Rigoletto, opera di Giuseppe Verdi

 

 

di Giovanna Ognibeni

 

Ricordate i vostri incubi? Quelli di voi che rientrate nella mia fascia (elastica ormai) d’età probabilmente avranno sognato più di una volta con sgomento di dover sostenere di lì a poche ore l’esame di maturità proprio nelle materie più ostiche o meno studiate: si vive l’agitazione del non essere preparati ma inspiegabilmente si accetta come normale l’imprevista situazione. A tutti poi sarà capitato di trovarsi in mutande alla fermata del bus: anche lì si vive l’angoscia di non capire come sia stato possibile il fatto, perché si è perso il passaggio cruciale, mentre si attende che gli altri si accorgano della vostra situazione imbarazzante.

Il risveglio ci salva dalla catastrofe. L’incubo più inquietante credo sia però quello in cui si è consapevoli di stare dormendo, mentre una minaccia incombe. Con dolorosa fatica si riesce a svegliarsi per accorgersi subito che anche quello è un sogno da cui occorre liberarsi poiché il pericolo è sempre più vicino. Solo dopo tre, quattro risvegli fittizi ci si sveglia definitivamente e solo allora si riesce ad apprezzare la qualità diversa della realtà rispetto al più creduto dei sogni.

Per molti di noi questi anni sono come se si fosse ancora al terzo risveglio in attesa di quello che solo a posteriori si rivela essere quello vero. L’incubo consiste nel doversi confrontare con l’assurdo logico e fare quindi esperienza di un penoso, a tratti doloroso, senso di impotenza. Quattro sembrano essere i moderni pilastri del sapere e del pensiero. Diritto all’aborto, cambiamenti climatici, i Black Lives Matter e la questione regina, i diritti LGBTQ+. Questi ultimi sono per così dire, nella loro sfolgorante epifania e senza alcuna intenzione blasfema, “la radice e il germoglio” della modernità, meglio dell’ultima verità, almeno in ordine di tempo.

È dal punto di vista esclusivo della ragione che considero scandalosa la proposizione del discorso nei termini in cui viene portata avanti. Che un tale si senta e voglia esser chiamato Gigliola anche se nato Arturo, nome datogli dai genitori a pisel veduto (battuta inqualificabile, lo so) passi: abbiamo avuto l’uomo gatto, la donna Barbie – in coppia con il “Ken umano” – e nessuno ha invocato il TSO perché dobbiamo rispettare la libertà di scelta eccetera; possiamo rispettare la sua gigliolanza.

Semmai sarebbe interessante riflettere ed anche, ma non vorrei esagerare, aprire a studi sulle possibili cause di questa esplosione (reale, mediatica?) di disagi, di insoddisfazioni del proprio genere. Un elemento è senz’altro la moda, non è affatto un’affermazione improvvida: in tempi assolutamente non sospetti, in molti si suicidarono per imitare Il giovane Werther di Goethe. Oppure il disagio di chi avverte la mancanza di senso della propria esistenza e trova l’offerta di un cambiamento radicale di sé. E mi si concederà che appena sotto il suicidio troviamo il cambiare sesso, scusate: genere.

Ma smisuratamente più grave è l’affermare che ciò che vedi non è ciò che vedi, è l’assoluta idiozia eretta a sistema: è un po’ come uscire in maglietta a -7°perché hai voglia di sentirti in estate, è il comportamento del bimbetto che mette le dita nella presa elettrica giusto perché il genitore gli ha detto di no con la differenza che il piccolo, se non demente, dopo la prima volta impara. Questo avrei detto anni fa, ora devo sguainare la spada delle argomentazioni per affermare l’ovvio.

Una sola e qualunque affermazione gender-friendly va, a mo’ di spaccata in una vetrina, contro i tre principi della logica aristotelica. Parafrasando la grande lezione del nostro amatissimo italico Palpatine – non ti vaccini, ti ammali, muori o uccidi – affermi qualcosa e il suo contrario, ergo ti contraddici, ergo sei un bamba (scanso equivoci, lombardismo per sciocco).

