Di seguito l’intervista al filosofo cattolico francese Fabrice Hadjadj, a seguito della pubblicazione della sua ultima fatica editoriale: A moi la gloire [A me la gloria], Salvator, 2019. Da Figaro Vox l’intervista a cura di Eugénie Bastié, in traduzione dal francese di Silvio Brachetta: «L’ultimo libro del filosofo Fabrice Hadjadj è un inno alla gloria, che – lungi dall’opporsi ad essa – va di pari passo con l’umiltà. Riabilita la ricerca della gloria come rimedio al regno dell’utilità ed è un modo di celebrare la vita in tutte le sue forme».

 

Fabrice Hadjadj

Fabrice Hadjadj

 

I cattolici tendono a enfatizzare l’umiltà piuttosto che la gloria. È un errore?

 

Quando un predicatore sale sul pulpito e si mette sotto i riflettori per sostenere la modestia, possiamo giustamente pensare che ci sia qualcosa di sbagliato… L’umiltà è una virtù specificamente cristiana, ignorata dai pagani, perché suppone la rivelazione tragicomica di un Dio che si umilia fino al punto da fare di se stesso il carpentiere ebreo che viene crocifisso come malfattore a trentatre anni.

Al contrario, la principale virtù pagana è legata al desiderio di gloria: Cicerone la chiama “magnanimità” (da magna anima, la “grande anima”). Ne La congiura di Catilina, Sallustio afferma che l’aspirazione alla gloria, vale a dire il desiderio di distinguersi, è precisamente ciò che ci differenzia dalle bestie. Senza di essa, non ci sarebbe alcun senso di sacrificio e, quindi, nessuna repubblica [romana], dal momento che non si mirerebbe a nulla di più grande dell’interesse immediato. Inoltre, in greco, “virtù” è detta areté, che può tradursi con “eccellenza”.

La domanda è duplice. In primo luogo, essa riguarda il rapporto tra paganesimo e cristianesimo: esiste una totale opposizione tra i due, oppure il secondo supera il primo, assumendolo pienamente? Inoltre, se l’umiltà non avesse nulla a che fare con il desiderio di gloria, non si sfuggirebbe alla critica di Nietzsche: l’umiltà è negazione di sé e il cristianesimo non è altro che un nichilismo; oppure è un desiderio di gloria vergognosa – una strategia dei deboli per soppiantare i forti – e il cristianesimo non sarebbe altro che ipocrisia.

 

La ricerca della gloria non è, dunque, necessariamente malsana?

 

Non c’è nulla di più sano, perché è un “appetito” [nel senso aristotelico di “desiderio”, ndr] molto naturale. E non c’è nulla neanche di più umile, poiché non c’è gloria senza un altro che ci glorifica. Jacques Bossuet, nel suo discorso d’insediamento all’Accademia di Francia, osserva che la gloria si sdoppia in gloria degli eroi e in gloria dei poeti, e che gli uni non potrebbero esistere senza gli altri.

Per essere gloriosi, non è solo necessario che l’impresa abbia avuto luogo: per diventare memorabile, dev’essere anche cantata. Si può pensare che l’indebolimento della politica sia strettamente legato all’indebolimento della poetica. Una buona azione è un’azione degna di lode, di modo che la sua nobiltà sia misurata dal prestigio dei canti che ha il diritto di aspettarsi. Dove non c’è più il canto epico, non c’è più la possibilità d’eroismo.

Dove troviamo soprattutto spettacolini sentimentali, siamo spinti ad agire con sentimento. Victor Hugo parlava poi della «seria funzione» del poeta: «Sta a lui sollevare, quando se lo meritano, eventi politici alla dignità degli eventi storici».

La sostituzione del poeta con l’uccellino di Tweeter si traduce in un ronzio, che è una vanagloria e che ci spinge alle provocazioni spettacolari, piuttosto che alle azioni nobili. Per di più, l’intero dispositivo tecnologico dei social network, con i suoi post, selfie o storie, si nutre del nostro appetito inestirpabile per la gloria, dandogli una “accessibilità” che si perde in volgarità e insignificanza…

Per tornare al legame tra gloria e umiltà, posso essere glorioso solo se c’è qualcuno più grande di me. Il vero riconoscimento non può provenire che da uno alla pari. Se la mia letteratura è applaudita da una folla d’ignoranti, mi porta molta meno gloria che se ricevesse le lodi da un singolo grande scrittore. L’uomo con un occhio solo è il re tra i ciechi, ma la vera incoronazione può essergli data solo dall’aquila.

