Mons. Michel Aupetit e Papa Francesco
Mons. Michel Aupetit e Papa Francesco

 

 

di Mattia Spanò

 

Un articolo di Piero Vietti sul settimanale Tempi riporta alcuni brani dell’intervista aerea a papa Francesco di ritorno dalla Grecia. Il pontefice commenta il caso Aupetit, l’arcivescovo di Parigi che in discussione a causa di un opaco scandalo sessuale. Dice: “Io mi domando: ma cosa ha fatto lui di così grave da dover dare le dimissioni? Qualcuno mi risponda, che cosa ha fatto? E se non conosciamo l’accusa non possiamo condannare… Prima di rispondere io dirò: fate le indagini. Chi lo ha condannato?”.

Aupetit il 25 novembre aveva dichiarato alla stampa: “La parola ‘dimissioni’ non è quella che ho usato. Dimissione vorrebbe dire che abbandono la carica. In realtà, rimetto la carica nelle mani del Santo Padre, perché è lui che me l’ha consegnata”. Attenzione ai dettagli.

Papa Francesco si duole del trattamento riservato ad Aupetit, trattamento che però ha stabilito lui. Lo iato fra pensiero e azione è brusco. Francesco spiega le ragioni del gesto: “Il chiacchiericcio cresce, cresce, cresce e ti toglie la fama di una persona, per cui non potrà governare per quello, non per il suo peccato, che è peccato come quello di Pietro, come il mio e come il tuo, ma per il chiacchiericcio. Per questo ho accettato le sue dimissioni, non sull’altare della verità ma sull’altare dell’ipocrisia”.

Il pettegolezzo è un architrave di questo pontificato: contro, il papa si è pronunciato infinite volte. Cos’è il pettegolezzo, se non la propagazione deformata di un dato irrilevante e perciò maligno?

L’espressione “ho accettato le sue dimissioni non sull’altare della verità ma su quello dell’ipocrisia” appare problematica, e soprattutto poco immediata: papa Francesco stigmatizza il pettegolezzo su Aupetit, e d’altro canto cede rovinosamente proprio a quest’ultimo. Certo: si può sostenere che il papa ritenga Aupetit incapace di governare la sua diocesi perché lo scandalo d’ora in avanti ne avrebbe vanificata l’azione pastorale. Sebbene in modo sporadico sarebbe interessante dar tempo al tempo per vedere cosa succede davvero senza tranciare l’affare sulla base di uno scenario ipotetico, non sfugga che avrebbe potuto dire: ho deciso di rimuovere Aupetit per lo scandalo che turba i fedeli, lo ringrazio per la sua opera pastorale, gli confermo stima e amicizia. Perfino Matteo Salvini all’allontanamento volontario di Luca Morisi, colpevole di una serata di bisboccia alterata con due ragazzi mercenari (non particolarmente peccatori, secondo il sentimento pontificio), ha avuto parole pubbliche di vicinanza per il suo ex collaboratore. Non può esserci dubbio sul fatto che la statura morale del segretario della Lega e quella del Sommo Pontefice debbano collocarsi su piani sideralmente distanti. Se non sempre nella sostanza, sempre nella forma.

Il papa espone poi una meditazione concisa sulla Chiesa peccatrice (“Quod spelunca vispillonum facta est Ecclesia”, la grotta di ladri da cui è stata tratta la Chiesa: idea già cristallina nel Medioevo) che in poche battute concentra la gerarchia fra peccati veniali e peccati gravi, dove quelli di natura sessuale appartengono ai primi. Sua Santità conclude: “Aupetit è peccatore, come lo sono io, come lo è stato Pietro, il vescovo sul quale Gesù Cristo ha fondato la Chiesa”.

Ho maturato una solida convinzione circa il linguaggio: a prescindere dal livello culturale di una persona e dalla sua padronanza della lingua, dalla sua intelligenza e da quanto pondera le parole, anche il discorso più sgangherato rivela sempre la verità profonda di ciò che l’autore intende e vive. Aggiungo: perfino la menzogna più squallida in qualche misura tradisce la verità di chi la pronuncia. Se non altro, che si è in presenza di un mentitore infingardo e ignorante come un osso di pollo.