Altra piccola irrilevante notazione: tendenzialmente le persone che sostengono la nozione di gender-fluid  sono i più decisi picconatori dei concetti di natura e naturale: il genere è per definizione una convenzione, un costrutto sociale eppure quest’ultima versione, che potremmo dire à la carte, del genere è divenuta un dogma contro cui s’infrange ogni possibile contestazione. E ringraziate che i roghi siano passati di moda. Per ora. Intanto i Torquemada ci sono già.

Mi ripeto, non intendo mettere a tema il fatto che Arturo si senta sé stesso solo quando indossa il tutù: probabilmente si potrebbe discutere all’infinito sulle motivazioni e sulla legittimità di un tale comportamento, ed anche giungesse un novello Kant a scrivere una Critica del Genere Puro alla fine si arriverebbe a scoprire che “un baratro è l’uomo e il suo cuore un abisso” (Salmo 63, vv.7-8). Quello che invece è potenzialmente esiziale, ove mai si affermasse totalmente, per la stessa ragione umana è il salto starei per dire ontologico dalla sfera del sentimento, del desiderio a quella della logica che ne verrebbe così scardinata alla base.

Che uno possa perdere reputazione, lavoro e in fondo la stessa ammissibilità nella comunità se afferma che solo le donne hanno l’utero con tutto quel che ne consegue, è uno scandalo in prima battuta non per la morale ma per l’uso elementare della logica, che questa si debba inchinare non alle argomentazioni, per quanto spericolate, di Arturo ma ai suoi desideri, alle sue preziose e minacciate emozioni è potenzialmente eversivo, oltreché stupido oltre ogni immaginazione.

Il meccanismo di simili processi comunicativi è di gran lunga peggiore che non tutte le incongruenze dei romanzi distopici come 1984, Brave New World o persino delle affermazioni sui vaccini o sulla guerra putiniana; perché in questi casi viene perlomeno salvata la plausibilità teorica  delle singole affermazioni: voglio dire che è plausibile che un vaccino impedisca il contagio e che in certi casi sia di vitale necessità  assumerlo: vedi ad esempio quello per la febbre gialla o per il tetano. Ci sono certamente dei fattori concomitanti che rendono vera e logica quella assunzione, per cui il vaccino per la febbre acquista il carattere di necessità per chi va in Africa o in altri luoghi afflitti dalla malattia o l’antitetanica per chi si trova per lavoro o altro a forte rischio di contrarre la malattia.

Quindi non appena convinci la maggioranza delle persone che il morbillo o l’acne sono potenzialmente fatali (pubblichi studi su rischi di sovra infezioni, stress psicofisico e porti i casi di tre suicidi correlati, uno del ’55 nel Wyoming, uno del ’67 in Svezia e uno dell’88 nel New Jersey) ecco che hai prospettato la soluzione vaccinale come la più plausibile. Per parafrasare il buon vecchio Archimede datemi la leva del N.Y.T. e faccio vaccinare l’intero orbe terracqueo contro la temibilissima acne.

Analogamente, qualsiasi guerra presenta caratteri tali, ancorché fosse condotta da Lancillotto, Galahad e Parsifal in task force, che puoi darle il significato che vuoi.

Ma qui, nel dominio del transgenderismo, non trovi nessun appiglio cui aggrapparti per sostenere che Arturo possa avere ciclo, utero e un magnifico bebè da allattare al seno. I fatti sono duri e spesso antipatici, ma tant’è. Dall’età della pietra l’uomo cerca di ottenere l’impossibile, si chiama magia e il suo racconto è favola, ma la gente sa che non funziona.

