di Moreno Morani
La vicenda delle statuette amazzoniche che sono state asportate dalla chiesa in cui erano state riposte e che poi sono state distrutte, con le inevitabili polemiche e reazioni (talora ragionate talora scomposte) che ne sono seguite, pone una domanda: che cosa avrebbero fatto i primi cristiani, che si trovavano a vivere e operare in un contesto di cultura pagana con la presenza diffusa di raffigurazioni di divinità e di idoli? La risposta sembra univoca per quanto riguarda il giudizio sugli idoli, mentre nei confronti del rapporto col pensiero e la cultura dei pagani vi furono vari orientamenti, a seconda della diversa sensibilità delle persone e delle diverse circostanze storiche, ma vi sono alcune linee che non sono mai venute meno. Si potrebbero richiamare una quantità di testi e di autori, ma mi limito a proporre qui la lettura di due testi che mi sembrano esemplari e utili anche a noi moderni per una riflessione obiettiva sul problema.
Il primo testo, noto e sempre fondamentale, è il capitolo 17 degli Atti. Paolo viene da Tessalonica, dove ha avuto uno scontro con la comunità giudaica del luogo, e viene aiutato a fuggire di notte ad Atene. Arrivato in città, la sua prima impressione è di disgusto: «Paolo … fremeva dentro di sé al vedere la città piena di idoli» (17, 5). Le vie di Atene dovevano essere disseminate di altari e di statue dedicate a divinità ed eroi della mitologia. Notiamo incidentalmente che queste statue, a giudicare da quanto rimane, dovevano essere opera di elevata fattura artistica: tutti noi, quando ci rechiamo a musei e siti archeologici, ci soffermiamo a contemplare certe creazioni greche di elevatissimo valore: opere come la Venere di Milo o la Nike di Samotracia affascinano anche il visitatore più sprovveduto con la loro bellezza e la loro perfezione. Ma lo sdegno di Paolo era giustificato perché capiva il significato che quelle rappresentazioni probabilmente bellissime potevano avere nel contesto dell’epoca. Questo sentimento di sdegno nei confronti di quella città così apertamente dedita al culto di idoli non gli impedisce però di valorizzare la tensione religiosa degli Ateniesi: a questa egli fa appello, ravvisandovi un bisogno e un desiderio, destinato però a rimanere incompleto e senza sbocco, se privo dell’annuncio cristiano. Paolo dunque si rivolge agli Ateniesi muovendo proprio dal loro sentimento religioso: «Vedo che voi siete in tutto molto religiosi» (v. 22)» è la frase iniziale con la quale si rivolge al suo pubblico: la parola che usa (deisidaímones) significa propriamente ‘timorati dagli dèi’ (come aveva la traduzione CEI del 1974, mentre nella successiva si ha ‘religiosi’), parola ambigua e polivalente, che può essere interpretata sia nel senso positivo di ‘religioso’ (e in questo senso certamente la usa Paolo) sia nel senso negativo di ‘superstizioso’: il duplice valore dipende anche dal fatto che il lessico greco (a differenza di quello latino) non distingue nettamente fra religiosità e superstizione e manca di una parola che significhi in modo preciso ‘religione (come insieme di credenze e di culti)’, e per molti intellettuali dell’epoca la religione era una pratica buona per vecchiette e beghine, ma non per gli uomini maturi. Le filosofie allora più diffuse, come l’epicureismo e lo stoicismo, si occupavano dell’uomo e dei problemi etici, ma dichiaravano apertamente di essere poco interessate ai problemi metafisici, e Paolo in quel frangente stava appunto parlando con seguaci di queste due scuole (v. 18). Paolo rileva come anche la cultura pagana percepisca l’idea di una paternità divina, richiamando persino un passo di un poeta ellenistico, Arato di Soli, «Perché di lui anche noi siamo stirpe» (v. 28): il pensiero pagano, alla fine della sua ricerca condotta «come a tentoni» (v. 27), giunge a concepire l’esistenza di una divinità che ha creato il mondo e l’uomo, perché Dio è vicino a ciascuno di noi e non vuole nascondersi (v. 27), e Paolo acutamente si rifà a questa primordiale sensazione di dipendenza che ritiene particolarmente viva nel cuore degli Ateniesi. Ma la tensione religiosa dell’uomo greco non porta alla compiutezza, che può essere raggiunta solo attraverso l’annuncio cristiano, e di questa sensazione di incompiutezza Paolo reca come prova l’esistenza in Atene di un altare dedicato al dio ignoto (v. 23). Dunque lo spirito del discorso di Paolo è duplice: da un lato la valorizzazione di quanto vi può essere di positivo nella religiosità pagana, dall’altro l’annuncio di Cristo non come contrapposizione alla sensibilità religiosa pagana, ma come imprescindibile completamento di essa («colui che, senza conoscerlo, voi adorate, io ve lo annuncio», v. 23).
