
di Nicola Lorenzo Barile
Nell’anniversario della pubblicazione di 1984 di George Orwell, il Toronto Star chiese allo scienziato e scrittore di fantascienza americano Isaac Asimov (1920- 1992) di fare alcune previsioni per il 2019; fra queste, il beneficio che le macchine intelligenti, in primis i robot, avrebbero apportato, sollevando gli uomini dalle mansioni più gravose e lasciando loro più tempo libero per dedicarsi alle proprie passioni. Un’ipotesi che portava con sé la necessità di una nuova alfabetizzazione, a sottolineare l’importanza sempre crescente del peso dell’istruzione nel determinare i destini dei popoli; pertanto, la vera rivoluzione del 2019 rimaneva legata, secondo Asimov, al mondo della conoscenza e della scuola, sia pure in una veste molto diversa: le informazioni sarebbero arrivate direttamente a casa grazie al computer, e ogni studente, ma anche ogni adulto avrebbe potuto imparare ciò che voleva nei tempi e nei modi preferiti.
Fra gli ostacoli alle sue previsioni, la crescita di una popolazione ancora alcuni anni dopo il presente e non completamente aggiornata alle novità tecnologiche, da ridurre dunque progressivamente, contrapposta alla crescita personale e al nuovo benessere politico e sociale, guidati da un governo mondiale sinonimo di pace e cooperazione, capace di superare i conflitti tra le varie nazioni.
Una visione tutto sommato ottimistica, se si pensa che allora l’informatica era appena agli albori, almeno dal punto di vista del consumatore, e solo pochi mesi dopo sarebbe apparso sul mercato il Macintosh, il primo pc davvero user-friendly, mentre il sistema operativo Windows era ancora di là da venire.
Eppure, idee di Asimov come quelle della società mista di uomini e robot e della regolazione delle nascite sono riuscite a imporsi, creando un universo tutto sommato verosimile, per quanto immaginario e lontano nel tempo e nello spazio, grazie ai suoi romanzi e racconti dalla prosa semplice e diretta. È il caso della distopia de Il sole nudo (The Naked Sun, 1957; trad. it. G. Lippi, Milano 1986), ancora capace di influenzare il nostro immaginario e, forse, la nostra vita più recente, ovvero Solaria, uno dei più importanti mondi esterni alla Terra, «un pianeta esposto al sole senza riparo, giorno e notte (…) roteando sotto quel sole nudo, roteando senza proteggere i microbi chiamati uomini che si agitavano sulla sua superficie roteante, pazzamente roteante per sempre». Solaria, con il suo diametro di 15 mila chilometri, nel clima e nell’atmosfera ricorda proprio la Terra, mentre la sua percentuale di terreno fertile è più alta, il suo contenuto di minerali utili e utilizzabili più basso ed è naturalmente meno sfruttato: un mondo presso che autosufficiente, in grado di garantire alle tenute dei suoi appena 20 mila abitanti, che occupano i 77 milioni di chilometri quadrati delle zone fertili del pianeta, un notevole benessere: «Con i loro mondi sottopopolati, basati su un’economia fatta da robot positronici, la loro produzione di energia pro capite era migliaia di volte più grande di quella della Terra. Ed era l’ammontare di energia pro capite che definiva il potenziale militare, il tenore di vita, la felicità e tutte le cose ad essi collegate», conducendo tuttavia uno stile di vita assai singolare: «Vivono completamente separati e non s’incontrano mai, se non in alcune circostanze assolutamente straordinarie», ovvero grazie a proiezioni («visioni») del proprio ologramma, come specifica Daniel Olivaw, il robot dal volto umano protagonista del romanzo.

La struttura e il benessere di Solaria sono determinati dalla presenza di 200 milioni di robot (ovvero, una media di 10 mila robot per abitante): «In ogni economia che abbia accettato il lavoro robotico il rapporto robot-umani tende continuamente ad aumentare», argomenta il dottor Anselmo Quemot, il sociologo di Solaria, «malgrado le leggi che possano essere state approvate per prevenire ciò. L’incremento può essere rallentato, ma non si ferma mai. All’inizio aumenta la popolazione umana, ma quella robotica aumenta sempre più velocemente. Poi, dopo che è stato raggiunto un certo punto critico… In effetti la popolazione umana comincia a declinare. Un pianeta tende alla vera stabilità sociale. (…) Così non c’è motivo di temere gli altri mondi. Basterà aspettare un secolo o due, e saranno tutti solariani. Suppongo che in un certo senso questa sarà la fine della storia umana: quanto meno la sua realizzazione. Finalmente, finalmente, tutti gli uomini avranno tutto quello di cui hanno necessità e tutto quello che desiderano».
