di Mattia Spanò
I recenti sviluppi delle proteste in Canada, Francia e Belgio, hanno condotto il governo di Trudeau a sospendere i diritti ed instaurare l’anticamera della legge marziale, mentre Macròn fa il richiamo della repressione già attuata contro i gilet gialli. La capitale d’Europa, Bruxelles, è presidiata dalla polizia.
Che la democrazia già agonizzante muoia così addolora, ma non deve stupire. Si può dire che i regimi democratici in cui abbiamo vissuto erano fondati sul benessere di una larga parte della popolazione. L’ancient regime, in Europa, ha chiuso i conti con la storia alla fine della seconda guerra mondiale, ponendo termine ai fascismi. Ma un taglio imposto da chi europeo, anche in senso continentale, non era – americani, russi, inglesi.
Possiamo guardare a questi regimi come l’estremo tentativo di restaurare un potere monocratico. Non per caso la Rivoluzione Francese sfocia nella parentesi neo-imperiale napoleonica. Non per caso Mussolini si richiamava all’antica Roma e Hitler ai miti nibelunghi e agarthiani. Questo potere viene sostituito dal Piano Marshall e dall’opera del poco conosciuto Jean Monnet, il vero padre occulto dell’Unione Europea.
È lì che nasce il mito della ricchezza logaritmica. È lì che l’Europa agricola, dei campi di lavanda provenzali, delle bande di paese, dei caffè letterari e delle università, diventa manifattura industriale.
L’Europa prospera, ma il collante è un ricco quieto vivere stolido, incarnato da una borghesia salottiera dedita alla cura dei gerani che si trastulla con la modernità senza farne davvero parte. Il godimento dei piccoli piaceri personali è l’unico fine apprezzabile. Il galateo è l’arzigogolo sul niente sintomo, Dio sa perché, di acume intellettuale.
I nuovi mondi facenti riferimento al Commonwealth, mondi giovani e brutali sviluppati in verticale, hanno atteso due secoli per vendicarsi dei coloni europei, ingannandoli col benessere e attirandoli in una trappola mortale.
Presto l’europeo, sottomesso dalla pace, ebbro e imbolsito, si è stancato di produrre ed ha appaltato la fatica del lavoro ad altri mondi ancora più lontani e brutali, scoperti ad Oriente. Anche questi in parte contaminati dal Commonwealth – l’India, Hong Kong, l’incursione in Tibet del 1903-1904, l’intervento nella rivolta dei Boxer.
Da un lato quindi l’incudine di un mondo, quello americano, che ha lottato e si è fondato sulla libertà, destinato ciclicamente a combattere contro qualche nemico per fare memoria di sé, a costo di cannibalizzare i suoi figli, come insegnano la pericolante democrazia americana e il caso Trudeau.
Dall’altro il martello della tigre asiatica, del tutto estraneo alla libertà e fondato su una nozione di uomo radicalmente opposta, per non dire inesistente – almeno secondo l’ermeneutica occidentale, che se da un lato è scorretto brandire, dall’altro è inevitabile farlo. Nel mezzo il modello francese, squisitamente europeo, di Macròn. Che non combatte: previene e soffoca il dissenso, per evitare di spettinare i gerani alle finestre di Parigi.
I nuovi mondi hanno le loro gatte da pelare, è bene dirlo: l’ideologia liberal, strutturalmente a-partecipativa e costruita sull’abiura della retorica persuasiva a vantaggio della sodomia culturale, rischia di mandare in pezzi anche loro. Neanche l’ideologia cinese convince, per altre ragioni: domina senza trasmettersi, vince senza espandersi, sottomette senza conquistare.
Se qualcuno ancora si chiede perché in Europa il disprezzo della libertà, il conformismo, la derisione del pensiero non euclideo siano così tetragoni, sappia che all’uomo europeo della libertà non è mai importato un fico. Nemmeno sa dove stia di casa.
Mentre nel mondo anglosassone la libertà è condizione per la prosperità, e l’insuccesso di masse enormi di individui è il prezzo accettato per il benessere di pochi, e mentre in Cina la ricchezza appartiene al partito-nazione-azienda e l’iniziativa personale appare un concetto velleitario, in Europa la libertà è prosperità.
Condizione della libertà è che o la si adotta come motore immobile di tutte le cose, o la si rifiuta in toto. In ogni caso, la si rispetta. Ciò che essa non perdona è il fatto di attribuirle una sostanza diversa. Il tradimento della libertà, questo infaticabile scambiarla con il tonno vitellato e due settimane al Lido di Camaiore, o mettere incinta una caffettiera se punge vaghezza, ha presentato il conto. Non si può invocare qualcosa la cui natura pigramente si ignora.
Non farò l’errore di predire cosa accadrà. Dico solo che la storia dell’Europa è anzitutto storia del cristianesimo. Il fatto cristiano va, per sua natura, ben oltre l’idea di libertà e di felicità: la materia di cui è fatto è l’adesione alla salvezza di ogni singolo uomo, a qualsiasi condizione data. Non esiste, nell’intera storia umana, un fenomeno nemmeno lontanamente paragonabile, nelle premesse e nelle ambizioni, al fatto cristiano, capace di premiare tanto le moltitudini quanto l’uomo più piccolo e nascosto.
Chi dicesse che gli alfieri della riscoperta delle radici cristiane sono quasi sempre ignoranti come scarpe e ipocriti, avrebbe ragione. Ma la ragione si lascia volentieri ai detrattori, a patto di non confondere il dito con la luna. Anche l’avversario più accanito deve domandarsi quanto del proprio pensiero si definisca in relazione al fatto cristiano. Togliete l’antagonista da qualunque film, e nessuno vorrà vederlo.
La libertà non è mai stata un fine apprezzabile. Questa morsa totalitaria discende direttamente da un’idea perturbata e falsa di libertà, ed anzi può essere l’occasione di abbandonarla definitivamente. Ciò che conta è la salvezza. Questo è ciò che gridano tutte le piazze del mondo: salvezza da questo sfacelo. Non libertà. La salvezza è il riconoscimento che Dio c’è, e va lasciato fare.
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