Intelligo ut moriam.
L’intelligenza artificiale che ti dà istruzioni su aborto ed eutanasia
di Giorgia Brambilla
L’ha presentato Luca Coscioni, il che non fa presagire nulla di buono. È stato sviluppato nella sua parte tecnologica dal Gruppo Revevol fondato da Massimo Cappato; e andiamo sempre peggio. Ma quando capisci cos’è quasi non ci credi. Si chiama CitBot, è un’intelligenza artificiale in grado di dare risposte ai cittadini 24 ore su 24 su questioni finora considerate se non “bioetiche”, perlomeno sensibili, visto che ne va della vita delle persone: testamento biologico, aborto e, tra poco, fecondazione artificiale e contraccezione, ma anche diritti dei detenuti e sostanze stupefacenti. In pratica, vuoi sapere come fare ad abortire dopo un “rapporto non protetto” o come fare per evitare di “vivere attaccato a una macchina”? Parlane in chat, nel più totale anonimato, con CitBot!
La notizia (qui) riporta la solita retorica falsa ma “gentile” di stampo radicale: agevolare la conoscenza dei diritti e dell’attuazione pratica per aumentare la libertà dei cittadini.
Io, invece, non ci vedo né conoscenza, né diritti, né libertà. Ci vedo solo tanta solitudine.
Le “istruzioni per l’uso” vanno bene se devi montare un mobile o cucinare una torta. Su temi, invece, nei quali è insita inequivocabilmente una domanda di senso come accogliere o rifiutare un figlio se già c’è e non lo volevi, o “produrlo” se non arriva, oppure richiedere l’aiuto al suicidio perché sei disperato o valutare se un tuo caro ha “diritto” di morire oppure no, non si può trovare risposta “via chat”. E questo perché la risposta a questi problemi non è data dal risultato della somma delle informazioni. Queste sono domande che cercano una risposta che supera infinitamente definizioni, nozioni e tecnicismi. L’esistenziale non si esaurisce nel materiale e nel contingente. Questo un cyborg non potrà mai decodificarlo.
Inoltre, la persona è un essere costitutivamente relazionale, il suo essere è un esse per, profondamente “rivolto” verso l’altro (persona, in greco antico, è pros-opon). Qualsiasi domanda di senso ci interpella come uomini e richiama una relazione e, dunque, una responsabilità verso l’altro. Il concetto di responsabilità si evince dal quadro dell’esperienza etica originaria in cui ogni uomo si trova coinvolto per il fatto stesso di essere uomo. Esperienza che la ragione comprende e interpreta e che inizia nel momento in cui l’uomo coglie se stesso come esistente e chiamato, nello stesso tempo, a prendere posizione e a rispondere all’esistenza di fronte a un quadro di valori. La responsabilità reclama pertanto un paradigma antropologico di riferimento, una struttura umana di fondo, intesa come un dato e come un compito, ove i valori etici indicano le condizioni attraverso cui passa la realizzazione in quanto uomo.
Senza questo ancoraggio e questa fondazione antropologica, viene a mancare la giustificazione ultima del proprio agire e della propria libertà: tutto diventa semplice questione di convivenza politica o di giustizia nello scambio sociale. Si diventa ciechi – perché si smarrisce il valore dell’uomo in quanto tale e, dunque, viene a mancare la risposta al lecito o all’illecito – e sordi al dolore altrui e proprio. È la responsabilità stessa, insita nella nostra umanità, a spingerci, invece, ad indagare continuamente sui valori che fondano e rendono possibile la dimensione umana dell’esistenza, sui diritti inviolabili dell’uomo e sulle sue esigenze irrinunciabili relativizzando il mito di una libertà totale non responsabile di fronte a nessuno al di fuori di se stessi.
Rifugiarsi in una chat per trovare risposte fondamentali sulla propria vita e su quella degli altri, se da un lato è coerente con il solipsismo del dipendente tecnologico che sostituisce le relazioni umane e affettive e anche la realtà stessa con quella virtuale, dall’altro spinge l’individuo sull’orlo dell’abisso nichilista di chi esalta libertà prive dell’unico contenuto capace di dare loro voce, ovvero il valore inalienabile dell’essere umano.