Secondo il dottor Quemot, infatti, «Le civiltà hanno sempre avuto una struttura piramidale. Quando uno si arrampica verso la cima dell’edificio sociale, aumentano i suoi agi, come aumentano le opportunità per una sua ricerca della felicità. Man mano che egli sale, trova sempre meno gente che gode sempre più di tutto questo. Inevitabilmente c’è una preponderanza dei defraudati. (…) Ecco che quindi nelle società umane c’è sempre attrito sociale. L’azione della rivoluzione sociale e la reazione della prevenzione o della sua repressione sono le cause di tutta la miseria umana di cui è permeata la storia. Ora su Solaria, per la prima volta, c’è solo la cima della piramide. Al posto dei defraudati ci sono i robot. Siamo la prima nuova società, la prima davvero nuova, la prima grande invenzione sociale da quando i contadini sumeri ed egiziani inventarono le città».
Ma è davvero così? Non proprio, se il protagonista umano del romanzo, il detective di New York City Elijah Baley e, appunto, Daniel Olivaw, del mondo esterno di Aurora, già coppia nel precedente romanzo di Asimov, Abissi d’acciaio (The Caves of Steel, 1954), vengono richiesti, per la loro esperienza ed affiatamento, dai solariani per scoprire l’assassino dell’ingegnere fetale Rikaine Delmarre, come ha modo di spiegare l’agente solariano Hannis Gruer a Elijah Baley: «Niente delitti, vede. La nostra popolazione è scarsa e distribuita su ampie zone. Non c’è occasione di crimine, e quindi non c’è necessità di polizia».
L’indagine sul crimine dell’ingegner Rikaine Delmarre è l’occasione, allora, per mostrare le crepe di una società apparentemente perfetta quale quella di Solaria: «Questa gente», spiega Elijah Baley al suo collega Daniel Olivaw alla fine del romanzo, «ha tutte le possibilità genetiche programmate con cura prima della nascita e l’effettiva distribuzione dei geni controllata dopo. (…) Ma i geni non sono tutto. Anche l’ambiente conta, e l’ambiente può orientare verso una effettiva psicosi dove il gene indica soltanto una potenzialità per una particolare psicosi» e, dopo aver risolto il caso, facendo rapporto al sottosegretario alla giustizia Albert Minnim: «La cooperazione fra individui. Solaria vi ha rinunciato completamente. È un mondo di individui isolati, e l’unico sociologo del pianeta è deliziato che le cose stiano così. (…) Senza l’intergioco tra uomo e uomo se ne è andato il principale interesse per la vita; se ne è andata la maggior parte dei valori intellettuali; se ne è andata la ragione di vita. Il visionare non è un sostituto del vedere. Gli stessi solariani sono consapevoli che il visionare è un senso a lunga distanza».

Dal punto di vista del genere letterario, Il sole nudo di Asimov appartiene a quello della distopia, ovvero «la rappresentazione del futuro apparentemente perfetta ma che è, allo stesso tempo, la peggiore in cui vivere». La distopia, come recentemente spiegato da Carmine Treanni, è esattamente l’opposto dell’utopia: «La letteratura distopica ha come peculiare caratteristica, dunque, quella di rappresentare una società negativa sotto vari aspetti, spesso collocata temporalmente nel futuro, in cui il controllo delle masse e del singolo cittadino è portato alle estreme conseguenze, dove le informazioni e la conoscenza sono ampiamente manipolate, in cui vige un regime economico fortemente basato sulla proprietà privata e dove spesso a capo del governo c’è il cosiddetto ‘uomo forte’ o comunque una élite»; forse, il fascino della distopia è proprio in questa contrapposizione tra il mondo in cui viviamo, spesso percepito come negativo, e uno futuro, che però potrebbe essere peggiore. Secondo Asimov, la distopia è, in effetti, una anti-utopia che, a differenza di quest’ultima, si è affermata recentemente quando, agli inizi del XX secolo, l’idea di un mondo e di una società ideale è stata messa in crisi da una serie di eventi sociali, politici ed economici che hanno investito tutto il mondo occidentale: l’industrializzazione, l’urbanizzazione e la nascita delle metropoli, la rivoluzione bolscevica in Russia, la prima guerra mondiale e le dittature in Europa.
