Caro Sabino,
la lettura de “La montagna incantata” di Thomas Mann, fatta sabato scorso da dom Giulio Meiattini, mi ha fatto tornare in mente il discorso che la Presidente del Senato, Maria Letizia Alberti Casellati l’11 maggio 2018, ha tenuto in occasione della Presentazione del libro di Benedetto XVI° “Liberare la libertà. Fede e politica nel terzo millennio”.
In esso la Presidente Casellati introduce il pensiero di Benedetto XVI attraverso l’analisi storica di alcuni concetti basilari del diritto e degli ordinamenti giuridici, fino alla dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo e alla nascita della dottrina sociale della Chiesa. Così facendo risponde in modo del tutto originale a molte delle domande sorte durante la lettura di Dom Meiattini:
- da dove lo Stato riceve legittimazione nell’esercizio delle sue funzioni?
- in particolare, lo stato di emergenza, che perdura da oltre un anno, è diventato la legge fondamentale che giustifica ogni imposizione statale, anche quando evidentemente inadeguata, o c’è un limite al potere dello Stato, superato il quale esso diventa Tiranno?
- e che cos’è la libertà? Una situazione di emergenza può giustificare a lungo una limitazione delle libertà e dei diritti, in nome di un non meglio chiarito dovere di solidarietà sociale (imposto con la paura e la disinformazione)?
- Giustizia, Verità, Persona trovano ancora posto nella nostra società? Perché se è vero che non c’è diritto senza dovere è anche vero che non c’è ordinamento giuridico senza giustizia, e non c’è verità senza libertà e viceversa.
Dice la Presidente Casellati:
Nella tradizione del diritto romano non esisteva contrapposizione tra religione e Stato, tra fede e politica, perché l’ordinamento giuridico non era un prius rispetto alla dinamica di svolgimento dei rapporti tra individui, ma si definiva ed emergeva come regula juris: nasceva cioè dal riconoscimento che soggetti pubblici e privati attribuivano ai singoli comportamenti. Diventa storia, cioè diritto, solo ciò che è riconosciuto e accettato, e che, solo in un secondo memento, viene prescritto o vietato.
In epoca moderna, invece, questa contrapposizione tra religione e stato, “dogma” e “storia”, con il positivismo giuridico ha assunto i tratti di una vera e propria ideologia. Pur permanendo la quale,
a partire dal Novecento, è emersa una interpretazione del fenomeno giuridico inteso come mutuo riconoscimento di princìpi e valori, che nasce da una esperienza di vita sociale.
Benedetto XVI supera entrambe queste posizioni: per Ratzinger, dividere il pensiero dalla realtà è una finzione che occorre superare, perché il dogma vive dentro la storia ed è la storia a rivelare il dogma, rendendo giustizia a ciò che è vero rispetto a ciò che è falso.
Questa impostazione ha una ricaduta diretta nella stessa definizione di “soggetto di diritto”.
Nel diritto romano classico, non tutti gli individui sono “soggetti di diritto” e titolari di capacità giuridica, ma l’uomo viene considerato come “oggetto di diritto”, e la capacità giuridica è relativa allo specifico status personae.
Il pensiero moderno e contemporaneo invece propone di considerare l’uomo non come oggetto, bensì, sempre e comunque come “soggetto di diritto”.
Per Ratzinger entrambe le posizioni sono fuorvianti: riducendo l’uomo a questa distinzione tra soggetto e oggetto di diritto, si contrappone l‘auctoritas dello Stato alla libertas dell’individuo, e si finisce per negare il fondamento del diritto come giustizia: l’origine del diritto non sarebbe la giustizia ma il diritto si originerebbe da sé stesso. Invece, per Ratzinger la giustificazione e la legittimazione delle Istituzioni e più in generale degli ordinamenti giuridici nasce dal riconoscimento da parte dello Stato della “persona” come limite dell’azione pubblica.
