi le ha trattate da povere. Il Concilio ha fatto più danni di due guerre mondiali altro che dottrina e pastorale.