di Stefano Vespo
Seduto sui gradoni del teatro greco vedo avanzare sulla scena il corifeo che invoca Edipo, affinché abbia pietà del popolo di Tebe, funestato dalla peste.
Intorno a me, io ho i ragazzi della mia scuola. Alcuni hanno in testa i cappellini estrosi che hanno visto sulle bancarelle di Ortigia. Nel complesso, saranno elogiati per la loro educazione. Anche se dietro una coppietta di fidanzatini parlotta in continuazione. Li ho già richiamati, e la ragazza mi ha guardato con un’espressione di profonda irritazione e di sfida che promette risposte penetranti come coltellate. Meglio lasciar perdere.
Un mio alunno si lascia sfuggire una risatina: ha visto un vecchio avanzare lento sulla scena, con un bastone e il volto sollevato al cielo: “E’ Tiresia, vero professore?”. Meno male: lo ha riconosciuto, soltanto non ha potuto trattenere l’impulso ancestrale dei giovani allo scherno dei vecchi.
I giovani. Mi giro a guardarli. Se non sono distratti, quando gettano uno sguardo sulla scena hanno quasi tutti sul volto un sorrisetto tra l’ironico e il disorientato: sembrano piccoli selvaggi sottratti alla loro variopinta jungla tecnologica, che per la prima volta entrano in luogo molto antico, a cui però sono totalmente estranei, pieno di fregi, decori e immagini che non sanno se giudicare ridicoli oppure semplicemente misteriosi.
Mentre Giocasta deride gli oracoli e senza volerlo svela brutalmente la verità agli occhi di Edipo, ho improvvisamente chiara la mia posizione nel tempo, il mio ruolo in questa società: so qual è il dovere che l’età anagrafica mi impone. Quello che sto tentando di fare, e che comunque dovrò sempre tentare di fare, è riannodare un filo sottile, fragilissimo: quello tra Edipo e loro.
Questo filo è stato spezzato. Lo so. E già da molto tempo. Già teneva a stento me e i miei compagni.
Giocasta ha già compreso, prima di Edipo. Dandoci le spalle, curva, risale le scale verso il palazzo; stringendosi il ventre da cui è uscito quel parto mostruoso, la madre vorrebbe sottrarre al figlio il peso di quella sofferenza, vorrebbe sopportarla lei sola, in silenzio, dentro il suo proprio corpo. Ma Edipo è ostinato: crede ancora che la ragione possa riportare l’armonia, la pace. Invece sarà la ragione che lo precipiterà nella necessità, a cui lo legherà, e da cui non potrà più muoversi.
I miei giovani di oggi si aspettavano uno spettacolo comodo, seducente come sempre, al quale abbandonarsi passivamente. Lo spettacolo che normalmente gli viene elargito. E invece si trovano di fronte a lunghi monologhi, complessi ragionamenti, ad una scena fissa ed essenziale. Non ci sono immagini, ma semplicemente la parola. Ascoltare, comprendere, interpretare: una fatica enorme per loro, abituati ad essere ammaliati.
È vero, tuttavia, che per la prima volta nella loro vita non vengono trattati come consumatori da attirare, da cullare, da addormentare; ma come persone con le quali si vuole ragionare, a cui si pone un difficile quesito, da cui si esige una risposta.
Ecco perché si annoiano.
È lo stesso motivo per cui trovano più divertente andare in un centro commerciale, comodo, stimolante e colorato; e trovano invece noioso camminare in un centro urbano, grigio, complicato, impegnativo.
La notte è scesa e il dramma si avvia all’esito catastrofico. Edipo compare sulla scena denudato, e con il volto insanguinato mostra al mondo la più violenta delle sofferenze che un essere umano possa mai patire: la maledizione imposta da una necessità irremovibile, quella del destino. Nemmeno la morte potrà alleviare la sua pena. Egli vagherà, solo e maledetto, sopportando il peso del suo inconcepibile abisso. Non ci sono Dei disposti al perdono per lui: per lui non vi è nemmeno la possibilità di un perdono.
Ma ormai i miei alunni sono stremati. Un’inquietudine nervosa percorre le file: sta per finire, vero? Certo, siamo ormai alla fine. Solo il coro conclusivo. Si rassegnano alle ultime battute.
Dopo gli applausi, che i ragazzi vivono con enfasi liberatoria, scendiamo lentamente assieme alla folla degli altri spettatori.
Siamo già sul viale d’uscita quando una mia alunna si avvicina a me. Mi confessa che non si aspettava una cosa simile, ma che le è piaciuto. Una cosa è leggere qualche brano, in classe, un’altra è vederli recitare, le rispondo. Ma il suo stupore ha un’origine più immediata, più fisica. L’hanno colpita le voci degli attori, la loro abilità nel far vibrare le parole. L’ha colpita la potenza della parola umana, pronunciata, scaturita da un corpo, da un’esistenza.
Hai scoperto il teatro, penso tra me. Povera anima! Destinata a vivere in un’epoca in cui per venderti un telefonino ti hanno tagliato tutti i legami con il passato.
Povera anima, costretta a riscoprire tutta sola la tua umanità! Mi cammini accanto e forse non comprendi quanto sia pericoloso per te indugiare piccola e smarrita in quella strada vuota tra Edipo e i tuoi compagni.
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