di Miguel Cuartero Samperi
Il sacerdote gesuita José Maria Rodríguez Olaizola ha pubblicato una lettera di sostegno alla comunità LGBT in occasione del mese dedicato al cosiddetto “orgoglio gay”. Lo ha fatto sul sito sj pastoral (un progetto dei gesuiti che mira all’accompagnamento dei giovani) per mostrare affetto e vicinanza ad una comunità perseguitata e, a suo dire, “sommamente incompresa” anche all’interno della Chiesa. Il sacerdote gesuita si rammarica perché, a causa della pandemia, quest’anno non ci saranno “carrozze, sfilate e moltitudini” che manifestino a favore del diritto all’amore, ma anche per il fatto che nel 2020 siano ancora necessari dei “gay pride” per rivendicare diritti e condannare rifiuto e persecuzione.
«Un giorno il Gay Pride o qualsiasi altro [giorno dell’] orgoglio non saranno necessari» afferma il gesuita. «Il giorno in cui ognuno riconoscerà la dignità delle persone, di ogni persona, senza che l’orientamento sessuale sia un problema per nessuno. Il giorno in cui il “cooming out” non sarà una novità, perché sarà considerato normale».
«Sono ancora troppe le persone che credono che avere un figlio gay sia una tragedia, un imbarazzo, qualcosa da nascondere. E ancora, nella Chiesa, c’è troppo silenzio di fronte ad alcune dichiarazioni e formulazioni che non rispondono alla realtà pastorale delle nostre comunità, parrocchie, gruppi e spazi di accompagnamento. Troppe persone che riducono l’orientamento sessuale all’ideologia di genere e trasformano tale identificazione in un alibi per non ascoltare le testimonianze di così tanti cristiani gay che chiedono di sentirsi un po’ più a casa quando si tratta di essere una comunità. Troppi pettegolezzi e troppa poca benedizione. Ogni persona deve essere orgogliosa di essere come Dio le ha create. Perché alla fine l’omosessualità o l’eterosessualità non sono una decisione stravagante del popolo. Fa parte (e solo una parte) di ciò che la persona è».
È su questo punto che è necessario dissentire dal sacerdote spagnolo. E non per una fissazione moralistica né tanto meno perché non si voglia riconoscere il dovuto rispetto e dignità a quelle persone omosessuali che, in quanto figli di Dio battezzati e facenti parti della comunità cristiana, meritano come tutti i fedeli un accompagnamento spirituale e una accoglienza umana. Non è questo in questione. La questione è la verità sull’uomo, sulla sua missione, sulla sua felicità, sulla sua piena realizzazione. Cose tutte che la Chiesa, nei suoi sacerdoti, non può rinunciare ad annunciare per “rispetto umano” o per spostare il discorso sul tema dei diritti civili o dell’accoglienza umana. Il punto focale, che riguarda la missione della Chiesa, è la ricerca della verità che è Cristo, che indica la volontà del Padre per ciascuno di noi, dove l’uomo e la donna si realizzano pienamente.
Va bene dunque condannare violenze e discriminazioni lì dove ci sono (benché i dati dimostrino che gli omosessuali sono di fatto molto più accettati socialmente di quanto lo si voglia far credere) ma affermare pubblicamente che essere omosessuali fa parte dell’essenza di una persona e che Dio abbia creato uomini e donne omosessuali significa sposare una ideologia che poco ha a che vedere con l’antropologia rivelata e con la dottrina della Chiesa. Per lo più se queste parole vengono da un sacerdote che si adopera nella formazione e l’accompagnamento dei giovani, un sacerdote che è anche teologo e poeta con numerose pubblicazioni all’attivo (ora tradotte anche in italiano) e un sacerdote seguito da circa 18mila persone sul suo canale youtube (ma i suoi video raggiungono anche le 30 mila visualizzazioni). La responsabilità di un sacerdote che è anche scrittore di successo e accompagnatore spirituale di molti giovani dovrebbe richiedere una maggior cautela ed un uso del linguaggio meno disinvolto nell’affrontare un tema così complesso e controverso come quello dell’omosessualità.