Un altro autore interessante può essere Giustino, un Padre della Chiesa vissuto all’inizio del II secolo (all’incirca fra il 100 e il 165), un pagano convertito al Cristianesimo dopo una lunga iniziazione filosofica che gli ha fatto conoscere da vicino molte delle correnti di pensiero del tempo e dopo lunghi contatti col mondo giudaico, che mostra di conoscere profondamente. Giustino è autore, fra l’altro, di due Apologie redatte nei primi decenni del II secolo. Si tratta di scritti in cui si difende il Cristianesimo dalle calunnie e dai pregiudizi che venivano mossi dagli ambienti pagani, in un’epoca in cui dichiararsi cristiani era titolo sufficiente per incorrere in formali atti d’accusa, il cui esito era la condanna capitale per i seguaci della nuova religione, accusati di essere nemici dell’impero per il solo fatto che si rifiutavano di accettare la divinità dell’imperatore e di offrire sacrifici sugli altari dei pagani. L’atteggiamento di Giustino di fronte agli idoli è assolutamente intransigente. Le divinità pagane sono frutto di elucubrazioni suggerite da démoni malvagi: non vi è nulla di vero e di vivo: nessuna devozione meritano questi oggetti «che gli uomini, dopo averli effigiati e posti nei templi, chiamarono dèi, poiché sappiamo che sono oggetti inanimati e morti e privi della forma di Dio […] ma hanno il nome e la forma di quei malvagi demoni che sono apparsi. […] Spesso, perfino ad oggetti vili, dopo aver cambiato solo la forma e aver loro dato una figura, pongono il nome di dèi». Tributare culto a questi oggetti demoniaci sarebbe non solo «irragionevole, ma anche offensivo di Dio» (I Apol. 9). La presenza degli idoli, e più in generale delle divinità mitologiche, è dovuta all’inganno di demoni perversi che per la loro intrinseca malvagità hanno spaventato gli uomini e hanno corrotto la ragione umana deviandola dal suo retto uso. «Anticamente cattivi demoni, facendo apparizione, violarono donne, corruppero fanciulli e mostrarono paurose visioni agli uomini, tanto che ne erano spaventati costoro, che non erano capaci di giudicare i fatti che capitavano con il lume della ragione, ma, preda della paura ed ignorando che quelli fossero demoni cattivi, li chiamavano dèi e ciascuno col nome che ciascun demone si assegnava» (I Ap. 5, 2).
Questa posizione così fortemente critica nei confronti delle divinità e dei miti pagani non impedisce a Giustino di collocarsi in una posizione non di scontro, bensì di collaborazione coi pensatori pagani anche su temi etici e politici: grazie al corretto uso della ragione molti grandi del passato hanno avuto intuizioni importanti sul divino e sulla morale ed elaborato leggi destinate a premiare il bene e condannare il male. Giustino afferma esplicitamente che pagani e cristiani possono essere «alleati per la pace», perché entrambi operano per un bene comune, rispettando le leggi e quei principi di onestà e lealtà che sono comuni a entrambi. «Più di tutti gli uomini noi vi siamo utili ed alleati per la pace, dal momento che questo è il nostro pensiero: è impossibile che sfugga a Dio il malfattore o l’avido o l’insidiatore, o anche l’uomo virtuoso, e ciascuno va verso un’eterna pena o salvezza, secondo che meritano le sue azioni.» (I Ap. 12, 1).
