
di Nicola Lorenzo Barile
Negli ultimi mesi, la pandemia di CoViD-19 è stata più volte paragonata all’influenza che tra il 1918 e il 1920 contagiò quasi un terzo della popolazione mondiale, detta «della spagnola» perché se ne parlò apertamente solo in quei paesi non coinvolti nella prima guerra mondiale, come la Spagna appunto.
Benché, com’è stato detto, questo confronto non sia del tutto calzante, dato che ci sono importanti differenze biologiche tra il coronavirus SARS-CoV-2 e il ceppo di H1N1 alla base della pandemia della «spagnola», ritengo che la lezione di quest’ultima, al contrario, sia a suo modo ancora attuale, come cercherò di dimostrare attraverso la massiccia documentazione relativa alla diffusione della «spagnola» nelle città di punta della California meridionale (Los Angeles e San Francisco).
Un buon punto di partenza è la pagina web del National Centers for Disease Control and Prevention: Remembering the 1918 Influenza Pandemic, e, per quanto riguarda la contea di Los Angeles, la pagina web La pandemia di influenza americana del 1918-1919 dell’Influenza Encyclopedia del Center for the History of Medicine and Michigan Publishing dell’Università del Michigan, con ottimi riassunti di ciò che avvenne durante la pandemia e utili risorse come fotografie d’epoca.
Inoltre, i curatori delle collezioni speciali per le scienze dell’University of California, Los Angeles (UCLA), otto anni fa hanno ordinato uno dei pochi archivi negli Stati Uniti dedicati alla «spagnola», con particolare attenzione alla corrispondenza tra militari e membri delle loro famiglie, fondamentale per comprendere come il virus si diffuse non solo in California e, quindi, organizzato una mostra successivamente alla pandemia di influenza suina del 2009, dopo che studi recenti ne hanno messo in evidenza la somiglianza.
La «spagnola» aveva colpito gli Stati Uniti all’inizio della primavera del 1918, ma una seconda, più letale ondata attraversò tutti gli stati in autunno, portata dai soldati americani che avevano combattuto in Europa durante la prima guerra mondiale. A Los Angeles, i primi segni arrivarono a metà settembre 1918, quando i marinai a bordo di una nave della Marina a San Pedro si ammalarono. Le prime quarantene nella California meridionale furono ordinate nel settembre 1918 presso la Naval Reserve Station del porto di Los Angeles e la U.S. Army Balloon School della città di Arcadia.

Anche il materiale raccolto presso la Huntington Library di San Marino, vicino Pasadena, offre importanti testimonianze, meno private ma non di minore disperazione, come le immagini degli ospedali sommersi dai malati e delle infermiere stanche catturate dal fotografo di Pasadena Harold A. Parker, i diari dei volontari della Croce rossa e i documenti del Los Angeles County Medical Association, mettendo in evidenza alcuni episodi di razzismo durante la pandemia: è il caso delle dimissioni, poi ritirate, delle oltre 100 allieve infermiere dell’ospedale di Los Angeles, motivate dalla scelta del consiglio di amministrazione di farle lavorare accanto a quelle afroamericane.
Gli archivi della città di Los Angeles, invece, raccontano la storia della «spagnola» attraverso statistiche e ordinanze, dalle quali, in particolare, emerge il ruolo del commissario per la salute, Luther M. Powers, un energico medico della North Carolina: benché pubblicamente il dottor Powers definisse i casi solo «presunta influenza», in privato suggeriva al sindaco Frederick T. Woodman di prepararsi a fronteggiare una vera e propria una pandemia a Los Angeles, allora una città di meno di 600.000 anime.
Le scuole vennero chiuse e le occasioni di incontri pubblici (cinema, teatri, piscine e funzioni religiose) limitate, mentre gli infetti vennero esortati attraverso bollettini stampati sui giornali «a stare a letto, tenere la propria stanza ben ventilata e mangiare cibo semplice moderatamente». Persino Hollywood dovette fermare le sue produzioni, dato il divieto imposto di girare scene fra la folla e a Long Beach (nell’area metropolitana di Los Angeles) vennero addirittura vietate le effusioni.
Questi rigidi provvedimenti non procurarono al dottor Powers molti sostenitori. Gli scienziati di ispirazione cristiana, ad esempio, impugnarono con successo i suoi provvedimenti, per affermare il diritto di celebrare i loro congressi; i proprietari dei cinema, che si lamentavano dell’ingiusta penalizzazione del loro settore, invitarono i consiglieri comunali a disporre la chiusura anche delle altre attività commerciali: senza successo, dato che negozi e grandi magazzini rimasero aperti.
Anche il Los Angeles Times, il giornale di maggiore diffusione nella regione, sostenne il dottor Powers fino a un certo punto. Infatti il suo editore, Harrison Gray Otis, fondatore anche di una potente associazione di commercianti, spingeva per un allentamento delle restrizioni dato che, con l’avvicinarsi della fine dell’anno e delle vacanze natalizie, si profilava una ridotta attività economica. Grazie allora a una campagna stampa volta a minimizzare il numero degli ammalati e dei deceduti, il 2 dicembre le autorità alla fine si convinsero ad alcune riaperture, come quelle di cinema e teatri, suscitando la gioia della gente, ma senza riuscire a evitare una seconda ondata di contagi e, quindi, la disposizione di nuove chiusure il 10 dicembre 1918 fino a che, nella primavera del 1919, per ragioni tuttora sconosciute, la pandemia finalmente si attenuò e scomparve del tutto.
A prima vista, la severità del dottor Powers sembrò non essere priva di efficacia nel contenimento del virus, se paragonata, ad esempio, con le analoghe iniziative prese dal collega del dottor Powers a San Francisco, il dottor William C. Hassler, molto apprezzato per la sua gestione di precedenti catastrofi (dalla peste bubbonica del 1900-1908 al grande terremoto del 1906).
A differenza del suo collega, però, il dottor Hassler era convinto che fosse necessario imporre soprattutto l’uso delle mascherine, a cominciare da barbieri, impiegati di banche, farmacie, negozi e case di riposo, per finire a tutti i cittadini e visitatori di San Francisco (25 ottobre 1918), pena il carcere e una multa di cinque dollari dell’epoca. La scelta del dottor Hassler fu approvata convintamente dalle autorità, non ultimo il governatore della California William Stephens, che definì quello di indossare la mascherina addirittura «un dovere patriottico per ogni cittadino americano». Sebbene i suoi primi casi di influenza erano comparsi all’incirca nello stesso periodo di quelli di Los Angeles, San Francisco chiuse tutti i luoghi pubblici e i locali di divertimento con una settimana di ritardo (18 ottobre 1918), ma con l’esclusione dei luoghi di culti, affidati alla discrezionalità dell’autorità religiosa.