 

Il cristianesimo, quindi, non cambia nulla al paganesimo nella sua visione della gloria?

 

Ci sono le parole [del Vangelo]: «chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato» [Lc 18, 14]. Si tratta sempre di essere elevati, ma per mano divina, e considerando che la prima gerarchia è quella del servizio. Il potente non è colui che ha bisogno di schiacciare gli altri e usarli come trampolini di lancio per il suo podio; è invece colui che è in grado di scendere per salvarli e permettere loro di donare, a loro volta.

Allo stesso modo, il più glorioso non è colui che abbaglia, ma colui che illumina. A forza d’illuminare gli altri, a volte svanisce nella sua luce. Nella logica dell’Incarnazione, che è quella dell’amore del prossimo, emerge anche un’eroicità critica nei confronti dell’eroismo. Un ragazzo che vuole fuggire ogni giorno per combattere i draghi è un tipo losco. I draghi sono più gestibili delle suocere, le foreste siberiane sono spesso meno stressanti delle riunioni di famiglia. E allora perché combattiamo, se non per difendere una casa, una patria e quindi la vita ordinaria?

Queste cose semplici, tra l’altro, richiederanno sempre più eroicità. Al tempo della devastazione tecno-capitalistica sarà sempre più difficile essere un padre e una madre con figli (compresa una piccola con la sindrome di Down) e commentare una favola di La Fontaine, mangiando una zuppa preparata con verdure dell’orto. Eraclito disse che anche gli dei sono in cucina. La gloria troverà rifugio nella tavola di famiglia. Il Cristo risorto non trova niente di meglio da fare che condividere i pasti con i suoi discepoli e spiegare loro la Parola.

 

Nel tuo libro affronti anche la gloria della creazione, specialmente attraverso un elogio sorprendente del pavone. In che modo questo animale manifesta la gloria per eccellenza, intesa come il superamento dell’utilitarismo?

 

In una lettera, Darwin afferma: «La coda del pavone mi fa star male». Questa enorme coda, con cui il maschio espone il suo maestoso ventaglio per sedurre la pavonessa (è pronunciato come “rottura”) [qua c’è un gioco di parole tra i vocaboli francesi paonne (pavonessa) e panne (rottura), ndr], non si sposa molto bene con la teoria della selezione naturale. In che modo questo meraviglioso ornamento è un vantaggio nella lotta per la sopravvivenza? In che modo la coda aiuta a sfuggire ai predatori? Gli utilitaristi troveranno sempre qualche argomento, dicendo, ad esempio, che ciò consente agl’individui più dotati e in grado di permettersi tale lusso, di riprodursi. Ma qui si sta invertendo l’ordine delle cose, perché diremo che se l’uccello canta e se è adornato con il piumaggio più favoloso, lo scopo è, prima di tutto, quello di preservare se stesso o la sua specie.

Con ciò, non spieghiamo perché esiste una pluralità così variegata di animali; ed è persino assurdo che la vita sia iniziata: nell’autoconservazione [della specie], è meglio essere un ciottolo. In verità, l’uccello non canta per preservare se stesso; è preservato (cantando, senza dubbio), ma per cantare – in modo che tale canto specifico, tale piumaggio originale, continui a irradiarsi nel mondo.

Mi affido qui al lavoro del grande zoologo svizzero Adolf Portmann, autore de La forma degli animali, e sulla lettura che ne ha fatto il filosofo belga Jacques Dewitte. Lo scopo dei viventi, secondo Portmann, non è l’autoconservazione ma l’auto-manifestazione. La natura non smette d’inventare le figure visibili e singolari della fantasia più profonda: lo struzzo, il riccio di mare, il pidocchio, il pavone, il bue muschiato o tu, cara Eugénie…

L’idea che tutta questa diversità colorata di forme sia ridotta al monotono bisogno di salvare la pelle è insostenibile e, se ne siamo convinti, è perché ciò lusinga la nostra meschinità, le nostre piccole bazzecole quotidiane. La coda del pavone ci mette in imbarazzo perché ci costringe a sembrare grandiosi.