Il concetto di giustizia, legato a quello di verità, (“da ciò che è vero nasce quanto è giusto“) mette in relazione i “diritti” con la logica del dovere, e allo stesso tempo con il concetto di “libertà”: come diceva Aristotele, non c’è diritto senza dovere e non c’è ordinamento giuridico senza giustizia; non c’è verità senza libertà e viceversa.
Questo significa che non è possibile votare sulla verità e allo stesso tempo negare la libertà, che il “potere” non può sostituirsi al “sapere” – perché la ragione è la madre del diritto -, che le azioni degli individui e le decisioni delle Istituzioni devono fermarsi di fronte all’idea di “persona”; essa indica non più solo l'”appartenenza” ad una Religione o ad un singolo Stato (come era nella tradizione del diritto romano), ma viene concepita come vera e propria “identità”, imprescindibile e irrinunciabile per ogni Religione e per ogni Stato.
Su queste basi, nel XIX e nel XX secolo ha preso forma il riconoscimento dei diritti umani, improntato non più sull’idea di “confine” (appartenenza) ma su quella di “universalità”(identità).
Per Benedetto XVI l’incontro tra religione cristiana e res publica avvenne quando l’idea di “persona” e di “ragione” si saldarono non più solo in una prospettiva di “potere”, ma di “cultura”, perché la “porta della cultura” è la strada per non restare confinati dentro le angustie di un pensiero autoreferenziale, e per rendere la libertà strumento di giustizia.
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Scrive Benedetto XVI (in una lettera a Marcello Pera)
“C’è uno iato evidente tra le affermazioni dei Papi del XIX secolo e la nuova visione che inizia con la Pacem in terris, che tanto effetto ha prodotto sulla politica italiana e sui suoi fondamenti ideali.
Ma la questione dei diritti umani ha acquisito un posto di grande rilievo nel Magistero e nella teologia postconciliare solo con Giovanni Paolo II, che vide nella dichiarazione dei diritti umani del 1948 l’arma concreta e la forza razionale capace di limitare e contrastare la pretesa onnicomprensiva, ideologica e pratica e il carattere totalitario dello Stato marxista.
E così, da Papa, affermò il riconoscimento dei diritti umani come una forza riconosciuta dalla ragione universale in tutto il mondo contro le dittature di ogni tipo.
Egli considerava positivamente lo stato laico come forma giusta di stato, ma solo se in esso trova spazio la libertà della fede. Fin dall’inizio, infatti, la fede cristiana, che annunciava una religione universale per tutti gli uomini, comprendeva necessariamente una fondamentale limitazione dell’autorità dello Stato in ragione dei diritti e dei doveri della singola coscienza.
Non si trattava solo di riconoscere l’idea dei diritti umani. Si trattava piuttosto di fissare l’obbedienza dell’uomo a Dio quale limite dell’obbedienza allo Stato.
Il dovere dell’obbedienza dell’uomo a Dio rispetto allo Stato viene considerato come un diritto umano che precede ogni autorità statale.
2) Da dove nasce la forza di tale diritto? D’importanza fondamentale nella questione dei diritti umani è stata la dottrina dell’uomo fatto a immagine di Dio, che rende l’uomo soggetto e non solo oggetto di diritto, fine e non mezzo, direbbe Kant, titolare di un diritto posto da Dio stesso.
Questa concezione acquisì importanza soprattutto con la scoperta dell’America: tutti i nuovi popoli del nuovo mondo non erano battezzati, e così si pose la questione se avessero dei diritti o meno. Mentre per l’opinione dominante essi divenivano soggetti di diritto solo con il battesimo, il riconoscimento che erano immagine di Dio in forza della creazione, invece, significava che anche prima del battesimo erano già soggetti di diritto e che dunque potevano pretendere il rispetto della loro umanità. Vale a dire che i “diritti umani” (non hanno la loro ragione solo a partire dalla fede, ma) precedono l’adesione alla fede cristiana, e qualunque potere statale, quale che sia la sua specifica natura.