Anche per l’uomo pagano vi è speranza di salvezza, perché il Logos Creatore ha agito anche fra i pagani, sia pure in modo incompleto. Dio ha posto frammenti di Logos anche fra i pagani che facevano un retto uso della ragione e cercavano Dio, portandoli a riconoscere, per mezzo della ricerca e della speculazione e facendo attenzione ai segni propagati dal Logos, frammenti della verità. Pensatori come Socrate o Eraclito o Musonio sono definiti cristiani, perché hanno vissuto secondo il Logos, suscitando peraltro l’invidia e l’ostilità di quanti erano accecati dalla follia dei dèmoni, perché «i demoni hanno sempre operato in modo che fossero odiati quanti, in qualunque modo, si sforzano di vivere secondo il Logos e di fuggire il male» (II Apol. 8, 2). Dio ha disseminato tra i pagani dei semi di verità (teoria del lógos spermatikós, poi condivisa da molti scrittori cristiani successivi) perché le generazioni precedenti Cristo potessero interrogarsi e mettersi alla ricerca della verità. Tuttavia il possesso di soli frammenti di verità, e non della verità nella sua interezza, ha portato scrittori e pensatori a contraddizioni, ma anche al raggiungimento di verità parziali, tali da rendere in parte comune, o comunque «non del tutto dissimile», la dottrina dei filosofi pagani e la dottrina del Cristianesimo. Dunque tutto ciò che di buono è stato elaborato dal pensiero pagano appartiene anche ai cristiani e può essere definito cristiano, perché il seme del Logos è innato in ogni stirpe umana (II Apol. 13, 5). Ma si tratta pur sempre, e Giustino lo ribadisce esplicitamente più volte, di un approdo solo parziale alla verità. «Tutti gli scrittori, attraverso il seme innato del Logos, poterono oscuramente vedere la realtà. Ma una cosa è un seme ed un’immagine concessa per quanto è possibile, un’altra è la cosa in sé, di cui, per sua grazia, si hanno la partecipazione e l’imitazione» (II Apol. 13, 5). Lo sforzo di comprensione e di interpretazione dei pensatori e degli scrittori pagani merita rispetto, ma entro limiti ben precisi: «ciascuno infatti, percependo in parte ciò che è congenito al Logos divino sparso nel tutto, formulò teorie corrette; essi però, contraddicendosi su argomenti di maggior importanza, dimostrano di aver posseduto una scienza non sicura ed una conoscenza non inconfutabile» (Apol. II, 13, 2).
Dunque solo l’adesione al Cristianesimo può portare l’uomo a possedere la verità nella sua interezza. Oltre tutto, le verità parziali che i pensatori pagani trovarono, frutto di ricerca e speculazione sorretta dal Logos, e che per ovvie ragioni non potevano arrivare alla conclusione del percorso di ricerca così intrapreso, erano appannaggio di pochi eletti, mentre la maggioranza degli uomini era confusa e traviata dalla devozione a divinità false. «A Cristo invece, conosciuto, almeno in parte, anche da Socrate (Egli infatti era ed è il Logos che è in ogni cosa, che ha predetto il futuro per mezzo dei Profeti e per mezzo di sé stesso, che si è fatto come noi ed ha insegnato questa verità), credettero non solo i filosofi e dotti, ma anche operai e uomini assolutamente ignoranti, che sprezzarono i giudizi altrui, la paura, la morte. Poiché è potenza del Padre ineffabile e non costruzione di umana ragione» (II Apol. 10, 6). Socrate poteva esprimere dubbi sul fatto che sia possibile all’uomo trovare il Padre creatore di tutto l’universo, ma è proprio questo che Cristo ha fatto con la sua potenza (II Apol. 10, 5).
In sostanza, proprio muovendo da un giudizio critico sulla religione pagana, intrisa di falsi dèi, di idoli, di miti che raccontano storie di perversioni e di delitti, Giustino elabora una serie di affermazioni in cui viene affermata la possibilità di una valorizzazione degli aspetti positivi della sapienza pagana. Si tratta di un’idea largamente diffusa fra i primi pensatori e autori cristiani. Nessun contatto possibile con idoli e false credenze, ma rispetto per quanti, sia pure in modo incompleto e confuso, vengono illuminati dalla potenza del Logos. L’affermazione, anche appassionata, della propria appartenenza cristiana non impedisce dunque uno sguardo pieno di comprensione verso le culture diverse e non mette in discussione il dovere di dare loro il pieno completamento delle loro istanze profonde attraverso l’annuncio cristiano, ma con una consapevolezza precisa. Leggo su un diffuso settimanale che afferma nel titolo la sua ispirazione cristiana che il gesto di rimozione e distruzione delle statuette rivelerebbe «l’ignoranza colpevole e ostinata di chi ritiene che si debba distruggere tutto quanto non è cristiano per rivendicare la propria identità di credenti in Cristo, impiantando la croce sulle macerie della storia e dell’umano che le culture e le religioni rappresentano»: i due testi letti ci insegnano che non si tratta né di distruggere né di impiantare croci, bensì di valorizzare aneliti e tensioni delle culture non cristiane permettendo loro di ottenere, con l’annuncio cristiano, quella risposta al loro desiderio alla quale non sarebbero in grado da sole di pervenire, senza condividerne comunque (e su questo il Cristianesimo primitivo è netto) idoli e riti.
A questi principi Giustino ha uniformato la sua vita, fino al martirio, subito a Roma attorno al 165, con la seguente motivazione:
«Coloro che si sono rifiutati di sacrificare agli dèi e di sottomettersi all’editto dell’imperatore, siano flagellati e condotti al supplizio della pena capitale, secondo le vigenti leggi».
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