In realtà, il sogno di un mondo ideale in cui vivere in pace e in armonia con la natura e gli altri accompagna l’umanità fin dalle origini della sua storia, assumendo nomi e forme diversi a seconda delle civiltà che lo hanno elaborato. Il racconto di un luogo idilliaco e spesso irraggiungibile si è evoluto, nel corso del tempo, nel più moderno concetto di utopia, la cui ideazione va ascritta a San Thomas More (Tommaso Moro in italiano: 1478– 1535), umanista cristiano e uomo politico inglese, fiero oppositore dei capricci matrimoniali di re Enrico VIII Tudor (1491-1547) e, per questo martirizzato, quindi canonizzato da Pio XI nel 1935 e riconosciuto patrono dei governanti e dei politici cattolici da San Giovanni Paolo II nel 2000. La parola utopia si legge infatti per la prima volta nel suo omonimo libello pubblicato nel 1516 e vuol dire, dal greco, «luogo che non esiste» e fornì le coordinate di un vero e proprio genere letterario, laddove nella prima parte si descrive l’Inghilterra del XV secolo, ovvero il luogo e la società dell’autore, mentre nella seconda si racconta del viaggio immaginario di un certo Raffaele Itlodeo e del suo approdo appunto sull’isola di Utopia, un luogo idilliaco e perfetto sotto ogni punto di vista, anche se privo della rivelazione cristiana.
Una lettura prevalentemente razionalistica e naturalistica di questo secondo libro dell’Utopia diThomas More, ispirata «da un lucido realismo e animata dalla fede nella bontà naturale dell’uomo e nell’illuminata efficienza della ragione», ha posto le premesse per la moderna interpretazione dell’utopia quale proclamazione della «legittimità di una ricerca della felicità sulla terra, esaltando con ciò l’autonomia della ragione e l’autarchia immanentistica del creato» (Luigi Firpo).
Thomas More, però, non è affatto un utopista moderno, che considera l’abolizione della proprietà privata e l’ateismo come i mezzi principali per affermare la sua società ideale, alla stregua di Samuel Butler (1835-1902) in Erewhon (1872, ovvero la parola inglese nowhere, «in nessun luogo», equivalente quindi della parola greca utopia, scritta al contrario). L’Utopia è essenzialmente un documento dell’umanesimo cristiano del XV secolo, volto a riformare la cristianità, «visto che gli uomini mal sopportano di adattare i loro costumi alla legge di Cristo, han piegato la sua dottrina, come una squadra di piombo, ai costumi di quelli, in modo da accordarvela bene o male, si capisce! Che cosa ci han guadagnato? Solo che gli altri possono esser malvagi con più tranquillità di coscienza», sono le dure parole del santo inglese.

Attraverso l’esposizione e la descrizione dei vizi che portano inevitabilmente alla rovina di uno stato e, contemporaneamente, delle virtù che possono condurre alla sua prosperità, quindi, Thomas More tratteggiò i caratteri di uno stato ideale, composto di uomini ideali che agiscono solo per l’ideale del bene comune, illuminati dalla ragione, sottintendendo che le istituzioni cristiane avrebbero dovuto superare di gran lunga quelle costruite sulla base della mera ragione. È un grande atto di fiducia nelle forze razionali naturali dell’uomo, che porrà di lì a pochi anni l’autore in contrasto radicale con la riforma di Martin Lutero, così come di fronte ad esso si porrà il suo grande amico Erasmo da Rotterdam (1467-1536) nella sua difesa del libero arbitrio.
Tornando a Il sole nudo e alla sua lettura, secondo me riduttiva, come mera descrizione di una futura società robotica, Asimov, benché consapevole dell’imperfezione del sistema economico e sociale americano, non era affatto convinto della bontà di modelli ad esso alternativi, anzi temeva piuttosto il contrario: «Anche solo mantenere il benessere attuale (figuriamoci poi il progredire in direzione dell’ideale, quale che esso sia) significa lottare costantemente contro un deterioramento che se non si sta attenti è destinato inevitabilmente a insediarsi». La sua descrizione di Solaria è, piuttosto, un monito affinché gli altri mondi, ammirandone la sua superiorità tecnologica, non fossero tentati di imporne lo spietato modello sociale: «C’è pericolo che un giorno possano diventare come Solaria, ma probabilmente riconosceranno il pericolo, lavoreranno per mantenersi in un equilibrio ragionevole e in questo modo rimarranno i leader dell’umanità».
Non è un caso, pertanto, che la novità prospettata da Thomas More consistette nell’immaginare che potesse formarsi e costituirsi una società perfetta, vera contrapposizione radicale allo stato esistente di fatto, in un luogo che non esiste. Come scrisse Platone (428 o 427 a. C.- 348 o 34) a proposito del suo stato ideale: «di questa nostra città l’esemplare sta forse nel cielo, e non è molto importante che esista di fatto in qualche luogo o che mai debba esistere; a quell’esemplare deve mirare chiunque voglia in primo luogo fondarla entro di sé» (Repubblica, IX, 591b).
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