L’Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân sulla Dottrina Sociale della Chiesa ha da poco pubblicato la recensione all’ultimo libro di Gilberto Gobbi, dal titolo “Uomini e donne di Dio. Omosessualità e formazione della personalità nella vita consacrata” (Sugarco Edizioni, 2020). Di seguito il testo.
di Silvio Brachetta
Gilberto Gobbi intuisce che a monte della questione dell’omosessualità nel sacerdozio cattolico, assieme a diverse concause, c’è soprattutto il crollo della figura paterna. Il padre – ma anche il Padre, nel senso di Dio Padre – e stato tolto di mezzo dalla modernità, specialmente negli anni a seguito del Sessantotto. Non si tratta soltanto di rammentare la dottrina, pure importante, di Freud e della sessualità infantile, ma c’è qualcosa di più sostanziale: il Padre, nella Rivelazione e, a maggior ragione, nel sacerdozio cattolico, è un fattore ontologico; è costitutivo dell’essenza del cristianesimo.
Non si può, dunque, valutare il fenomeno dell’omosessualità nel sacerdozio, sul medesimo piano di altri ambiti sociali. Se il sacerdote ha qualcosa di freudianamente irrisolto con il padre (o, spiritualmente, con il Padre), ne va della fede stessa. Anche il fedele chiama “padre” il sacerdote e lo stesso prete, non di rado, si rivolge al confratello come “padre”. Nella Chiesa – scrive Gobbi – «nel momento in cui va in crisi la figura del padre, viene messa in discussione l’autorità del Padre Eterno».
Gobbi fa il quadro di una Chiesa assai sollecita, nei suoi pronunciamenti magisteriali, nello scoraggiare l’ordinazione al sacerdozio non solo di coloro i quali praticano abitualmente l’omoerotismo, ma anche di chi ha una semplice tendenza all’omosessualità. Dal 1961 alle ultimissime disposizioni di Papa Francesco, la Chiesa sconsiglia risolutamente l’ingresso di persone omosessuali nel sacerdozio, sia pure «nel dubbio». Si tratta di una serie di documenti pubblicati nell’arco di mezzo secolo (o di semplici affermazioni pontificie) puntualmente disattesi, nella prassi, dalle decisioni dei direttori spirituali; di coloro, cioè, che devono accertare l’idoneità del candidato all’ordinazione sacerdotale.
Il direttore spirituale, di solito, è di manica larga: è un formatore non «formato», che senza molti scrupoli dichiara idonei al sacerdozio omosessuali potenziali o praticanti. Il risultato di queste scelte dissennate si manifesta negli scandali degli ultimi decenni, poiché – osserva Gobbi – «il 90% dei preti condannati per abusi sui minori, sono preti omosessuali». C’è dunque «uno stretto legame tra l’omosessualità dei preti e gli abusi sessuali sui minori». Ma anche volendo considerare la sola dimensione soprannaturale, è sufficiente costatare quanto il pansessualismo dilagante sia in contrasto con la purezza e la castità richiesta a tutti i fedeli e, a maggior ragione, ai sacerdoti.
Il nucleo delle disposizioni magisteriali, nel merito, si possono riassumere nell’Istruzione del 2005, a cura della Congregazione per l’Educazione Cattolica e controfirmata da Benedetto XVI. In essa – ricorda l’autore – si vieta l’accesso al Seminario e agli Ordini Sacri per tre categorie di persone: «coloro che praticano l’omosessualità», coloro che «presentano tendenze omosessuali profondamente radicate» e, infine, coloro che «sostengono la cosiddetta cultura gay». E, infatti, non è solo una questione di omosessualità: una certa parte dei formatori ha ceduto all’omosessualismo, ovvero a quell’«ideologia del gender» o «queer», che sta imponendo ovunque – anche in certi ambienti ecclesiali – la sua visione del mondo, amorale e anticristiana.
L’omosessualismo o il pansessualismo hanno pervaso, nell’ultimo mezzo secolo, ogni settore della società e nemmeno la Chiesa ne è rimasta immune. Una certa idea libertaria del Decalogo si è fissata stabilmente nelle coscienze di laici e chierici, raffreddando la fede e inducendo gli stessi sacerdoti a trascurare con leggerezza il sesto comandamento. L’omoerotismo, a seguito di questo convincimento, non è più considerato un ostacolo insormontabile e nei Seminari molti preferiscono chiudere un occhio di fronte alle vocazioni legate, in qualche modo, all’omosessualità. Le disposizioni del magistero sono così ignorate e si preferisce, eventualmente, rimuovere il problema a posteriori, magari per mezzo della psicoterapia.