Nella sua lettera Rodríguez Olaizola invita la Chiesa ad “aggiornarsi” per camminare verso una più piena comprensione, integrazione ed accettazione delle persone omosessuali, «del loro bisogno, del loro diritto di amare, superando le molte incomprensioni che ancora oggi alcune persone di Chiesa nutrono verso la comunità LGBT».
È vero che ai nostri giorni non è facile trovare chiarezza su questa tematica neanche all’interno della Chiesa, complice la confusione creata non solo dalle pressioni di alcuni settori, movimenti e media ecclesiastici ma anche da alcuni pastori incapaci di (comprendere?) trasmettere con fedeltà l’insegnamento che è stato loro affidato.
Troppo spesso i giovani che si presentano dai sacerdoti esplicitando tendenze omosessuali vengono invitati ad assecondarle, ad “accettarle”, ad “accettare sé stessi” e a non provare sentimenti di vergogna o amarezza per la propria “condizione”. Escludendo il numero (non indifferente) di sacerdoti con tendenze omosessuali, bisogna tener conto che molti sacerdoti sono passibili di denuncia se contraddicono la vulgata favorevole alle istanze LGBT. Inoltre molti di loro non sono ben preparati sull’argomento o non riescono ad offrire percorsi adeguati. Infine ci sono coloro che (per ignoranza o malafede, non entreremo nel merito) sono convinti che la Chiesa sbagli nel considerare la pratica omosessuale un peccato (così come molti sacerdoti considerano eccessivo astenersi dai rapporti prematrimoniali tra fidanzati o proibire l’uso degli anticoncezionali, cose che di fatto hanno smesso di predicare).
Eppure la Chiesa, nonostante «la genesi psichica» del fenomeno rimanga «in gran parte inspiegabile» ha le idee chiare sull’omosessualità, basti leggere i tre paragrafi (2357, 2358 e 2359) che il Catechismo della Chiesa Cattolica dedica a questo argomento richiamando innanzitutto che i singoli individui «devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza» e che «A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione».
Ma allo stesso tempo, considerando gli atti omosessuali come “disordinati”, rispetto al piano di Dio sull’uomo e sulla donna e contrari alla legge naturale per cui in nessun modo approvabili, «tali persone sono chiamate a realizzare la volontà di Dio nella loro vita, e, se sono cristiane, a unire al sacrificio della croce del Signore le difficoltà che possono incontrare in conseguenza della loro condizione».
Questa (da leggere e rileggere i tre paragrafi) è la posizione della Chiesa, ribadita e approfondita da un documento redatto e pubblicato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nel 1986 intitolato “Lettera sulla cura pastorale delle persone omosessuali”.
La Chiesa non discrimina né esclude gli omosessuali ma chiama tutti i suoi figli alla conversione, a fare la volontà di Dio, a santificarsi ogni giorno, a rifiutare il peccato e a lasciarsi aiutare dalla preghiera, dai sacramenti, dal sostegno spirituale e materiale della comunità cristiana e dei suoi pastori. La Chiesa (e ci si rammarica di doverlo ancora ripetere) non condanna mai il peccatore pentito ma il peccato, invitando sempre ad abbandonare il peccato, a rialzarsi.
Affermare, come spesso si sente dire finanche da alcuni sacerdoti e vescovi, che la Chiesa dovrebbe “aggiornarsi” e modificare la propria visione dell’omosessualità significa insinuare che la Chiesa sia incapace di comprendere e di accogliere alcune persone e che debba rivedere la sua idea di peccato ormai desueta e superata, non a passo coi tempi.
Sono le posizioni di un altro noto gesuita, il sacerdote americano James Martin caporedattore della rivista America, che ha messo in cima alla sua agenda pastorale la difesa delle istanze LGBT. La sua nomina a consulente all Segreteria per le Comunicazioni del Vaticano avvenuta nel 2017 per volontà di Papa Francesco ha creato non poche perplessità e critiche.
Anche l’arcivescovo di Filadelfia Charles Chaput ha denunciato una certa ambiguità nell’insegnamento del padre gesuita, affermando che le sue teorie in merito all’omosessualità non rispecchiano le posizioni ufficiali della Chiesa e creano confusione tra i fedeli.
[…] Articolo pubblicato sul Blog di Sabino Paciolla il 04/07/2020 […]