Sacra famiglia

 

 

di Silvio Brachetta

 

Ci voleva il genio teologico di sant’Antonio da Padova per fare la radiografia al Natale. Questo santo ha la capacità di scarnificare la Sacra Scrittura e arrivare al midollo. È come tuffarsi nell’oceano e scendere negli abissi. Sembra non vi sia un segreto che sant’Antonio non possa cogliere tra le parole del testo: e non si smentisce neppure nel Sermo in Nativitate Domini dove, dagli eventi di Betlemme, sa trarre una pressante esortazione alla penitenza. Nel testo è assente il tono dell’angoscia e in nulla somiglia alla lamentazione veterotestamentaria. Al contrario, i concetti sono spiegati con sapienza e il lettore viene introdotto ai misteri nella purezza delle parole.

Le lacrime della penitenza

Dietro al «censimento» di tutta la terra, ordinato da Cesare Augusto, sant’Antonio vede la figura del peccatore, che descrive e fa l’elenco dei propri peccati, per confessarli e abbandonarli. Non a caso il mondo è l’«orbe», il cerchio, simile alla vita dell’uomo, che nasce dalla terra e vi ritorna. Il circolo indica che l’uomo «deve descrivere», davanti a Dio, «i peccati commessi con il cuore, con la bocca, con le azioni», nonché «i peccati di omissione e le loro circostanze». Lo stesso nome di Maria è un simbolo, che s’interpreta «mare amaro», nel senso che il penitente è colui che piange lacrime amare e cerca la confessione, per estinguere la tristezza e la contrizione del cuore. Come Maria era incinta, anche colui che piange contrito «impregna di timore l’anima, affinché concepisca e partorisca lo spirito di salvezza».

Non che Maria abbia avuto bisogno della confessione, ma si fa registrare per il censimento assieme a Giuseppe, in obbedienza ein umiltà al volere di Dio e per indicare ai peccatori la strada della salvezza. La Vergine, dunque, partorì il suo figlio unigenito, che però è chiamato «primogenito» dalla Scrittura, non perché Gesù ebbe altri fratelli di sangue, ma perché il Cristo è «il primogenito tra i morti» (Col 1, 18) e il «primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29).

Il Bambinello fu avvolto in fasce – osserva Antonio – così come le medesime fasce lo avvolsero nella tomba, dopo il supplizio della croce. Le fasce sono il simbolo dell’«innocenza battesimale»: è beato chi rimarrà avvolto in fasce fino alla fine della propria vita. E così la Sacra Famiglia, nella povertà, non avendo trovato posto nell’albergo, dovette rifugiarsi in una stalla, sulla strada – in latino «diversorium» proprio perché in essa «si arriva da diverse strade».

L’umiltà e la povertà del Bambinello

Sant’Antonio continua poi a superare il senso letterale del Vangelo e s’immerge nel senso allegorico del passo di Luca 2, 8: «C’erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte e custodivano il loro gregge». Le «veglie» dei pastori qui menzionate possono essere una similitudine delle «vigiliae», i quattro turni di guardia con cui i romani dividevano il tempo notturno. Le quattro veglie sono altrettante «stazioni», allegorie cioè della nostra nascita impura, della nostra malizia attuale, della miseria del nostro pellegrinaggio terreno e del pensiero della morte. Per la salvezza è necessario, allora, che durante le veglie i pastori (gli uomini tutti) umilino se stessi, si mortifichino, piangano e ottengano il timor di Dio. Sarà bene anche che i pastori veglino sul gregge (buoni pensieri), perché non sia rubato dal predone (il diavolo) o assalito dal lupo (la concupiscenza della carne).

Da questi atti di pentimento, sgorga la gioia per la nascita di Colui che ci salva «dalla schiavitù del diavolo e dall’ergastolo dell’inferno». Il Bambinello giace «in fasce, dentro una mangiatoia», ovvero nell’«umiltà» e nella «povertà»: i due segni che corrispondono, nell’uomo peccatore e penitente, alla «fede» e alle «opere», senza le quali si va in rovina. Gesù, inoltre, ama essere chiamato «bambino», poiché se al bambino gli fai un’ingiuria, basta portare a lui un fiore e subito si dimentica del male e corre ad abbracciarti.

Allo stesso modo, il penitente porta a Gesù il fiore della contrizione e subito Dio lo perdona. Come dice Isaia: «Il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide, il bambino metterà la sua mano nel covo del serpente velenoso» (11, 8-9). Il lattante è il Bambinello che strappa Satana, il serpente, dal cuore dell’uomo, «con la potenza della sua divinità».

