di Giorgia Brambilla
«Dopo la selezione restano due sani maschietti e due sanissime femminucce. Nessuno naturalmente predisposto alle più gravi malattie ereditarie. Non rimane che scegliere il candidato più confacente. (..) Dunque, avete specificato: occhi nocciola, capelli scuri e pelle chiara. Mi sono permesso di eliminare ogni affezione virtualmente pregiudizievole: calvizie precoce, miopia, predisposizione all’alcolismo e alle droghe, tendenza alla violenza, obesità. Fate che vostro figlio parta in posizione di vantaggio. Purtroppo, abbiamo già abbastanza difetti innati, no? Potreste concepirne naturalmente altri mille, mai otterrete un risultato simile» (dal film “Gattaca”).
L’era postgenomica, quella che ha fatto seguito allo Human Genome Project, è dominata da questo desiderio di onniscienza, di conoscere e comprendere il tutto dei sistemi complessi, di descrivere l’informazione genetica per prevedere i fenomeni biologici ed intervenire per modificarli nel loro sviluppo. Quando venne ideato il Progetto Genoma Umano, non si immaginava minimamente che, poco più di vent’anni dopo, il sequenziamento di un intero genoma avrebbe richiesto meno di un giorno. È stato proprio l’aumento della velocità di sequenziamento, allora impensabile, insieme all’abbattimento dei costi, ad aver permesso l’accumulo di una grande quantità di dati genetici.
Proprio alla luce di questi risultati, si è cominciata a ipotizzare la “terapia genica”, ovvero il trattamento di una malattia genetica, mediante l’introduzione nel paziente di un gene normale che sostituisce il gene malato, oppure è in grado di risolvere gli effetti del gene mutato. Il gene editing, attualmente, costituisce il culmine di questi interventi terapeutici di precisione sul genoma, che non solo non è esente da rischi, ma rischia di tramutarsi in un biopotere che reifica il soggetto e modifica la relazione tra le persone, rendendo alcuni “editors” e altri “edited”, specialmente se questo avviene nel contesto riproduttivo.
C’è qualcosa che ci turba nell’immaginare fattibile tutto questo, c’è qualcosa che ci sconvolge guardando film su questo argomento – tra tutti il più famoso è sicuramente “Gattaca”. Eppure, pare che proprio questo film abbia ispirato una startup del New Jersey, la “Genomic Prediction”, che tramite il suo CEO, Laurent Tellier, ha affermato di poter utilizzare l’analisi del Dna per prevedere quali embrioni, ottenuti tramite fecondazione in vitro, avrebbero meno probabilità di ammalarsi (di 11 patologie) o maggiori chance di essere più bassi e meno intelligenti dei “vicini di provetta”. Nelle prossime settimane è prevista la pubblicazione di un case study sui primi “clienti” (vedi qui).
Sostituendo con un atto tecnico l’abbraccio dei corpi, si perverte la relazione con il figlio. Questi non è più un dono, ma un “atto dovuto” nella misura in cui la coppia che desidera un bambino abbia il diritto di esigere che la società ponga a sua disposizione la tecnica richiesta per soddisfare un tale desiderio. Il desiderio di avere un bambino è uno dei desideri più stimabili che esistano, ma in questo modo si tramuta in pretesa narcisista, che si discosta dall’amore a cui la genitorialità deve continuamente tendere. La genitorialità sembra messa davanti all’ottica consumistica: dal poter al dover avere il miglior figlio possibile, fino a degenerare in una cultura dello scarto che “restituisce” il figlio prodotto con la fecondazione artificiale se non è conforme alle aspettative, come è successo a Giovannino (vedi qui).
Quando la Bioetica parla del mutamento di prospettive avvenuto con la rivoluzione tecnologica ragiona sul passaggio avvenuto tra tecnicamente possibile e eticamente accettabile. Io aggiungerei un passaggio intermedio. Cosa rende una tecnica, prendiamo ad esempio lo screening genetico prenatale (diagnosi prenatale e/o diagnosi preimpianto), desiderabile a tal punto da quasi non poterne fare a meno? Le possibilità che oggi la scienza propone entrano a far parte della nostra percezione della realtà, al pari di come il consumismo crea bisogni piuttosto che soddisfarli. Pertanto, ciò che avviene è la creazione non solo di aspettative, ma proprio di nuovi standard a cui conformarsi. Ed è il confronto con questa realtà a mutare poi il sistema valoriale. Il “tecnicamente possibile” muta il nostro approccio alla realtà generando bisogni, insoddisfazione e dunque nuovi bisogni. È qui che avviene il passaggio da ciò che posso a ciò che devo.
Alcuni questo pensiero l’hanno addirittura strutturato, come l’australiano Julian Savulescu che parla di “procreative beneficence” (J.Savulescu, Procreative Beneficience: Why We Should Select The Best Children). Ma “miglior figlio” secondo quale punto di vista? Dei genitori? Della società? Si pensi, ad esempio, al caso Duchesneau-McCollough del 2002: due donne che, volendo un figlio sordo come loro, ricercarono un donatore con cinque generazioni di sordi tra i progenitori. Infatti, per loro come per gli altri membri del “Deafpride”, essere sordi non costituiva una menomazione, ma motivo di orgoglio. Le due donne riuscirono nel loro intento e Gauvin, il bambino, è privo dell’udito dalla nascita (M.Driscoll, Why We Chose Deafness for Our Children, in “Sunday Times”, 14/4/2002).
Scrive Hans Jonas che quella dei genitori nei confronti dei figli, «è la più grande di tutte le incognite che, tuttavia, non può essere inclusa proprio nel dominio della responsabilità totale. Appunto quello che nei suoi effetti sfugge al controllo del soggetto responsabile, la causalità autonoma dell’essere affidatogli diventa, quindi, l’oggetto ultimo del suo dovere di tutela. In relazione a questo orizzonte trascendente, la responsabilità, proprio nella sua totalità, non può tanto avere la funzione di determinare quanto quella di rendere possibile, ossia rendere disponibile e tenere aperto» (H.Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica).
E, in effetti, è proprio questo il problema morale della responsabilità di fronte alla libertà: è bene che si faccia tutto ciò che è in nostro potere di fare? È arrivato il momento di riflettere sul significato dell’essere genitori e sul dovere di riconoscere al figlio il diritto di essere sorpresa a se stesso. Solo così il nascituro si rende presente nel loro orizzonte, ne relativizza i desideri e domanda di riconfigurare il loro progetto procreativo in modo che nella decisione si tenga conto delle esigenze di piena umanità che la sua accoglienza comporta.
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