Un lettore mi scrive e volentieri pubblico.
La lettera è indirizzata ad una persona che aveva confessato al lettore di non riuscire a dimenticare le angherie subite per non essersi vaccinata e di non riuscire a frenare la rabbia verso quanti, anche persone a lei vicine e spiritualmente vive, dopo aver partecipato convintamente alle menzogne e alle violenze del regime, adesso minimizzano l’accaduto e invitano a “passar oltre”.
Ti capisco molto bene, amica mia, ho persone care che hanno fatto come te e hanno dovuto subire le tue stesse umiliazioni. Io ho pagato molto meno di voi, ma non ho mai condiviso la logica del Green Pass, pur dovendola subire per motivi che non sto ora a spiegare. Eppure, anche solo questo è bastato agli occhi di molti per farmi apparentare ai no vax e per rovinare molti rapporti.
A livello personale, secondo me, adesso non c’è modo di uscirne se non nella direzione accennata in questo articolo, che conoscerai:
Si tratta insomma di rimanere, da un lato, fermi nella rivendicazione della verità e della giustizia, e, dall’altro, disporsi al perdono, evitando di lasciarsi intossicare da una rabbia insana, e trasformandola invece in una rabbia santa. Così cerco di regolarmi io.
Provo a spiegarmi ulteriormente, come posso, a partire da S. Tommaso (De Malo, q. 12, a. 1). Esiste, lui dice, un’ira buona e una cattiva. “Infatti, è chiaro che, quando uno cerca la vendetta secondo l’ordine richiesto dalla giustizia, questo è un atto virtuoso, per esempio quando cerca la vendetta per correggere il peccato, rispettando l’ordine giuridico: e questo è adirarsi contro il peccato. Quando, invece, uno tende disordinatamente alla vendetta, questo è peccato, o perché cerca la vendetta contro l’ordine del diritto, o perché cerca la vendetta piuttosto mirando all’annientamento di chi pecca, che all’abolizione del peccato: e questo è adirarsi contro il proprio fratello”, cioè quella forma di ira che è condannata in Mt 5, 22.
Insomma, secondo me, hai tutto il diritto di essere arrabbiata, e anch’io non voglio rinunciare a nutrire una rabbia razionale (cioè conseguente al giudizio della ragione, come spiega poi S. Tommaso), spinta cioè dal senso della giustizia e quindi dalla necessità di rimediare all’ingiustizia. Guai a rinunciare a combattere per la giustizia e per la verità! Verrebbe meno la stima di se stessi e la stessa fiducia in Dio. Se è orientata alla giustizia e alla verità la rabbia è una santa rabbia, che ha qualcosa a che fare con l’ira santa di Dio, e così può diventare un servizio, non un danno, per se stessi e per gli altri. Ma questa conversione della rabbia è possibile solo se accettiamo di abbandonarla a Dio, e noi con essa, rinunciando a farla degenerare in rancore e desiderio di vendetta sull’altro. Insomma, per far sì che la rabbia non diventi nociva per sé e per gli altri senza rinunciare al desiderio che sia resa giustizia, bisogna depositare questa rabbia in Dio per lasciare che sia lui a maneggiare la sua ira. A noi, in questo modo, viene data la possibilità di ricevere da Lui la disponibilità al perdono, cioè la disponibilità a non rompere il rapporto con gli altri, nella consapevolezza, ricevuta dall’amore di Dio, che c’è qualcosa in ciascuno di noi (a cominciare da se stessi) che è più grande degli errori che fa, e a cui si può fare sempre appello per ripristinare l’umanità perduta.
Questo non vuol dire che tu non debba mantenere le distanze dalla comunità che ti ha infamato, se senti che non fa per te. E, soprattutto, non vuol dire certamente passare semplicemente oltre il torto subito. Questo, purtroppo, è quel perdono a buon mercato, che è in realtà perdono del peccato anziché del peccatore, sul quale di solito ripieghiamo per non tribolare troppo, ma non è opera di Dio. Il perdono di cui parlo non è cosa di cui siamo capaci da noi, bisogna chiederlo a Dio, in Cristo. Innanzitutto, quale disponibilità a perdonare da parte di chi il torto l’ha subito, senza affatto rinunciare ad affermare la giustizia e la verità. Questa è la mitezza evangelica, una virtù che, non per niente, nelle beatitudini è affiancata a quella degli affamati e degli assetati della giustizia e dei perseguitati per essa. Questa mitezza, questa disponibilità al perdono, libera la rabbia dalla sua tossicità, e dà pace all’anima, riconciliando chi ha subìto il torto innanzitutto con Dio, accettando che sia Lui a fare giustizia. Per quanto riguarda gli altri, la riconciliazione, dato che è bilaterale, può avvenire solo se chi è stato autore del torto vuole ricevere il perdono; e può riceverlo solo attraverso il pentimento, e cioè il riconoscimento dell’ingiustizia di cui si è stati partecipi. Solo così il perdono può fruttificare anche in colui che lo riceve.
Personalmente, perciò, io prego sia per me, per essere capace di perdonare senza rassegnarmi all’ingiustizia, sia per gli altri, perché ritrovino, riconoscendo l’ingiustizia, la loro umanità.
Grazie della tua attenzione, e scusa la lunghezza. Un caro saluto
(lettera firmata)
Personalmente credo che il meccanismo ormai plurisecolare della sovversione strutturata (ovvero rivoluzione) sia qualcosa che viene dal maligno e, di riflesso, da coloro che ne sono vittime avendo acconsentito ad esserne dominati. Non può che essere diabolico un piano che ha previsto una così profonda lacerazione sociale che ha coinvolto ogni ambito delle umane relazioni, perché nulla è avvenuto per caso come purtroppo molti ancora tendono a credere.
Un certo rammarico deriva tuttora da una sensazione (e a volte molto più di essa) che mi assale circa il mancato ravvedimento di chi, succube di questa deriva antiumana, ancora ostenta la sicumera di chi ritiene essere indiscutibilmente nel giusto.
In ogni caso ringrazio l’autore di queste righe le quali una volta di più ci dicono che solo implorando a Dio ciò di cui non siamo capaci ovvero guardare l’altro con simpatia ovvero l’immedesimazione con i Suoi pensieri e sentimenti, allora potremo cominciare poco a poco a rendere, per Grazia Sua, questo mondo un po’ meno disumano.