Non appena si registrò un calo di nuovi casi di influenza, a mezzogiorno del 21 novembre, al suono di un fischio gli abitanti di San Francisco si strapparono le mascherine e le gettarono per strada. Anticipando l’enfasi di certi moderni comunicati stampa, il dottor Hassler annunciò che San Francisco era stata l’unica grande città al mondo a controllare la pandemia così efficacemente. Purtroppo, anche San Francisco vide risalire il picco dei decessi per «spagnola», tanto che il dottor Hassler dovette imporre nuovamente le mascherine il 10 gennaio 1919.
Le disposizioni del dottor Powers e del dottor Hassler, pertanto, sembrano confermare la fede degli epidemiologi per la tempistica e la portata di interventi, non sempre condivisi: distanziamento sociale a Los Angeles e uso delle mascherine a San Francisco, per il rallentamento della diffusione della malattia, come l’esperienza del CoViD-19, avvalorata da un recente studio (https://www.nytimes.com/2020/04/14/opinion/covid-social-distancing.html), sembra dimostrare.
I numeri della «spagnola», invece, raccontano una realtà meno trionfalistica. Infatti, San Francisco soffrì più di tutte le altre principali città americane, con un tasso di 673 morti ogni 100.000 abitanti, mentre quello di Los Angeles fu di poco inferiore (494), peggiori di quelli di città come Denver, Kansas City, Milwaukee e St. Louis; entrambe le città californiane, inoltre, non riuscirono a impedire nuove ondate di contagi, sebbene quella di San Francisco fu più grave.
Benché conclusa, la storia della pandemia della «spagnola» rimane ancora da decifrare: «un tratto di storia patria più famoso che conosciuto», come definì Alessandro Manzoni nei Promessi sposi la peste di Milano (1630), apparentemente prodotta da una concatenazione di circostanze in buona parte riconducibili al «celebre delirio», ovvero ai comportamenti dei medici che negavano l’esistenza della peste e alle credenze popolari, che avrebbero potuto essere evitati con un po’ di sangue freddo e conoscenza scientifica.
Non per Manzoni, però, che non risparmia il suo pessimismo cristiano né ai provvedimenti del tribunale della sanità («Prescrisse più strette regole per l’entrata delle persone in città; e, per assicurarne l’esecuzione, fece star chiuse le porte»), né alla «voce del popolo» («era, anche in questo caso, voce di Dio? »), né ai pareri degli scienziati («D’ugual valore, se non in tutto d’ugual natura, erano i sogni de’ dotti»), né alla scelta dell’arcivescovo di Milano, il cardinale Federico Borromeo, di guidare una processione («non è difficile a capire come le sue buone ragioni potessero, anche nella sua mente, esser soggiogate dalle cattive degli altri»), che non riuscirono a impedire la catastrofe di oltre centomila morti.

L’uomo solo durante la catastrofe, sembra ammonire Manzoni, fallisce di fronte alla chance di riscatto offerta dalla prova ma, mentre nella digressione sulla carestia assistiamo agli uomini che si lasciano morire («una moltitudine vagabonda e riunita, che si vedeva come condannata a un lento supplizio, che già lo pativa»), in quella sulla peste l’istinto di sopravvivenza, mosso dalla speranza di sfuggire al contagio, cerca vie di uscita (i provvedimenti del tribunale della sanità, la processione dell’arcivescovo), fallite le quali, non rimane che l’ossessione per la malattia a riempire il vuoto lasciato dalla fede e dalla carità («Del pari con la perversità crebbe la pazzia»).
Anche il riferimento a una pandemia passata, pertanto, può spiegare che virtù autentiche, come quelle della madre di Cecilia nei Promessi sposi, contribuiscono a superare la prova («nelle lunghe perturbazioni di quel qual si sia ordine consueto, si vede sempre un aumento, una sublimazione di virtù»), anche se appaiono difficili da trovare («c’era qualcosa di più brutto, di più funesto (…). Non del vicino soltanto si prendeva ombra, dell’amico, dell’ospite; ma di que’ nomi, que’ vincoli dell’umana carità»).

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