Partendo da questo assunto – se fossi un filosofo lo definirei “principio di verificabilità finale del linguaggio” – le affermazioni del Santo Padre sulla vicenda Aupetit presentano alcune incongruenze dalle quali distillare importanti considerazioni.

Le incongruenze. Se il peccato del costituzionalmente peccatore Aupetit è bagatellare, perché accettarne le dimissioni consegnandolo alle brame dei suoi accusatori? Se il papa “sacrifica” Aupetit non sull’altare della verità ma su quello del chiacchiericcio ipocrita, con quale forza e intima coerenza può sferzare il medesimo chiacchiericcio? Poi: quale sarebbe precisamente il valore di una verità qualsiasi, e dove edificarne l’altare? Perché non menzionare il fatto che Aupetit nel rimettere il mandato abbia vigorosamente rigettato le accuse, dando così adito al dubbio che sia il reo confesso che non è? E perché, nell’atto apparente di difenderlo, divulgare i particolari della presunta relazione di Aupetit con una donna, vagheggiando con sussiego di innocenti “piccole carezze” e “massaggi”? Non si tratta di un cedimento al pettegolezzo che tanto affligge Sua Santità? Sono certo che si tratta di “voce dal sen fuggita”, e diamine sì: capita a tutti, ma per quanto detto sopra non sono completamente sereno nel chiudere la faccenda con il sigillo dell’infortunio comunicativo.

Anche perché – e vengo alle considerazioni finali – dalla vicenda umana e pubblica in questione emerge una visione del male non molto originale ma rivisitata in modo imprevedibile: tutti peccatori, numerosissimi peccatucci, qualche peccatone, alla fine la spunta la chiacchiera che presto o tardi sotterra tutti. 

In breve: il male è pop e democratico. Soprattutto storico. Con un neologismo, potremmo parlare di francescofania del male. Lo stimolo lo fornisce lo stesso papa quando, poche parole dopo e restando in terra di Francia, fa cenno ai risultati della commissione Sauvé sugli abusi di preti ai danni di minori negli ultimi decenni: «Quando si fanno questi studi, dobbiamo stare attenti alle interpretazioni. Quando si considera un tempo così lungo, si rischia di confondere il modo di sentire di un problema. Una situazione storica va interpretata con ermeneutica dell’epoca, non di ora. Ad esempio la schiavitù, oggi diciamo che è brutalità ma un tempo c’era un’altra ermeneutica”. Il male sarebbe un modo di sentire un problema. Se senti bene, è un urlo straziante. Se sei sordastro, un ronzìo fastidioso. Se invece non senti nulla, non esiste.

La storicizzazione del male, il suo essere relativo non tanto sul piano spirituale quanto su quello materiale, echeggia da lontano la sofferta sensibilità di Hannah Arendt: “Quel che ora penso veramente è che il male non è mai radicale, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo”. Siccome di funghi ne esistono di ottimi, quando si tira in ballo “l’ermeneutica della schiavitù” non si vede perché uguale delicatezza non debba usarsi con Hitler per un’ermeneutica del nazismo, o Mussolini per quella del fascismo, o Pol Pot, Stalin, Idi Amin: a ciascuno il suo. Un florilegio di interpretazioni cangianti cui non può sottrarsi nemmeno il “titolo storico” di “Vicario di Cristo”, così come appare nell’ultimo annuario pontificio. E difatti il papa non scantona e mostra un certo dignitoso rigore: che “titolo storico” sia. Chi ha creduto, ha creduto quel che voleva ed è morto, e quel che è vero oggi lo stabiliranno i posteri a cadaveri freddi: i nostri. La differenza fra la Arendt e papa Francesco è che la prima descrive il male da dentro e lo chiama per nome, mentre il secondo sembra notarne i sussulti da spettatore un po’ annoiato. Peccatore sì, ma per “titolo storico”. Per la nostra epoca dunque, l’arcivescovo Aupetit non è degno di alcuna ermeneutica comprensiva. 

Occorrerebbe riflettere a fondo su tutte le implicazioni sociali, culturali, morali, civili e politiche che le idee di male e peccato del Santo Padre portano seco, non solo quelle qui appena abbozzate. E se avanza tempo, anche sulle implicazioni cristiane cattoliche apostoliche romane.

 

 

 

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