A meno che… a meno che tu non faccia passare l’idea che la natura e la realtà sbaglino, e che si debba riparare l’errore. In qualche modo si è elaborata una teoria alternativa del peccato originale: a quella oscurantista, repressiva e bigotta secondo la quale l’infrazione all’ordine (non nel senso di comando ma in quello di cosmos, di tutto a posto) ha generato tutti i mali, mica solo il transgenderismo ma l’infinita serie di bassezze che avvelenano la nostra vita e quella di chi è raggiungibile dalla nostra onda d’urto, va sostituita quella del peccato originale del Creatore (come l’abbiamo inventato noi ben s’intende!). Ché se quel trio di incapaci, Adamo Eva e il serpente, avessero saputo farci, ora staremmo una figata.

Una che scrive sui giornali – parafrasando il buon Manzoni, ci manca il cuore di chiamarla giornalista – tempo fa in uno sforzo titanico di sinapsi cerebrali enucleò il concetto che la pratica dell’utero in affitto, o comodato d’uso se vi sembra meglio, valga di rimedio per le coppie dello stesso sesso all’ingiustizia della Natura. Chiunque stia affogando, casomai abbia il poderoso intelletto della sunnominata, sarebbe profondamente d’accordo sull’incredibile fregatura che la Natura gli ha rifilato non dotandolo di branchie.

Che rispondere a tanto argomentare?  Persino i bambini quando si inventano personaggi dicono: “facciamo che io sono un poliziotto e tu il bandito”, vale a dire hanno la percezione della frattura insormontabile tra la realtà e la finzione. Questi no, questi si creano degli avatar e pretendono di farli agire nella nostra realtà. Nell’attesa che li soccorra il buon Zuckerberg col suo mirabolante Metaverso, possiamo riflettere muti come Giobbe sul fatto che questa ondata che ha già raggiunto le nostre rive venga da molto lontano.

Ognuno di noi quotidianamente deve fare continui aggiustamenti tra ciò che è e ciò che è il suo Avatar: il mio per esempio non raggiunge i cinquant’anni; dipende dalle mattine ma qualche volta si attesta sui 42, 43. Complice il nuovo modo di vestire – no agli abiti blu a fiorellini bianchi e calze elastiche: soffri e rischia flebiti, ma non arretrare d’un metro la tua linea Maginot – infiltrazioni di qua e di là, ipnosi pubblicitarie su attempate che si esibiscono in balli caraibici o volano appese in liana nelle braccia del promesso sposo, rese intatte come Grazie foscoliane dalle mutandine a prova di caraffa (e comunque non solo  oggi ma anche trent’anni fa, se per accasarmi avessi dovuto sorvolare un burrone, cosa oltremodo idiota, eccome se avrei avuto bisogno di quelle mutande!).

Mi par di sentire già il grido che percorre e intimorisce tutto l’Occidente: Carampane di tutto il mondo, unitevi! Forse ho dato troppo spazio al tema, si sa la lingua batte dove il dente duole, ma è un fatto che il mio esempio, per di più contenuto in una cornice di scricchiolante razionalità, apra sulla sindrome del “facciamo che” generale. Io mi limito in fondo a non comprare quel nuovo specchio a figura intera, sollecitato dalle figlie. E ringrazino che non copro quelli esistenti con drappi neri. Perché lo specchio, soprattutto alla luce cruda, e crudele, del mattino mi distrugge in un secondo netto l’avatar di vent’anni più giovane.

Gran Putifarre! direbbe Kit Carson. Lo Specchio delle mie brame è rozzamente tetragono e assolutamente non inclusivo, e la prima reazione è quella di offendermi peggio che per un trans essere appellato col pronome sbagliato.

