Hans-Kung
Hans Küng, teologo

 

 

di Pierluigi Pavone

 

Lui è diventato famoso per la critica alla infallibilità del Papa. E molto altro, che può essere sintetizzato in tre nuclei teologici ormai noti: l’ambito morale (famiglia e eutanasia); l’ambito ecclesiologico (forme alternative di sacerdozio e democratizzazione storicistica di qualsiasi dogma); l’ambito teologico (la revisione della divinità di Gesù e il più assoluto sincretismo evolutivo).

Ma – io ritengo e propongo a discussione – faremmo un cattivo uso della sua eredità, se ci limitassimo a denunciarne i punti di esplicita rottura con il Credo cattolico. Dobbiamo invece cogliere l’occasione per risalire, ancora una volta, alla matrice teologica che ha reso possibile Hans Küng e tutto ciò che lui ha creduto e come e dove questo viene valorizzato e/o attuato, oggi.

Certo proprio sull’aspetto sociologico e storico, così caro al suo modernismo indeterminato, potremmo già far notare una pia curiosità: fino a quando si trattava di criticare gli aspetti o le encicliche o le resistenze “conservatrici” dei vari pontefici, tutto era permesso. Anche la pastorale della disobbedienza pratica. Ora, però, quelle stesse posizioni sono divenute minoritarie, per quanto poi – come si addice alla Provvidenza – la drammatica situazione attuale pare aver destano non poche coscienze a riscoprire provvidenzialmente la piena ortodossia. E si è giunti a rendere addirittura omaggio pubblico alla speculazione teologica di Küng. E questa sorta di “Cristianesimo alternativo o sui generis” (il termine progressismo non rende bene l’idea) – persino nelle sue forme più radicali, se non apostate della dottrina cattolica di sempre – è stato assunto a dogma assoluto e infallibile esso stesso.

Ora c’è solo il silenzio per chi osa soltanto esprimere dubbi o perplessità.

Ora viene chiesta l’uniformità indistinta persino sui social. 

Cosa sarebbe accaduto se la stessa misura fosse stata assunta per le posizioni morali di Giovanni Paolo II o quelle liturgiche di Benedetto XVI?

O “peggio ancora” quando si sollevavano dubbi (e si continua a fare) sulla possibilità di applicare l’ermeneutica della continuità, in alcuni passaggi controversi dei documenti conciliari?!

Perché qualsiasi dogma cattolico può essere revisionato e de-mitologizzato (come piace dire in certi accademici corridoi) tranne ciò che è accaduto nel secondo Novecento e poi ancora negli ultimi anni?!

Tuttavia non possiamo limitarci ad una analisi sociologica, né ridurre tutto a “questioni di partito”: in campo c’è la fedeltà al Vangelo e a ciò che Cristo ha depositato perché venisse nei millenni custodito. Cristo è la misura. Non certo l’uomo. Con buona pace dei sofisti greci e dei teologi tedeschi (e non solo tedeschi). C’è poco da aggiungere a riguardo se alcuni teologi contraddicono chiaramente la stessa teologia di Dio, perché pare ne sappiamo più di Cristo quanto a peccato, inferno, Sacrificio di espiazione, Giudizio, matrimonio, sacerdozio, ecc.

 

Ma dobbiamo fare uno sforzo maggiore.

Hans Küng è un teologo che ha operato secondo tre principi, tre assiomi coerenti e complementari: l’idea cabalistica di Dio come Indeterminazione assoluta (già analizzata qui); il misconoscimento della Trinità, l’identificazione di Dio con l’immanenza progressiva ed evolutiva del processo storico dell’umanità, dentro cui assorbire la stessa storia della Chiesa.

In virtù del primo assioma può legittimare ogni forma di sincretismo; in virtù del secondo assioma, può relegare a mito qualsiasi aspetto teologico che si riferisce a Cristo, in quanto Incarnazione del Logos; in quanto Sacrificio espiatorio per il peccato di Adamo, in quanto unica Verità e unica via per il Padre; in virtù del terzo assioma può legittimare ogni forma di revisione/evoluzione di qualsiasi dogma o istituzione o dottrina, fosse anche esplicitamente contenuta nel Vangelo, perché il Vangelo stesso è da intendersi come momento speculativo di Dio, nel Suo processo storico di auto-rivelazione razionale e dialettica.