L’impegno di Giovanni Paolo II a favore dei diritti umani è in continuità con l’atteggiamento della Chiesa antica nei confronti dello Stato romano. Il mandato del Signore di fare suoi discepoli tutti i popoli, aveva creato una situazione nuova nel rapporto tra religione e Stato. Fino ad allora non c’era stata una religione con pretesa di universalità, come il cristianesimo, ma la religione era una parte essenziale dell’identità di ciascuna società. Il mandato di Gesù non contesta la struttura delle singole società, ma esige che in tutte le società sia data la possibilità di accogliere il suo messaggio e di vivere in conformità ad esso.
Ne consegue in primo luogo una nuova definizione della natura della religione: essa non è rito e osservanza che ultimamente garantisce l’identità dello Stato, è invece riconoscimento (fede), e precisamente riconoscimento della verità. Questo collegamento tra religione e verità include un diritto alla libertà: infatti, se lo spirito dell’uomo è stato creato per la verità, è chiaro che la verità obbliga e, proprio in questo modo, rende l’uomo libero.
La dottrina sociale della Chiesa, nata nel XIX secolo, partiva dal considerare un duplice ordine:
- L’ordo naturalis, puramente razionale, che veniva considerato completo in sé stesso
- l’ordo supernaturalis era una libera aggiunta, pura grazia.
Questo modo di guardare la realtà aveva in sé il rischio di far apparire ciò che è propriamente cristiano come una sovrastruttura superflua, sovrapposta all’umano naturale, da relegare nell’ambito del mero sentimento, come se non ci fosse bisogno del Vangelo.
E’ servito però alla Chiesa per far valere le sue posizioni etiche nel dibattito politico sulla base della pura razionalità: laddove, nella società, non è possibile affermare la pretesa della fede, vale sempre l’ordine della creazione, da cui nasce il diritto naturale e il concetto di persona, e ciò permette di far valere in ogni situazione ciò che è autenticamente umano.
Ciò corrisponde all’autonomia dell’ambito della creazione e all’essenziale libertà della fede,
Resta il pericolo di dimenticarsi della realtà del peccato originale, per cui si giunge a forme di ottimismo e un’ingenua fiducia nella ragione (oggi diremmo nella scienza [la nota è mia]) che non percepiscono l’effettiva complessità della conoscenza razionale in ambito etico e quindi non rendono giustizia alla realtà.
Per Ratzinger ha ragione l’ultimo Kelsen quando dice che il derivare un dovere dall’essere è ragionevole solo se Qualcuno ha depositato un dovere nell’essere, cioè solo dalla fede.
Quando il concetto dei diritti umani viene scisso dall’idea di Dio, la moltiplicazione dei diritti conduce alla distruzione dell’idea di diritto e alla costruzione del “diritto” nichilista dell’uomo di negare sé stesso: aborto, suicidio, produzione dell’uomo come cosa diventano diritti dell’uomo ma al contempo lo negano.
RIFLESSIONE
In altre parole, la Chiesa, nel pensiero di Giovanni Polo II e poi di Ratzinger, attraverso il riconoscimento della dottrina dell’uomo fatto a immagine di Dio, attraverso il riconoscimento del concetto di Persona, come diritto identitario e come limite all’azione dello Stato, e con il riconoscimento dei diritti universali dell’uomo, assurge a baluardo contro la pretesa ideologica e onnicomprensiva delle Stato; e al tempo stesso baluardo contro la pretesa dell’uomo di farsi da sé.
Se è vero che la religione non è rito e osservanza, ma riconoscimento della verità, quale grande responsabilità per noi credenti, non solo morale personale, ma verso tutta la società!
Pensiamoci, mentre tanti, anche se purtroppo minoranza, scendono nelle piazze per protestare contro la pretesa dello Stato di essere padrone assoluto delle nostre vite e delle nostre coscienze.
Se lo spirito dell’uomo è stato creato per la verità, è chiaro che la verità obbliga e, proprio in questo modo, rende l’uomo libero.
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