Come può un’intelligenza non umana cogliere quella “nudità” del volto sofferente (E. Levinas, L’epifania del volto) che interpella ogni uomo inequivocabilmente? Non dovrebbe essere questo, oltretutto, uno dei compiti più profondi della professione medica, basata su quell’alleanza terapeutica tanto sottoscritta e già dimenticata? La notizia accenna al rapporto medico-paziente, dicendo che il cittadino “verrà rinviato ad approfondimenti col proprio medico”, ma l’idea contraddice a monte l’essenza stessa dell’atto medico. È il medico non può che trovarsi spaesato di fronte a questa “nuova etica”, tanto da cominciare a pensare di cambiare addirittura il proprio codice deontologico (qui), originariamente fondato sul quel “primum non nocere” di Ippocrate, cancellato ormai dall’impunibilità dell’aiuto al suicidio stabilita recentemente dalla Corte Costituzionale.
Dunque, spodestato pure il medico, che tipo di conoscenza si vuole promuovere? Evidentemente, una conoscenza filtrata, dunque parziale ab origine, e frammentata, oltre che condizionata e condizionante.
Prendiamo come esempio l’aborto. La donna normalmente non compie la sua scelta in condizioni di serenità, bensì di grande ansia e pressione, che sovente le fanno provare un senso di costrizione e di impotenza. In uno stato emotivo come questo, immaginiamo si rivolga a CitBot, che le mette sul tavolo tante informazioni tecniche: a che settimana gestazionale si trova, gli ospedali dove può optare per l’aborto farmacologico, magari con CAP, mappa e numeri di telefono, l’ente preposto per ottenere il certificato e quanta acqua bere prima di fare l’ecografia. Ha risposto alle sue domande? Forse sì. Era questo ciò di cui aveva davvero bisogno quella donna? Sicuramente no. Quella donna, infatti, tra le righe di quelle risposte cercava qualcosa che nemmeno il cyborg più “intelligente” di tutti potrà dare mai: la prossimità. Solo l’uomo può mettere olio sulle ferite del suo prossimo, come il “buon samaritano”; solo l’uomo sa “sporcarsi” col dolore dell’altro, accogliendolo intimamente. E questo perché le persone dialogano con un linguaggio che va ben oltre quello verbale: cor ad cor loquitur (sant’Agostino).
Anche l’ennesimo accento sulla libertà è fuorviante. Torniamo all’esempio di prima. Ciò che la donna – spesso in una posizione ambivalente riguardo al proprio aborto – sperimenta è che l’aborto era per lei “l’unica scelta possibile”. Ora, avere un’unica scelta (o credere di averla) significa non poter effettuare un vero atto di autodeterminazione; al contrario, significa essere determinati in una certa direzione, essere determinati da altro, cioè essere “eterodeterminati” (C. Navarini, Post-aborto e autodeterminazione della donna). La libertà della donna nel percorso che la porta fino all’aborto è generalmente limitata e, se la sua autonomia le conferisce la capacità e la possibilità di richiedere per se stessa l’aborto volontario, la sua reale autodeterminazione risulta nei fatti compromessa, quando non del tutto assente. CitBot non aumenterà in queste donne la libertà – come se poi la libertà “aumentasse” scelta dopo scelta come sommando le palline di un abaco – ne rimarcherà soltanto la solitudine, allargando il baratro del male morale. Come può rendere liberi sapere quel poco che basta per realizzare il desiderio del momento senza né aver vagliato con la ragione quel desiderio né conoscere in maniera completa ciò che si va a fare (effetti collaterali, identità dell’embrione, ecc.)? E tutto questo senza essersi confrontati con qualcuno di reale, prima ancora che competente, con qualcuno che sia umanamente coinvolto, affettivamente o professionalmente. Questo rimpicciolisce l’essere umano a mero esecutore di un impulso del momento, carico di una sofferenza di cui nessuno si è fatto carico e, quindi, riduce, anziché ampliare, la sua libertà.
I doveri nei confronti delle altre persone e del mondo in cui viviamo si definiscono all’interno di una situazione concreta di relazioni umane, all’interno di un ordine di prossimità. L’identità del mio io dipende dalla fedeltà al patto originario col “tu”, che lega la mia libertà e la orienta alla realizzazione del “noi”: in ciò consiste precisamente il fondamento della dimensione etica dell’agire umano. Come scrive Hans Jonas (Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica), che cosa capiterà a quell’essere, se io non mi prendo cura di lui? Quanto più oscura risulta la risposta, tanto più nitidamente è delineata la responsabilità umana.
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