Viandanti verso Emmaus

 

III Domenica di Pasqua (Anno A)

(At 2,14.22-33; Sal 15; 1Pt 1,17-21; Lc 24,13-35)

 

di Alberto Strumia

 

Sembra di potere riconoscere un parallelismo tra il passo del Vangelo di Giovanni, che abbiamo letto nella terza domenica di Quaresima, e quello, dell’Evangelista Luca, che abbiamo ascoltato oggi, terza domenica di Pasqua.

In entrambe le descrizioni:

– quella dell’incontro di Gesù con la donna samaritana, al pozzo di Giacobbe, prima della Sua Passione

– e quella dell’incontro di Gesù con i discepoli di Emmaus, dopo la Sua Risurrezione, lungo la strada verso Gerusalemme,

il Signore dimostra di essere veramente il “vincitore”.

= Il “vincitore” della faticosa monotonia della vita ripetitiva – e apparentemente senza un ultimo scopo – di ogni giorno, che vede la samaritana costretta ad andare quotidianamente al pozzo per ripetere il gesto di tirare su l’acqua e portarne il peso fino a casa («e il pozzo è profondo» ben trentadue metri!)

= E il “vincitore” della tristezza, rassegnata per disperazione, che si annida nell’intimo del cuore umano, pieno delusione, dei discepoli di Emmaus, per avere perduto la speranza di quel “senso della vita” che avevano sperimentato con Lui.

Questo è il senso di inutilità e di delusa tristezza che ognuno di noi sente pesargli sul collo, dopo che ha esaurito le sue forze, nella lotta contro il male e il tempo che lascia sfuggire la vita («Vanità delle vanità, dice Qoelet, vanità delle vanità, tutto è vanità. Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole?», Qo 1,2).

In entrambi i passi del Vangelo, Gesù fa toccare con mano, parola dopo parola, passo dopo passo, che Lui con la Sua Passione, Morte e Risurrezione è “il vincitore” di questa “tristezza dell’esistere”, che conduce chi ha esaurito l’energia per lottare contro i mulini a vento delle illusioni, e incomincia a rendersene conto; il vincitore del taedium vitae, del fastidio annoiato della vita.

Il modo in cui il Signore lo fa toccare con mano, è quello di affiancarsi all’essere umano lungo la strada di questa quotidianità: inizialmente senza che ci se ne accorga. Poi, nella misura in cui non lo si allontana, ma lo si prende in considerazione affidandogli, un po’ alla volta, la propria penosa vicenda, la luce della speranza viene inaspettatamente riaccesa, per il solo fatto di stargli vicino.

Cristo fa sperimentare il “potere ricostruttivo” della persona umana, che si ritrova ricollocata nella “giusta” posizione, nel “giusto modo” di rapporto con sé stessa e con gli altri, per il fatto di essere ricollocata nel “giusto modo” di rapporto con Dio Creatore.

Gesù insegna ai discepoli di Emmaus il “modo giusto” di fare l’esegesi della sacra Scrittura («spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a Lui»), e quindi di comprendere l’intera storia dell’umanità: le “ragioni buone” del Creatore nel volere l’esistenza di tutto ciò che esiste, che sono racchiuse nella Sua Persona («Tutto è stato fatto per mezzo di Lui, e senza di Lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste», Gv 1,2-3).

Tutto questo percorso di scoperta (“rivelazione”) della “verità della vita” e di “verità della storia” corrisponde talmente alla “realtà” dell’essere umano e di tutte le cose che «essi dissero l’un l’altro: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?”».

Ma «quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano». E in effetti bisogna andare più lontano, fino alla Trinità, per essere per sempre al “proprio posto”. E Lui lo vuole far capire loro.

«Ma essi insistettero: “Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto”. Egli entrò per rimanere con loro». Questo Suo accettare di fermarsi per il tempo della storia, con gli uomini, è la logica dei Sacramenti, dell’Eucaristia, che Lo rende presente nella provvisorietà del nostro tempo, insegnando contemporaneamente che si deve «andare più lontano», poi, nell’Eternità, e così «Egli sparì dalla loro vista». L’importante è il punto di arrivo di entrambi gli incontri: la samaritana lo riconobbe come il Messia Salvatore («“Signore, vedo che tu sei un profeta!” […] “Che sia lui il Cristo?”») e i discepoli di Emmaus come il Cristo nel quale avevano ritrovato quella fede che avevano praticamente perduto (ma «Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero»).

È la fede che, oggi, quasi tutti sembrano proprio avere perduto, perfino nella Chiesa, e a tutti i livelli di responsabilità. Ma, come allora il Signore si è già affiancato, anche adesso agli uomini e alle donne del nostro momento storico, che lo vede morto e sepolto dalle ideologie, dalle false culture, dal ritorno al paganesimo più volgare e superficiale, dalle false religioni vecchie e nuove. E questi, per ora, nella quasi totalità non lo riconoscono. Eppure, le culture del mondo si sono nutrite per secoli e secoli della Sua dottrina e della Sua Presenza reale. E ancora beneficiano degli ultimi ricordi di Lui, che «fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo».

Come allora lo stesso Signore della storia, al momento giusto, si farà nuovamente riconoscere: il Vangelo di oggi ne è profezia, per il nostro tempo. E dirà alle donne e agli uomini del mondo, come agli uomini di Chiesa che ancora ci saranno, intristiti da una vita divenuta insopportabile senza di Lui: «Stolti e lenti di cuore a credere»!

Maria che, invece ha creduto alle parole dell’Angelo («Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore», Lc 1,45), sta già preparando, quasi inosservata, l’accoglienza in quella casa che ospitò quei discepoli, con Lui, per quella cena della fede ritrovata.

 

Bologna, 23 aprile 2023

 

 

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