 

Si critica spesso l’apparenza per predicare l’autenticità ma, al contrario, si ripristina la grandezza dell’ornamento. Perché? Sei dalla parte di Baudelaire, che nel suo “Elogio del trucco” si oppone alla natura e alla bellezza?

 

Quel che è certo è che non sto dalla parte di Rousseau, che giudica ingannevoli le apparenze e fa riferimento a una non so quale spontaneità sconsiderata. L’apparenza è l’essere che si dà da vedere agli altri. Vi è quindi una generosità di apparenze. Senza dubbio esiste una civetteria infelice, che si maschera e cerca d’ingannare. Ma c’è anche, come ha cantato molto bene il poeta Henri Raynal, una civetteria virtuosa, con la quale la donna si prende cura delle apparenze, cerca il vestiario, che funge da ostensorio al suo mistero; inventa con tessuti una scultura fluida, che sposa il suo corpo e la sua condizione. Eccola qui: leopardata, zebrata, con fiori, con quadretti, con squame, con gioielli, ben prima di essere capelluta.

Si potrebbe pensare che [la donna] sia quindi più artificiale [se ornata], mentre è piuttosto il contrario: da sola riassume tutta la natura, assume la biodiversità. Ripeterò quindi l’elogio di Baudelaire, ma appuntandolo su un principio completamente opposto: con l’ornamento, non si tratta di affermare una bellezza che ci separa dalla natura, ma che la coltiva e la corona. Si tratta cioè di diventare l’animale degli animali, la creatura che riassume tutta la creazione.

 

Il tuo libro è un inno alla gloria della vita in tutte le sue forme. Come filosofo, qual è la tua opinione sugli attuali sviluppi bioetici, che consentiranno [in Francia, ndr] una generalizzazione delle tecniche di riproduzione artificiale?

 

Su questo argomento, non sono reazionario, sono semplicemente primitivo. Ciò che si gioca oggi non è l’assistenza alla procreazione, ma il passaggio dalla procreazione alla produzione.

Questo è il motivo per cui la bioetica è spinta a sottomettersi sempre di più alla deontologia di un produttore: offrire un articolo abbordabile, conforme alla domanda (sociale), senza difetti e con un servizio post-acquisto. Non venderemo comunque iPhone difettosi: quindi, mediante la provetta, dobbiamo realizzare prodotti di qualità, secondo i desideri del cliente. In un mondo, però, nel quale tutto è fabbricato, calibrato, mercificato e innovativo, sembra sempre più miracoloso non uscire da un’incubatrice e sempre più rivoluzionario il permettere ai bambini di nascere per via carnale.

Innanzitutto è molto piacevole [riprodursi carnalmente, ndr] (ma non condanno chi preferisce masturbarsi nelle cabine). Poi ci si pone in continuità con il regno animale e vegetale (ma non impedisco ad altri di accoppiarsi con le macchine o di invitare molti esperti nei loro letti). Infine, [l’unione carnale, ndr] fa apparire i bambini come un dono, dalla profondità del tempo, dalla profondità della vita stessa, e non come i prodotti di un calcolo, con stime e obblighi di prestazione.

La protesta del 6 ottobre [Manif pour Tous a Parigi, ndr] è stata così bella che, nonostante i suoi slogan, non ha sostenuto nulla, ha difeso qualsiasi partito e non si è riferita a nessuna ideologia. Era uno spettacolo senza scopo – per la gloria. Essa ha manifestato coloro che hanno manifestato. Ovvero, ha manifestato il semplice dono del corpo umano, il fatto che ci siano uomini, donne e bambini e che i bambini nascano da un uomo e una donna. È andata così, nessuno lo ha scelto, nessun comitato nazionale, nessuna assemblea lo ha deciso. E se acconsentiamo a questo dato come a una provvidenza, non diciamo di sì solo a ciò che ci si addice, ma diciamo sì al mondo, sì all’essere, sì alla condizione umana, drammatica così com’è. Niente è più glorioso di questo.

 

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