Hans Küng è un “teologo cattolico” (si fa per dire) che è stato in grado di scrivere che: «credere in Dio Padre, secondo il Nuovo Testamento, significa credere nell’unico Dio: questa fede nell’unico Dio è comune al giudaismo, al cristianesimo e all’islamismo. […]. Credere nel Figlio significa credere alla rivelazione dell’unico Dio nell’uomo Gesù di Nazareth. […]. Credere nello Spirito Santo significa credere nella potenza e nella forza di Dio operanti nell’uomo e nel mondo»[1]. L’Incarnazione altro non sarebbe che la predicazione e l’opera di Gesù in tutta la sua esistenza, come manifestazione della volontà di Dio. Dio stesso, in un connubio tra oriente e occidente, è «vuoto», nel senso di indicibile, ed è, nel senso di «nascosto mistero dell’essere: non un super essere, ma il misterioso unificatore presente in ogni ente, l’essere stesso come fondamento, centro e fine di ogni ente e di tutto l’essere: immanente e insieme trascendente rispetto a ogni cosa»[2].

Ora, che cosa significa misterioso unificatore presente in ogni ente? L’essere formale di ogni ente? Se così fosse Küng condividerebbe in ultima battuta una visione panteista. Però si potrebbe obiettare che definisce Dio nella doppia valenza di immanente e trascendente. A parte che è sufficiente studiare la differenza ontologica spiegata da Tommaso d’Aquino per capire la differenza tra Dio che è l’essere per essenza e gli enti che hanno l’essere per partecipazione, senza che questo implichi la considerazione panteista o la considerazione dell’essere di Dio come un genere sommo. Lo stesso Aristotele negava che l’essere sia un genere. Detto ciò, il riferimento più vicino a Küng sembra essere Giordano Bruno – che almeno ebbe il pudore di morire anti-cattolico, piuttosto che pretendere di insegnare teologia cattolica – quando distingue Dio come Mens super omnia e come Mens insista omnibus. E Giordano Bruno è un convinto ilozoista, fermo assertore del vitalismo della materia divina.

Hans Küng, allora, non è “semplicemente” un teologo d’opposizione o il teologo ribelle, o il teorico del Vaticano III, e ancora e ancora. Con buona pace di Mons. Forte (vedi qui), non ha offerto nessuno “stimolo costruttivo” alla Chiesa cattolica, semmai demolitorio, compresa la sua versione e interpretazione e manipolazione dello stesso Vaticano II. Anzi, interpretando la storia della Chiesa e l’azione dello Spirito Santo secondo una lente hegeliana, non si muove neppure più sul campo della eresia, quanto su quella della apostasia più esplicita del Cristianesimo in quanto tale. Persino il luterano Kierkegaard intuiva questa contraddizione, contro Hegel e contro la Chiesa danese del suo tempo che aveva assunto le posizioni della cosiddetta “Destra hegeliana”, cioè aveva assunto la teologia hegeliana a baluardo della teologia cristiana (qui per approfondire specificatamente).

È infatti Hegel – come avevamo modo di chiarire in un articolo (qui) a lui dedicato per il bicentenario dalla nascita – il vero creatore del concetto teologico di Dio come Indeterminazione illimitata di volontà che diviene e si rivela razionalmente nel mondo, in cui bene e male coincidono, quanto essere e nulla. È il vero creatore del concetto attuale di “momento ateo di Dio”, con cui intende il simbolo della Croce come il momento della auto-alienazione di Sé, da parte di Dio che ancora non si conosce come Spirito e Ragione del mondo. È il vero creatore della identificazione dello “Spirito di Dio” con lo “spirito del mondo”, rispetto a cui qualsiasi contraddizione, qualsiasi religione, qualsiasi cultura, qualsiasi credo, qualsiasi istituzione, sono raccolti ad Unità e Sintesi dialettica, nella immanenza assoluta della storia.

Contro questa pseudo-teologia, abbiamo il dovere di distinguere lo spirito del mondo come spirito dell’Anticristo, contro cui agisce – proprio in nome del Figlio – lo Spirito Santo. Ovvero, la Terza Persona della Trinità, che “consola” i cristiani fedeli e giudica il principe di questo mondo in quanto tale, e giudica il mondo proprio, nel rifiuto della divinità del Figlio (cfr. Gv 14).

 

 

[1] H. Küng (e altri), Cristianesimo e religioni universali, trad.it. G. Moretto, Arnoldo Mondadori, Milano 1986, p. 150.

[2] Ibidem, p. 468.

 

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