Consolazione e gloria beata

Nel Sermone insomma sant’Antonio compendia l’arco intero dell’incarnazione del Cristo, che riunisce la discesa a Betlemme e la salita al Calvario. Quanto più Antonio scruta la sofferenza del Figlio di Dio, tanto più centrale si fa la vicenda del peccatore pentito, a cui è rivolto l’amore della Ss Trinità e il sacrificio del Salvatore. Il bambino è la figura del «penitente convertito», in tutto simile a Gesù. E Gesù è adombrato in Issacar, nono figlio di Giacobbe, del quale si dice: «È un asino robusto, sdraiato entro i confini. Ha visto che il riposo era bello e che la terra era ottima. Ha piegato le spalle a portare pesi» (Gn 49, 14-15). Come Issacar – dice il santo di Padova – il penitente somiglia all’«asino robusto» dell’Ecclesiastico (33, 25), a cui spettano «cibarie, bastone e soma»: ovvero il cibo umile, «il bastone della povertà,perché non insolentisca e non recalcitri» e la soma, che è «il peso dell’obbedienza affinché non si disabitui alla fatica». Ebbene, sono questi i «tre rimedi» che preparano «la medicina per il penitente».

Il Natale, dunque, prima che poesia, vuole essere medicina e cura. Gesù bambino è Messia e Dottore. Egli non si limita a somministrare la mirra del dolore, ma si fa mirra e dolore per l’uomo. E il frutto di tanto patimento non è la tristezza, né la disperazione, ma la poesia, la neve candida, il presepe, le lacrime commosse e liberatorie. I due «confini», tra i quali è sdraiato Issacar il penitente, «sono l’ingresso alla vita e l’uscita da essa, la nascita e la morte». Lo stolto impenitente, al contrario, non sta trai confini, ma se ne fugge al centro, che «è la vanità del secolo, di questo tempo», dice Antonio. Qui è tenebra. Là, tra i confini, è luce e consolazione, «riposo e gloria beata», prima ancora che il Signore ritorni.

I figli ereditano tutto dal Padre

Non solo di Gesù – qua è la sostanza del Sermone – è detto in Isaia: «E sarà chiamato ammirabile, consigliere, Dio, forte, padre del secolo futuro, principe della pace» (9, 6). Tutti questi titoli, dice sant’Antonio, sono interamente applicabili anche all’uomo, convertito e penitente. La penitenza, quindi, rende l’uomo «ammirabile», poiché «nel diligente esame e nella frequente revisione di se stesso» vede «cose meravigliose nel profondo del suo cuore», come Giobbe, ammirato da tutto il mondo per la sua pazienza. L’umiltà, poi, fa l’uomo «consigliere nelle necessità corporali e spirituali del prossimo».

All’uomo, per quanto possa sembrare sorprendente, è pure applicabile il termine «Dio», nel senso che «è chiamato “dio” solo di nome, in quanto fa le veci di Dio», come le fece Mosè, costituito «dio» del Faraone «Ecce constitui te deum Pharaonis» (Es 7, 1). Non deve stupire che all’umiltà segua la divinità. È scritto nel Salmo 81: «Io ho detto: voi siete Dei». E il Padre infatti non vuole negare nulla ai suoi figli. Neppure la divinità.

Il penitente, inoltre, è «forte nel combattere le tentazioni». Quando l’uomo si fa umile, somiglia a Sansone, che fece a pezzi il leone infuriato, come si fosse trattato di un capretto (Cf. Gdc 14, 5-6). In altre parole – spiega sant’Antonio – quando lo spirito della contrizione «investe il penitente, questi squarta lo spirito di superbia simboleggiato nel leone, e fa a pezzi lo spirito di lussuria». Il convertito è, infine, «padre del secolo futuro» e«principe della pace», al pari di Gesù Cristo. Questo accade perché il destino di chi si salva è la vita eterna, dopo essere riuscito a pacificare anche le passioni della carne.

Il presepe e lo scriba

Il santo indica in Giuseppe «il vero penitente», della stirpe del re Davide, cioè di colui che «veramente si pentì». Lo sposo di Maria accompagna sua moglie incinta, nel senso che partecipa con essa ai dolori del parto. Il peccatore pentito è simile alla partoriente di cui parla Isaia: «O Signore, abbiamo concepito, abbiamo sofferto i dolori del parto, abbiamo partorito lo Spirito di salvezza» (26, 17-18). Per questo motivo «il volto di Cristo, che verrà per il giudizio, impregna di timore l’anima, affinché concepisca e partorisca» questo Spirito altissimo.

La partoriente è nella grotta, povera e al freddo, ma non è sola. Sta muta con lo Spirito, che è una luce potente fra le stelle, ma tremula e fumigante tra gli alberi notturni. Tutto appare debole, caduco e leggero, come la neve. Tutto è bianco e non rosso come il fuoco. Tutto è freddo e anche il tempo sembra quasi congelato in una sospensione che fa pensare al sonno e alla vecchiaia. Il pastore si accosta appena appena a una porta e, senza troppo rumore, guarda l’interno da una finestra. Intravvede uno chino che scrive. E riprende la strada, assieme al suo gregge, dopo che il sole è calato ed è sorta la prima stella della sera.

 

 

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