Dicevamo dell’onda lunga: ha iniziato ad increspare le acque da decenni negli Stati Uniti; qui da noi, ultima provincia dell’Impero, sta giungendo ora, salutata con entusiasmo come i primi jeans e i chewing gum, dette da noi in modo ruspante cingomme. Sono state lanciate le mode dell’uomo gatto, o tigre, della fuori di testa che si sottopone a decine di operazioni chirurgiche per sembrare Pamela Anderson, e sin qui si può quasi capire, o Barbie; o delle due gemelle siamesi, unite dal torace in giù, che parlano delle loro prospettive di matrimonio con la stessa nonchalance con cui ci mostrano il loro esame di guida,

Del resto, basta rifarsi al caso del demente – etimologico, fuori di testa – Anthony Loffredo, che dopo essersi fatto amputare dita, orecchie, tatuare bulbi oculari, tagliare la lingua a metà e non ha ancora finito, si lamenta di non trovare lavoro. La parola d’ordine in tutti i casi è normalizzazione. Tutto è normale, perché nessuno abbia a recriminare su un destino cinico e baro. La seconda parola mantra è merito: noi ci meritiamo questo e non ci meritiamo quello, e il resto del mondo si adegui.

Numerose sono le emittenti e le linee editoriali che vogliono perpetuare una platea di eterni infanti, proponendo loro una visita continuata al circo Barnum dell’esistenza, fornendo poi le scatole per continuare la rappresentazione (fate caso che ogni gioco televisivo ha pronte la scatola o la rivista per continuare lo spasso), montando e smontando ogni realtà-giocattolo, matrimoni, professioni, malattie, cerimonie e via dicendo. È perlomeno dagli anni ’50 che l’How to do it è sempre valido.

Siamo più di sette miliardi, e numericamente valiamo un decimo di un contadino del medioevo, ci lasciano giocare con macchinine e pentolini, quando non ci fanno regredire alla fase sensoriale dei sei-sette mesi (vedere la pubblicità per credere: questa è l’idea di semplicità che hanno i pubblicitari di noi: deficienti integrali, la famiglia del Mulino Bianco al completo vittima di una brutta encefalite). Ma ci fanno credere che siamo importanti, che siamo così autonomi da decidere anche chi essere.

Se tutto è possibile, se tutto è intorno a te, che senso ha porsi dei limiti? Chi siamo noi per giudicare? E soprattutto a che serve giudicare?

Se la stessa violenza dell’eruzione fa sperare che non manchi poi molto (mesi, anni, decenni? Ah, saperlo) per la combustione interna di questa insensatezza, qui possiamo dirlo, no, non planetaria, solo occidentale; e questa non cultura, non civiltà passi come un Tamerlano, che dopo aver distrutto città, popolazioni, ucciso a centinaia di migliaia, se non milioni, i nemici, ad un certo punto si ritira da quella che era un’avanzata inarrestabile verso occidente nei suoi territori, per tentare un’impossibile conquista della Cina, muore e in pochi anni il suo impero si sgretola,  tuttavia non possiamo non spaventarci per la smisurata quantità di cadaveri che giaceranno sul terreno.

E allora come non pensare ai mercenari di quello spietato esercito, ai sicari, ai manipoli di intellettuali e di amministratori di istituzioni pubbliche, nazionali e sovranazionali, magistrati, consigli di amministrazione, giornalisti che si sono piegati a questo incubo dove tutti siamo ridotti come l’imperatore di Andersen e, per un mix esplosivo di imbecillità nativa e di un altrettanto primigenio spirito da lacchè hanno contribuito, senza lesinare sforzi, a dar voce e finta credibilità a queste idiozie! Perché badate bene: l’aspetto geniale della fiaba di Andersen è che tutti si accorgono che l’imperatore è nudo, ma nessuno ha il coraggio di essere il primo a dirlo, probabilmente anche adoperandosi per convincere i più ingenui. Perché tutti questi, tutti, sono scaltri ed ipocriti, non bisogna mai dimenticarlo. E pavidi. E scrocconi.

Cortigiani, vil razza dannata, cantava Rigoletto.

 


 

Sostieni il Blog di Sabino Paciolla

 





 

 

Facebook Comments