E, in quanto psicoterapeuta, Gobbi ha seguito alcuni di questi casi. Nel suo libro, ne descrive due, assai significativi. Il primo comincia con l’ordinazione presbiteriale del candidato e finisce con l’abbandono della propria omosessualità, ma anche del sacerdozio, perché il chierico chiede una dispensa canonica e va a convivere con una donna. Cos’era accaduto? Che il giovane si è accorto, nel periodo pre-vocazionale e, poi, durante gli anni del Seminario, che l’istituzione ecclesiastica è spesso latitante e carente, soprattutto nell’ambito della formazione. Il prete racconta a Gobbi che «al catechismo il sesto comandamento era stato solo accennato». In seguito, quanto al suo direttore spirituale, «non ricorda una volta che gli venga chiesto se ha le “normali” attrazioni verso le donne» o se abbia «guardato giornalini e film porno». Eppure, il suo caso è stato quello di un soggetto non solo orientato all’omosessualità, ma praticante ordinariamente l’omoerotismo.
Fu dunque ammesso al diaconato, «con qualche dubbio da parte di un solo superiore». Nella confessione, inoltre, era minimizzata la pederastia e la masturbazione, con la scusa che «Dio è misericordia» e che sant’Agostino sentenziò: «Ama e fa’ quello che vuoi». Tanta superficialità non poteva che portare al fallimento e, di fatto, il novello prete fallì e sì trovò a dover abbandonare la tonaca, a causa dell’inconsistenza vocazionale.
Il secondo è un caso di orientamento omosessuale, che non si è concretizzato in atti peccaminosi. Il sacerdote, grazie ad una buona direzione spirituale, alla confessione e alla psicoterapia, è riuscito ad ottenere il controllo delle proprie pulsioni. Come nella precedente, però, anche in questa situazione, tanto il candidato quanto l’istituzione ecclesiastica non hanno ritenuto che quelle che lui chiama le «tentazioni sinistre» fossero in «contrasto con l’ordinazione presbiteriale».
Il sacerdote, tuttavia, ha mutato parere nel tempo. Divenuto egli stesso direttore spirituale del Seminario maggiore, al momento di votare l’ammissione al sacerdozio di due giovani con tendenza e pratica omosessuale, espresse parere negativo, convinto che i due «non dovevano essere ordinati sacerdoti».
In entrambe le vicende, comunque, i candidati o gli stessi superiori comprendono (o intuiscono) che l’omosessualità è un problema, se non un ostacolo al sacerdozio. Pur nell’esistenza di diverse tipologie di omosessualità – che l’autore elenca – ci sono evidenze che non possono essere ignorate, come l’incompatibilità tra sacerdozio e la violazione sistematica dei comandamenti divini. Se non altro, i candidati hanno sempre cercato un aiuto nelle istituzioni e nel supporto psicologico.
Gobbi presenta la sessualità, nel suo testo, come positiva, cioè come «progetto di libertà» e non come elemento opprimente della vita umana. Il sacerdote, ad esempio, che voglia abbracciare il celibato, non dovrebbe mai praticare la castità «come obbligo, ma come scelta di libertà». È certamente possibile «rendere la sessualità libera nella sua conflittualità», ma solo «a condizione di portarla sotto la guida dello spirito». Non ha molta importanza, cioè, se la vocazione è orientata al matrimonio, al sacerdozio o verso altre strade, ma è sempre essenziale che sia lo spirito a guidare il corpo e non viceversa. Altrimenti – scrive l’autore – la sessualità regredisce «al livello della pura genitalità».
Sull’«onda della “rivoluzione sessuale”» sessantottina c’è stata una grande frattura, che ha danneggiato il singolo e la società. In particolare si sono affermati tre errori: «la scissione tra sessualità e procreazione, la sostituzione dell’identità psicosessuale con l’orientamento sessuale e l’aver affermato e proposto l’equiparazione tra eterosessualità e omosessualità». Un tale cambiamento di prospettiva – continua Gobbi – «è lentamente penetrato nella Chiesa cattolica ed è stato il cavallo di Troia» che ha messo in discussione la verità su Dio e sull’uomo, «creato a sua immagine, maschio e femmina». Al contrario di quanto sostiene il pansessualismo contemporaneo, il linguaggio del corpo, «parole e gesti, è fatto per corrispondere alla verità e non alla falsità, perché la perfezione dell’uomo sta nella verità».
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